Berlinguer in Italia ha rivoluzionato il comunismo, non inchinandosi all’Urss e preferendo la Nato - THE VISION

Il 3 ottobre del 1973, Enrico Berlinguer si trovava a Sofia per un incontro con Todor Zhivkov, segretario generale del Partito comunista bulgaro. Al rientro, su una Čajka nera scortata da altri veicoli sulla strada verso l’aeroporto, un camion che trasportava pietre apparve dal nulla e inchiodò davanti all’automobile che trasportava il leader del Partito comunista italiano, un interprete e due funzionari bulgari. L’impatto fu inevitabile e devastante. L’interprete morì sul colpo. Gli altri passeggeri, compreso Berlinguer, restarono feriti. Dopo una breve convalescenza in ospedale e il ritorno in Italia, Berlinguer apparve scosso, ma disse ai suoi più stretti collaboratori e alla famiglia di mantenere il riserbo sull’accaduto. Soltanto nel 1991, con l’intervista a Panorama di un suo uomo fidato, l’allora dirigente di partito Emanuele Macaluso, emerse lo scenario di un ipotetico attentato orchestrato dal Kgb. Sospetti che furono condivisi anche dalla moglie Letizia e, nel documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer del 2014, anche dalla figlia Bianca. Sospetti, appunto, perché la verità non venne mai appurata. Restano i fatti, ovvero la linea del leader del più grande partito comunista occidentale che andò apertamente contro il dogma sovietico, segnando una svolta storica negli equilibri geopolitici.

Per comprendere l’importanza di Enrico Berlinguer nel panorama politico nazionale e internazionale occorre fare un passo indietro. Dal secondo dopoguerra, il Partito comunista italiano partecipò attivamente alla rinascita del Paese e alla stesura della Costituzione. Allo stesso tempo, il rapporto con l’Unione sovietica restava saldo, a tal punto da incappare inizialmente negli stessi errori del Partito comunista dell’Unione sovietica (Pcus) salvo poi riconoscerli più tardi. Il 6 marzo 1953 L’Unità, organo stampa del partito, diede la notizia della morte di Stalin scrivendo in prima pagina “Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”. Lo stesso giorno, Palmiro Togliatti tenne un discorso alla Camera dei Deputati in cui definì Stalin “un gigante del pensiero e un gigante dell’azione”. Lo stesso Togliatti con gli anni, soprattutto dopo l’invasione dell’Ungheria del 1956, cercò di revisionare alcuni tratti del comunismo di stampo sovietico, tentando la “via italiana al socialismo”. Si distaccò dagli stalinisti del partito e chiese al PCUS di approcciare con più flessibilità il pensiero leninista. La desovietizzazione non andò in porto e mentre la Dc veniva sostenuta e finanziata dagli Stati Uniti, il Pci ricevette lo stesso trattamento da parte di Mosca.

Iosif Stalin, 1927
Palmiro Togliatti

Sul finire degli anni Sessanta, qualcosa iniziò a cambiare. Il cammino di Berlinguer verso una democrazia e un partito indipendente dall’Unione sovietica avvennero prima ancora della sua elezione a segretario generale nel marzo 1972. Nel 1968 la Primavera di Praga sconvolse infatti gli equilibri del Pci. L’allora segretario Luigi Longo incontrò e sostenne il leader del partito cecoslovacco Alexander Dubček, che stava ponendo le basi per un nuovo approccio al socialismo all’interno del suo Paese. L’intervento militare in Cecoslovacchia dei militari del Patto di Varsavia per fermare Dubček fu criticato da parecchi esponenti del Pci, mentre la corrente più filo-sovietica del partito, rimase ancorata alla difesa dell’azione sovietica. 

Praga, 1968

Da alcuni documenti desecretati della Cia, emergono le valutazioni statunitensi relative a quel periodo. Viene citato Berlinguer tra i politici più critici verso le azioni sovietiche, e la conferma arrivò con il discorso che tenne nel giugno 1969 a Mosca durante la Conferenza internazionale dei partiti comunisti, parlando dopo Breznev. Nessun dirigente straniero aveva mai usato dei toni così duri e critici in una conferenza in terra sovietica. Disse che non poteva esistere un modello unico di società socialista e che la sostanza stessa del marxismo prevedeva delle realtà “storicamente determinate e irripetibili”. La sua presa di posizione creò due fazioni all’interno del Pci. Nei documenti della Cia si legge come la spaccatura interna al partito era tra l’ala legata a Giorgio Amendola, ovvero quella che intendeva riavvicinarsi al Pcus e ricucire i rapporti incrinati dopo i fatti di Praga, e quella di Berlinguer, che invece intendeva proseguire la sua azione a sostegno di un comunismo democratico, rileggendo il marxismo in una chiave nuova rispetto ai totalitarismi generati nel Novecento. Prevalse la seconda fazione, e secondo la Cia i candidati più forti alla successione di Longo erano Berlinguer e Giorgio Napolitano. Ebbe la meglio Berlinguer, che nel 1972 venne eletto segretario del partito, dando il via alla sua rivoluzione. 

