“L’amica geniale” segna il rinascimento di Napoli e della TV italiana

C’è una parte di me che non accetta una cosa: parlando de L’amica geniale, qualcuno potrà dire: “I libri? No, non li ho letti. Ho visto la serie”. Prima di vedere la serie, i libri io li ho letti. Ho cominciato per farmi una mia idea dell’opera di maggior successo di Elena Ferrante – presentata da molta critica come una sorta di Harmony con il Vesuvio sullo sfondo, costruito a tavolino da una coppia di “diabolici” intellettuali di sinistra – e poi ho continuato perché l’opera di Elena Ferrante, che mi era già piaciuta in passato, mi piaceva ancora.

Della serie tv prodotta da Wildside e Fandango in collaborazione con Rai Fiction, TIMVision, Umedia e HBO, ho saputo molto prima che andasse effettivamente in onda: vivo a Napoli e nel set sono inciampata per diversi giorni, tra Piazza del Plebiscito e la Galleria Principe, e ho partecipato anche a una delle ultime date dei casting durati 8 mesi e durante i quali sono stati provinati oltre 8mila bambini e 500 adulti provenienti da tutta la Campania. Era marzo, pioveva e ad Arzano, Napoli, il teatro Eduardo De Filippo era zeppo di gente in attesa di prendere un numero, lasciare il nome, accedere al provino. A un certo punto, data la folla, l’organizzazione ha dovuto chiudere le porte d’ingresso. A chi era già dentro, in attesa di salire sul palco per una serie di fotografie, hanno dato un modulo da compilare e un po’ di domande a cui rispondere: hai tatuaggi di qualche genere? Sei disponibile a tagliare i capelli o a lasciarli crescere? Io ero lì con un’amica: insieme diamo vita a una possibile rappresentazione fisica di Lenù e Lila – io bionda e piccoletta; lei bruna e slanciata. Non so dire quanto siamo rimaste lì, so che abbiamo cominciato a fare un nostro casting personale, basato sul nostro immaginario di lettrici, e a chiedere quante delle persone presenti avessero letto la tetralogia o almeno una parte. Di lettori, oltre che papabili attori o comparse, quel giorno non ne abbiamo trovato uno.

Quando le prime due puntate de L’amica geniale hanno fatto la loro rapida comparsa al cinema, ero in trepidazione. Eppure sono andata a vederle con una paura atroce: quella di entrare in modalità “fratelli Solara” – i cattivi della storia – al primo accenno di popcorn-chiacchiericcio-colpo di tosse. A infastidirmi, anche se solo all’inizio, è stato invece altro. La versione cinematografica di My Brilliant Friend si apre con un cellulare che si accende e vibra nel buio. A rispondere è una donna di cui non sappiamo nulla se non che ha capelli corti e biondi, forse bianchi, un cane e molti libri sul comodino. L’episodio 1, “Le bambole”,  comincia esattamente come comincia il libro, con la telefonata di Rino che comunica la scomparsa di sua madre Lila. Sullo schermo però, per chi conosce già la storia, più che Elena Greco, voce narrante de L’amica, pare esserci una delle presunte Elena Ferrante, l’autrice dell’opera. Nella finzione scenica, infatti, l’attrice Elisabetta De Palo assomiglia ad Anita Raja, moglie di Domenico Starnone. A dire “Pronto?” sullo schermo sembra essere lei più che un personaggio che poteva prestarsi a diverse interpretazioni fisiche essendo tutto da inventare.

“Azzurro è il mio passato”, scriveva Alfonso Gatto, e la regia di Saverio Costanzo e la fotografia di Fabio Cianchetti devono essere dello stesso avviso: nella Napoli della prima puntata de L’amica geniale sembra abbia appena smesso di piovere. Il problema è che a terra è asciutto. Il rione Luzzatti, visto sempre dalla prospettiva bassa di un bambino, agglomerato di una città dove il mare è solo un’idea di libertà, è più degno e raccolto del previsto. Allo stesso modo, le strade, per quanto misere, sono pulite. La polvere è nella luce e, più che alzata dal passaggio delle auto sullo stradone o dalle corse dei bambini, si è già posata su cose e persone. Gli adulti, anche presi nel mezzo di un pranzo o di una lite, e i bambini, tra scuola e lavori precocissimi, hanno scarpe, vestiti puliti, ben cuciti, candidi per quanto poveri.

