Il capitalismo ci vuole soli e divisi. L’antidoto è l’amicizia.

C’è una scena, alla fine de Le conseguenze dell’amore, che mi ricorda sempre una lettera scritta qualche anno fa da un amico, mentre già vivevamo da tempo lontani. È quella finale, in cui il protagonista viene fatto scivolare nel cemento. Nella sua vita non c’è il calore di una famiglia, di una casa, di una compagna. E allora pensa al suo migliore amico, che non vede e non sente da decenni. “C’è qualcosa in un’amicizia che non si può ridurre alle cose visibili,” mi ha scritto questa persona, “qualcosa come una scelta, avvenuta chissà quando.”“Per questo,” proseguiva, “i cavalieri sono fratelli in armi dall’istante del giuramento. L’amicizia è l’inizio di un tempo diverso, in cui si diventa adulti, e si prova insieme nostalgia per le cose perdute e l’angoscia eccitante di un’età nuova.

Secondo Aristotele, che dedicò al tema due libri, l’amicizia non c’entra nulla con concetti come il “piacere” o “l’utilità”: è invece un rapporto che si instaura tra “buoni”, ovvero tra coloro che detengono la virtù; persone alle quali vogliamo bene perché ci permettono di vedere noi stessi, e in loro vediamo realizzate le virtù che vorremmo avere. Eppure, nel mondo contemporaneo e capitalista, l’amicizia riesce a sopravvivere in forme meno ideali di quella sognata dal filosofo di Stagira: diventa infatti un’ancora di salvezza per superare insieme ad altri gli esami del futuro, un ponte per raggiungere quelle “cose belle e necessarie” che secondo lo stesso Aristotele bisognerebbe passare la vita a contemplare.

Farsi degli amici però, man mano che si cresce, sembra essere sempre più difficile. Ne ha parlato il New York Times qualche anno fa. L’autore, Alex Williams, identificava tre condizioni necessarie per stabilire una buona amicizia: “prossimità, interazioni ripetute e non pianificate, e un contesto che incoraggi le persone ad abbassare la guardia e a confidare le une nelle altre.” Tre presupposti che in questa epoca, quando si superano i trenta, sono difficili da trovare. Secondo Jen Doll di The Atlantic, il Times dimenticava un fattore essenziale: le persone si accoppiano, si sposano e fanno figli e riducono il proprio network personale: non c’è tempo per tutto. Si crea così un bivio: chi sceglie la propria famiglia per amico, e chi, restando single, sceglie i propri amici per famiglia. Del resto, ci manca anche che l’amicizia diventi un lavoro extra.

Bisogna intanto riconoscere l’esistenza di diversi mostri sociali che si frappongono tra noi e il tentativo di fare amicizia. Ci sono posti come sedi di partito, meet-up online o assemblee di centri sociali e associazioni, che vengono spacciati per comunità senza che nessuno s’interessi davvero del benessere dei singoli membri; o club esclusivi dove si va per fare amicizia, ma in realtà ciò che si compra è lo status quo del lusso nella sua forma più glaciale. A volte la solitudine, anche se non ha per forza l’aspetto di un individualismo eroico o sembra preferibile allo stare insieme a qualcun altro. L’alienazione creata dalla macchina lavorativa, poi, può essere tanto inconscia e prepotente nella nostra esistenza da allontanare i nostri potenziali amici.

Forse il problema non è tentare di superare l’individualismo in sé, quanto la nostra dipendenza da una solitudine amareggiata che sembra caratterizzare l’inizio di questo secolo.

Scrive Peter Lamborne Wilson, filosofo anarchico piuttosto controverso, che il primo e apparentemente più innocuo ostacolo tra noi e l’amicizia vera è il business: “l’operosità”, ma più in generale l’essere impegnati a essere impegnati, da cui molti di noi sembrano incapaci a fuggire, i negotia di Seneca. Il capitalismo, teorizza Wilson, perché impedisce ogni forma di genuina convivialità. “Non appena un gruppo di amici inizierà a visualizzare degli obiettivi immediati, realizzabili attraverso la solidarietà e la cooperazione, ecco che a uno tra loro sarà offerto il ‘buon’ posto di lavoro,” che finirà per assorbire tutte le attenzioni della persona. Peccato che quasi sempre quel lavoro apparterrà alla categoria che l’antropologo David Graeber ha definito bullshit jobs, i “lavori del cazzo”, lavori ausiliari proliferati moltiplicando quelli produttivi: stagisti messi a fare fotocopie, designer messi a fare grafici tutti uguali, passacarte, riders, personale di call center super-qualificato e depresso.

È come se qualcuno si fosse messo di impegno a creare lavori inutili solo per tenerci tutti occupati. “Nel dubbio tra meno ore di lavoro e più oggetti e divertimenti, abbiamo collettivamente scelto la seconda opzione,” spiega Graeber, mentre per Wilson questa alienazione riesce a funzionare proprio perché distrugge le relazioni sociali di tipo orizzontale. Il capitalismo, secondo lui, favorisce solo i gruppi basati sulla produzione – come ad esempio i colleghi di lavoro – o sul consumo – i gruppi di self-help – o riproduzione – le famiglie nucleari. Sempre secondo Wilson, quello che il sistema ostacola veramente è la convivialità nel suo senso più puro: vedersi allo scopo di giocare, godere della vita, o del piacere reciproco; la pressione a lavorare, consumare e riprodursi sarebbe una forza molto più potente di qualunque esercito o imposizione di legge. La divisione tra lavoro e vita privata ormai è sempre più sfumata e costringe le persone a mansioni che si sovrappongono alla sfera dell’intimità.

In più si mette di mezzo la mobilità. “Circa un milione si trasferisce in uno stato diverso da quello in cui è nato ogni anno,” riportava il New York Times. “E questi giovani inquieti si stabilizzano solo verso la metà dei trent’anni.” Una volta che entriamo nei panni del capo, della sposa, o del genitore – e succede sempre più tardi – la nostra vita entra in una fase nuova, ed è complicato tessere i fili di nuove amicizie. La compagnia e la condivisione in queste fasi potrebbe esserci preziosa, ma è difficile dargli la priorità in un’agenda esistenziale tanto frenetica. Per questo tendiamo a idolatrare le nostre amicizie infantili, quelle inossidabili. Come dimostrato da diversi studi psicologici, infatti,  queste amicizie si trasformano in un bene-rifugio, una forma di protezione rispetto ai continui esami – e alle potenziali delusioni – dell’attualità; perché si tratta di legami in cui gli individui non esercitano potere sugli altri per il proprio torna conto; nessuno desidera comandare, o ubbidire a degli ordini per compiacere.

Ma c’è un altro aspetto, più preoccupante. In questa lotta dall’esito incerto tra desiderio di l’amicizia e alienazione: la limitatezza e l’incompiutezza delle nostre scelte. È così consolidata in noi l’abitudine a farci giudicare, che anche l’amicizia più genuina non può non essere vincolata a prospettive di realizzazione comuni, al partecipare a una comune avventura.

Il dio della competizione è così interiorizzato che pensare a un’amicizia pura, fine a se stessa, è quasi impossibile. Ma è altrettanto vero che, alla fine, quelli che non si arrendono lotteranno per una nuova società, crescendo al di fuori del guscio confortante dell’infanzia e dei luoghi d’origine, disertando e perdendosi, e poi ritrovandosi: le amicizie resisteranno. Sulla distanza, nell’assenza, getteranno le basi per la resa dei conti con il presente.

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