Quando l’isolamento sarà finito, dovremo occuparci della nostra salute mentale

L’isolamento sociale a cui siamo sottoposti ormai da più di un mese è una condizione che può avere facilmente ripercussioni – più o meno gravi – sull’equilibrio psichico, che potrebbero influenzare le persone che le subiscono anche quando la vita sarà tornata alla normalità. Gli stati d’ansia, gli sbalzi d’umore, la difficoltà ad addormentarsi che molti sperimentano in questa situazione sono riconosciuti da diversi studi scientifici, come evidenziava già a fine febbraio – quando ancora solo la Cina era sottoposta a lockdown – una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet da un gruppo di ricercatori del King’s College di Londra.

Lo studio “The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence” passa in rassegna le ricerche che hanno indagato gli effetti psicologici negativi dell’isolamento, analizzandoli nei pazienti sottoposti a quarantena durante le epidemie Ebola, Sars, Mers, influenza suina ed equina: tutte riportano disturbi come confusione, rabbia, problemi del sonno e persino sintomi da stress post-traumatico. Quest’ultimo è definito dall’Istituto Superiore della Sanità come un disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche; studiato negli Stati Uniti a partire dagli effetti della guerra del Vietnam sui veterani, può manifestarsi anche nei familiari, nei testimoni, nei soccorritori coinvolti in un evento traumatico: provoca ansia, cattivi ricordi, comportamenti di evitamento, difficoltà a controllare le emozioni, irritabilità, depressione e insonnia, che possono risolversi con il tempo oppure continuare a lungo termine. Un altro sintomo diffuso è il senso di colpa (per essere sopravvissuti o non aver potuto salvare gli altri), un elemento che potrebbe riguardare familiari e medici di pazienti affetti da COVID-19.

Soldati americani durante la guerra in Vietnam

Può essere facile per molti di noi riconoscere il proprio stato d’animo nei sintomi descritti, come la paura, la frustrazione, la noia, ma anche lo stigma vissuto da chi è infetto o ritenuto tale; ansia, depressione e senso di isolamento sono causati dalla lontananza dalle persone care, dalla perdita di libertà, dall’incertezza legata alla situazione sanitaria ed economica, che possono avere effetti drammatici.

Questi fattori, evidenziati nel corso delle precedenti epidemie che resero necessaria la quarantena, sono provocati in parte dalla perdita della propria routine abituale e da un contatto sociale e fisico ridotto. Per avere una misura di quello che stiamo affrontando basti pensare che uno studio tra quelli considerati dai ricercatori del King’s College ha evidenziato che lo stress post-traumatico è quattro volte più frequente nei bambini sottoposti a quarantena, rispetto ai coetanei; il 28% dei genitori, inoltre, mostra sintomi sufficienti a diagnosticare un disturbo mentale legato a quella condizione, contro il 6% dei genitori non sottoposti a quarantena. Tra i sintomi riscontrati, la netta prevalenza spetta a cattivo umore (73% dei casi) e irritabilità (57%). Tutto ciò ha effetti anche sul sonno, che ne può risultare disturbato e popolato di sogni più strani del solito e spesso veri e propri incubi.

A peggiorare la situazione contribuiscono anche l’ossessione per la produttività – che non ci ha certo abbandonati in questo momento – e le esortazioni continue a sfruttare il tempo libero che spesso riceviamo dalla rete, che se da un lato per alcuni possono essere positive e spronarli a impegnare il proprio tempo per sentirsi meno vulnerabili, per altri possono rappresentare un’ulteriore fonte di stress e senso di colpa quando non si riesce a fare niente. Se l’isolamento da una parte può essere un’occasione unica, dall’altra non deve neanche essere visto come qualcosa da riempire a tutti costi. Spesso ci si sente impotenti di fronte alla situazione del Paese e alla propria, immobilizzati, alienati, e si trascorre il tempo nell’apatia e nella noia, senza voglia di fare nulla, per mancanza di una prospettiva sul futuro e di un seppur vago senso di controllo su esso, a causa di giornate ripetitive che si susseguono sempre uguali, e anche per le notizie angoscianti che ci martellano quotidianamente. In una situazione del genere è normale non sentirsi bene e avere dei momenti di crisi.

La situazione lavorativa contribuisce notevolmente al senso di frustrazione e alle preoccupazioni per il presente e per il futuro che alimentano quel senso di insicurezza all’origine dell’ansia; questo vale sia per chi deve svolgere da casa mestieri nati per essere fatti in presenza – l’insegnante, ad esempio, ma anche chiunque lavori in stretta collaborazione con i colleghi – sia per chi il lavoro ha dovuto interromperlo a causa dell’epidemia. Per questi ultimi, ma non solo, le perdite finanziarie sono un problema reale, che contribuisce al disagio. Per non parlare di chi ha dovuto continuare a lavorare sentendosi quotidianamente esposto a un rischio. Nonostante questo, non è chiaro se esistano elementi che predispongono a subire in maniera più pesante l’impatto psicologico della quarantena; secondo uno studio, infatti, sarebbero maggiormente esposti i giovani tra i 16 e i 24 anni, chi ha un basso livello d’istruzione, le donne e chi ha un figlio, rispetto a chi non ne ha; al contrario, un’altra ricerca impiegata dallo studio di The Lancet afferma che questi fattori non sarebbero necessariamente associati a un impatto negativo e saremmo potenzialmente tutti esposti allo stesso modo.