La sensazione che ne deriva è di una strana patina: da un lato ci sono i rimandi al cinema neorealista – la scena dell’arresto del falegname comunista Alfredo Peluso è un chiaro omaggio a Roma Città Aperta – dall’altro il gioco dei chiaroscuri evidenzia che non la luce ma il buio della cantina, delle scale dei palazzi e del tunnel, è il luogo in cui avviene il passaggio tra la prigione certa del rione e l’ignoto dell’emancipazione delle due ragazzine. Già nel secondo episodio, “I soldi”, il fascino del passato comincia a mostrare alcune crepe, proprio come sulle pareti del rione compaiono le prime scrostature di intonaco, le pozzanghere e i rattoppi sulle strade. Come scrive il New Yorker, My Brilliant Friend in alcuni punti assomiglia a “uno spot di Prada per la classe operaia, con sfumature di umile tenerezza”.

C’è un altro elemento da tenere in considerazione: la sigla e l’elaborazione grafica. Ne L’amica geniale, i titoli non aprono semplicemente le puntate, ma riescono in una traduzione filmica dell’indice dei personaggi presente in ogni grande romanzo, che molti vedono come uno scoglio alla lettura ma che è invece una mappa preziosa. I gruppi vengono mostrati attraverso vecchie diapositive. L’effetto è quello di velocissimi abbagli da un tempo di cui non vi è più traccia, un tempo in cui per ogni famiglia vi era un mestiere.

Un’impronta che invece sembra esser recuperata è quella di una televisione italiana di qualità capace di reggere il confronto con la produzione internazionale. Vogue scrive che dopo anni oscuri, segnati dalle showgirl svestite sui canali di Berlusconi, L’amica, come aveva fatto già Gomorra, segna un rinascimento della televisione italiana; non solo perché racconta una storia diversa per le donne, ma diversa in generale, importante anche data la situazione politica del Paese. A rimandare alla serie tratta dal best-seller di Roberto Saviano non è solo il parallelismo fatto dalla critica americana, ma anche il cast: il padre di Lenuccia è interpretato da Luca Gallone, che in Gomorra era ‘o mulatto, protagonista di una delle scene più offensive ed esplicite della serie (dinanzi alla fidanzata trans di Salvatore Conte, mimava un rapporto sessuale). La scena è diventata un meme, ora il meme è ribaltato: il personaggio di Vittorio Greco è quello di un usciere comunale che crede nell’istruzione, anche delle donne.

Nella città di Elena Ferrante, se vi è una certezza, questa è il linguaggio. Tiziana de Rogatis, professoressa associata di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena ha scritto diversi saggi in merito. L’ultimo, Elena Ferrante, Parole chiave, tocca anche il grande tema del contrasto tra italiano e dialetto napoletano. Nel libro è poco presente in forma diretta, mentre più spesso è riportato come semplice intonazione di una frase già tradotta in italiano; la serie invece è trasmessa in lingua originale con sottotitoli, e dunque il dialetto ha un ruolo importante. L’espressione dialettale però non è basata solo sulla povertà o sulla prossimità tra persone, ma sembra regolata da emozioni come la rabbia, espressa con grande sfoggio di mazzate e urla dagli uomini e con poche, secche parole dalle donne. Nella serie ciò è mostrato con un’orda di blatte che fuoriesce dai tombini in piena notte. Come in una favola nera, gli scarafaggi colonizzano gli abitanti del rione immersi nel sonno, prima tra tutte la zoppicante madre di Elena che ne inghiotte diversi.

Il napoletano caratterizza i personaggi alla maniera di Gomorra e distingue gli ambienti sociali alla maniera di Un posto al Sole. Va però detto che nella traduzione per i sottotitoli della versione americana perde forza: un proverbio come “Pure ‘e pullece teneno ‘a tosse” – “Anche le pulci hanno la tosse” – diventa “What was that?”. La lingua napoletana è utilizzata solo da due generi di persone, entrambi rumorosi e arrabbiati: i cattivi e i poveri. Per le due bambine, nel passaggio tra il dialetto e l’italiano imparato tra i banchi, c’è, invece, una funzione educativa che va di pari passo alla volontà di smarcarsi non solo dal quartiere e dai suoi traffici: leggere e scrivere, per Lila e Lenuccia, significa anche poter far soldi.