Si è discusso più volte riguardo il compromesso storico, il rapporto con Aldo Moro e la politica interna di Berlinguer, ma troppo spesso viene sottovalutata la sua azione internazionale. Berlinguer diventò un punto di riferimento dell’eurocomunismo, intrecciando rapporti con i partiti comunisti di Francia e Spagna con l’intento di distanziarsi dall’influenza di Mosca e rivendicare una nuova via socialista. Nella sua visione, il Pci doveva diventare un partito autonomo, ma l’Unione sovietica non la condivideva. Sono ancora i documenti della Cia a svelare i retroscena. Nel 1975 il direttore dell’intelligence americana William Colby comunicò al Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger una netta diminuzione dei finanziamenti al Pci negli ultimi anni da parte del Pcus. Come data della svolta viene indicato il 1968, anno della Primavera di Praga, e con l’arrivo di Berlinguer alla segreteria del partito i fondi diminuirono ancora. Sempre negli stessi documenti vengono delineate le correnti interne nel Pci: l’area di Berlinguer – che nelle pagine della CIA non viene mai citato come uomo vicino agli Stati Uniti, ma più legato al pensiero “né con gli Stati Uniti né con Mosca” –, i socialdemocratici di Napolitano e Lama e gli “stalinisti” di Armando Cossutta. Il rapporto della Cia parla della scelta di Berlinguer di escludere Cossutta dalla segreteria nazionale del partito come l’ennesima dimostrazione dell’allontanamento del Pci da Mosca.

Giorgio Napolitano (centro) e Giorgio Amendola

Enrico Berlinguer a Milano

 

Berlinguer si scontrò con il Pcus anche in seguito all’invasione dell’Afghanistan nel 1979 e al colpo di Stato in Polonia del dicembre 1981, ma il riassunto del suo pensiero e dei suoi intenti politici si trova in un’intervista ancora precedente concessa a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera nel 1976. Di solito schivo con i giornalisti e poco propenso a rilasciare interviste ai giornali, decise di esporsi per chiarire un concetto: “Mi sento più protetto sotto l’ombrello della Nato”. Nel bipolarismo della Guerra fredda fu una dichiarazione che restò nella Storia. Qualcuno potrebbe cedere a riflessioni superficiali, parlando di un rigurgito di atlantismo o di un occhiolino agli Stati Uniti. Non fu così. Berlinguer fu chiaro con Pansa nell’esporre la sua visione: “Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là”.

L’Invasione dell’Unione Sovietica in Afghanistan, 1979
Soldati sovietici a Legnica, Polonia 1981

Berlinguer era consapevole che gli Stati Uniti non avrebbero mai accettato alcuna rivoluzione socialista in Italia. Preferire la Nato al Patto di Varsavia non era dunque un avvicinamento agli Stati Uniti ma la consapevolezza di un cambiamento necessario da attuare per occidentalizzare il Pci e inserirlo in un contesto democratico rendendolo non più suddito di Mosca, ma in grado di concepire la Nato come un’organizzazione di difesa e non come uno strumento dell’imperialismo statunitense. Quelle le avrebbe sempre condannate, ma Berlinguer comprese l’inevitabile declino dell’Unione sovietica ben prima del crollo del muro di Berlino, avvenuto dopo la sua morte. 

Parata militare a Mosca, 1985

In questi giorni il tema della necessità di fare parte della Nato e della sua efficacia è tornato sotto i riflettori in seguito alla scelta di Putin di invadere l’Ucraina. I difensori del Presidente russo giustificano la sua azione parlando di un’espansione della Nato verso Est a partire dal 1999. Lo fanno come se certi Stati fossero stati invasi e costretti con la forza ad aderire all’organizzazione. In realtà sono state le stesse nazioni a chiederne l’ingresso, avvenuto dopo anni di valutazioni e di requisiti da raggiungere. Anche l’Ucraina ha più volte chiesto l’ingresso, senza ottenere risposta. La motivazione non è riconducibile a un Occidente che fagocita l’Est imponendo il suo credo, ma al desiderio di certe realtà di non essere più Stati-cuscinetto o satelliti della Russia, costretti a un ruolo subalterno e a una scarsa autonomia in politica estera e spesso anche in quella interna. È sbagliata la dicotomia bene-male o l’assolutismo che condanna qualsiasi vicinanza a determinate organizzazioni. Questo Berlinguer l’aveva capito con parecchi decenni di anticipo, rivendicando la libertà di professare il comunismo anche sotto la Nato, e non farne parte con servilismo. Farne parte, ai suoi occhi, voleva dire anche contribuire a migliorarla, ad aumentare il pluralismo e l’opportunità di ampliare le vedute politiche al suo interno. Oggi schierarsi contro Putin e i suoi oligarchi non significa benedire senza condizioni l’Alleanza atlantica, ma condannare un crimine come l’invasione senza motivi evidenti di uno Stato sovrano. Fare parte della Nato richiede anche la capacità di critica e di un pensiero autonomo che Berlinguer considerava il faro della democrazia.

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