A influire, invece, e ad aggravare ulteriormente il quadro, è la durata dell’isolamento, che, se prolungata, potrebbe avere effetti negativi proporzionali. Tre studi hanno dimostrato che la durata prolungata della quarantena è associata a condizioni psicologiche peggiori. In alcuni casi queste sarebbero anche a lungo termine, continuando a sortire effetti per diversi mesi e talvolta anni dopo la fine dell’isolamento. Uno studio, ad esempio, evidenzia che, a ben tre anni dall’emergenza Sars, negli operatori sanitari – una categoria particolarmente colpita dall’emergenza – abuso di alcol e stupefacenti e comportamenti di evitamento erano associati all’essere stati in quarantena.

A tutto questo va aggiunto l’aggravarsi dei sintomi di chi già convive quotidianamente con disturbi psichici: è un’emergenza nell’emergenza quella che stanno vivendo le persone con malattie psichiatriche come depressione (oltre 2,8 milioni di italiani), schizofrenia (245mila italiani circa), dipendenza da stupefacenti (nel 2018 oltre 130mila utenti erano in carico presso i Servizi per le Dipendenze patologiche), demenze e Alzheimer (che insieme colpiscono circa il 4,7% della popolazione anziana italiana). Persone con problematiche psicologiche o psichiatriche si sono viste private della propria routine, dei contatti umani di cui hanno bisogno e, talvolta, anche delle cure, come nel caso di chi seguiva una terapia di gruppo. Il divieto di uscire, l’incertezza della situazione, la paura della malattia e i problemi economici aggiungono ulteriori difficoltà alla vita quotidiana di chi ha disturbi conclamati, ma può anche far emergere i sintomi di disturbi anche gravi che, da latenti, vengono a galla in chi non aveva problematiche diagnosticate. Non è una possibilità remota: a dimostrarlo c’è l’impennata dei casi di Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), che in alcune grandi città come Torino, possono passare da una media di uno ogni due giorni a picchi di nove al giorno durante il lockdown. L’ansia collettiva è percepibile, la diffidenza verso chi non rispetta le regole può prendere le forme del capro espiatorio e sfociare in manifestazioni d’odio.

Nel complesso gli studi suggeriscono che, una volta superata questa emergenza, potremmo trovarci di fronte una situazione difficile anche sul piano psicologico, con da un lato gli strascichi della prolungata quarantena e dall’altro i timori del contatto sociale verso chiunque si avvicini, percepito come potenziale nemico. Dobbiamo essere pronti ad affrontare la situazione, favorendo gli interventi di sostegno a distanza. Come è già successo in Cina con le piattaforme online, anche da noi molti psicologi sono disponibili ai consulti telefonici o via Skype e le Regioni si sono attrezzate per fornire consulenze telefoniche a chiunque abbia bisogno di sostegno psicologico. Ma, come sottolinea la psicoanalista Costanza Jesurum, non tutti gli psicologi sono attrezzati per proseguire il lavoro con i pazienti a distanza e comunque non sempre è sufficiente: uno studio mostra che in Cina i sintomi di disagio psicologico sia di pazienti COVID-19, sia di personale sanitario, sia di cittadini sani sottoposti a quarantena, non sono stati adeguatamente trattati. Bisogna ottimizzare il piano d’intervento, rafforzare la formazione del personale e garantire l’accessibilità del servizio a chiunque, senza ridurre il sostegno a chi soffre dei disturbi più gravi.

È importante che l’isolamento non duri più dello stretto necessario. Fornire ai cittadini più informazioni possibili, migliorare le comunicazioni, favorire il mantenimento delle reti sociali, seppure da remoto e dedicare una particolare cura agli operatori sanitari sono passi essenziali per alleviare il senso di isolamento e di insicurezza. Molti partecipanti alle ricerche, infatti, hanno indicato l’insufficienza delle informazioni ricevute dalle autorità come fonte di stress. Le notizie, infatti, sono un fattore chiave: sia quelle, capillari, sulla situazione sanitaria ed economica, sia quelle su come gestire lo stress, ad esempio cercando di mantenere uno stile di vita salutare, coltivando le relazioni per quanto possibile e limitando le ricerche compulsive dei dati dei decessi. E soprattutto bisogna diffondere l’idea che non c’è niente di male nel chiedere aiuto e che anzi è un’azione di responsabilità verso se stessi e gli altri. Perché questa è una situazione che riguarda tutti, e non tutti reagiscono allo stesso modo.

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