La maestra Oliviero, interpretata da Dora Romano, diventa allora incarnazione di un’ideale società civile napoletana, che sa parlare alla plebe ma è incapace di vincerla e convincerla, a differenza del mellifluo maestro Ferraro, che della plebe utilizza linguaggio e prossemica. Chi ha creato questi due personaggi, ho pensato nel ritrovarli sullo schermo, ha ben chiari i meccanismi che ci sono dietro il voler insegnare, il dover insegnare e il non riuscire a farlo; il rimando con Ex Cattedra di Starnone mi è parso lampante. C’è necessità di queste informazioni? No. Però i lettori de L’amica la storia che scorre sullo schermo la conoscono già, anche nei particolari sgrossati per esigenze di tempo: sono, per così dire, avanti di due passi rispetto a quanto va in onda e gli sarà forse automatico andare oltre e trovarvi collegamenti non solo con il testo, ma anche con l’identità della scrittrice, anche se questa, in fondo, non gli interessa.

Ne La frantumaglia, volume che raccoglie le lettere, le poche interviste rilasciate e la corrispondenza con lettori d’eccezione, l’autrice affrontava già il tema della restituzione filmica della sua opera in un carteggio con Mario Martone, regista de L’amore molesto: “Il desiderio di essere investita dal suo film è forte almeno quanto quello di cercarmi un riparo robusto”.

In seguito, in una lettera non spedita a Francesco Erbani, giornalista delle pagine culturali di Repubblica, se ne rammaricava: “Devo essere contenta che sarà L’amore molesto – film – a segnalare che esiste un Amore molesto – libro? Non crede che accettare gerarchie di questo tipo, darle per naturali, incoraggi l’idea che la letteratura nelle graduatorie della fruizione culturale, occupa il posto più basso?”.

Oggi, invece, Elena Ferrante sembra aver fatto pace con le trasposizioni, come spiega in un’intervista di Angelo Carotenuto, pubblicata sul Venerdì di Repubblica:  “La lettura di chi fa film è l’unica, forse, che ha l’obbligo di spogliare il racconto e prendergli le misure per dargli un abito nuovo”. Il rischio, allora, non è che quest’abito non piaccia, non sia bello, importante, indossato così bene da emozionare chi lo guarda, da farlo piangere o sorridere come effettivamente fanno le giovanissime Elisa del Genio e Ludovica Nasti, o come riesce Vincenzo Vaccaro nella parte di Enzo Scanno bambino, ma che sotto, Lila e Lenuccia, diventino figurine di una trama di amori infelici, speranze tradite, difficoltà di studi e di lavoro, strade di Napoli. Se nel testo è infatti chiaro che la vicenda narrata ha una sua importanza vitale per la protagonista, ed è necessario affidarsi al suo punto di vista per comprenderla e anche giustificarne i pensieri, le scelte e le azioni, è anche vero che leggendo le sinossi degli episodi 3 e 4, Le metamorfosi e La smarginatura, non ancora andate in onda in Italia ma già trasmesse da HBO, viene il timore che l’adattamento televisivo abbia dovuto piegare il misto di sentimenti che Lenuccia prova verso Lila e viceversa a uno solo, chiaro e riconoscibile: l’invidia tra donne. Dall‘Amica “noiosa”, come alcuni critici hanno scritto colpevolizzando la prosa di Ferrante, la paura è di passare all’Amica “invidiosa”. Il genio sarà allora una serie che non ci faccia chiedere, semplicemente, perché non si sono mandate a quel paese o chi delle due vincerà, ma che sappia restituirci la profondità di un legame pieno di conflitti, di scontri e di silenzi, tessendo, nella complessità dei suoi personaggi, la storia del nostro Paese. L’ansia a riguardo è giustificata quanto l’attesa delle prossime puntate: nascono entrambe dall’inquietudine di non trovare, sullo schermo, non tanto il modo in cui abbiamo immaginato i personaggi, il rione e Napoli, ma l’unica traccia salda in un mondo che cerca di cancellarle tutte: l’amicizia.

Segui Raffaella su The Vision