Il coronavirus sta dando il colpo di grazia a un settore devastato, quello dell’arte

Ora che l’Italia è diventata un’unica zona rossa e il Sars-CoV-2 ha fatto crollare a picco le borse di tutto il mondo, è tempo di riflettere sul fatto che non sono solo i settori dell’industria, del turismo e delle esportazioni ad aver subito dei danni. Quello dello spettacolo, che comprende il cinema, il teatro e i concerti – e che già non se la passava bene – è infatti in ginocchio. Un mese fa, alle prime avvisaglie dell’epidemia, si stimava già che in Italia sarebbero saltati 7.400 tra concerti musicali e spettacoli teatrali mandando in fumo oltre 10 milioni di euro, e questo dato non può che crescere di giorno in giorno. Assomusica, l’associazione degli organizzatori e produttori di spettacoli di musica dal vivo, che si occupa dell’organizzazione della quasi totalità dei concerti spiega che la situazione dei live è vicina al default perché in questo momento circa 3mila concerti sono stati rinviati o cancellati – e di questi, il 60% è stato riprogrammato, il 17% annullato. Dalle stime fatte in questi giorni ci troveremo ad affrontare una perdita di circa 40 milioni, dal periodo dell’inizio delle ordinanze fino al 3 di aprile  – ammesso e non concesso che il 3 aprile si possa tornare alla normalità. In più ci sono 20 milioni che ricadranno sulle città che avrebbero dovuto ospitare gli eventi, a cui verrà meno l’intero indotto generato nei territori dagli eventi stessi. Il settore dello spettacolo, e in particolare della musica dal vivo, è uno dei maggiori veicoli di ricaduta economica nel nostro Paese per quanto riguarda il turismo e le realtà alberghiere e di ristorazione. Gli eventi culturali generano un grande impatto sulla vita delle città, tra quello economico, occupazionale, immobiliare e socio-culturale.

Al momento anche tutte le produzioni cinematografiche e teatrali sono sospese, e ciò significa che anche tutte le manovalanze di questi settori sono a casa, e vi rimarranno senza che sia prevedibile immaginare quando si ricomincerà a lavorare. Le compagnie teatrali sono senza lavoro, molte delle produzioni programmate per queste settimane non potranno essere recuperate perché sale e teatri sono programmati fino all’estate e ciò comporta inevitabilmente che alcuni spettacoli saranno cancellati senza vedere mai la luce. Salteranno parecchie giornate lavorative, introiti, spettatori, incassi, e non torneranno più indietro. Come ha spiegato il direttore del Teatro Stabile di Torino, Filippo Fonsatti, a pagare le conseguenze della crisi saranno soprattutto gli artisti e i tecnici perché la ricaduta riguarda sì le imprese e le compagnie, ma è gravissima sui lavoratori, dal momento che non esiste nel mondo dello spettacolo la cassa integrazione e si rischia che i costi più alti vengano pagati dagli artisti e dai tecnici impegnati nelle produzioni. Un altro appello è arrivato dai critici Massimo Marino, Andrea Porcheddu e Attilio Scarpellini, già sottoscritto da diversi intellettuali e protagonisti del mondo del teatro, per sostenere questo settore di cui durante l’emergenza le istituzioni sembrano essersi dimenticate. Il documento, indirizzato al ministro Franceschini, chiede che venga salvato, con risorse straordinarie, il comparto teatrale in ginocchio. Massimo Dapporto, presidente dell’Apti-Associazione per il Teatro Italiano, invece in una nota ha auspicato che il settore dello spettacolo dal vivo possa beneficiare di un sostegno straordinario per riuscire ad alleviare la già critica condizione dei suoi lavoratori. E che l’attuale emergenza possa costituire l’occasione per dare finalmente vita a un welfare ordinario a difesa della categoria, già presente in Paesi come la Francia.

Dario Franceschini

Questa emergenza infatti, sta portando alla luce problemi che da anni affliggono il settore e che, in questo frangente, sono diventati ancora più urgenti. Gli operatori della cultura e dello spettacolo sono fra i più colpiti dalle restrizioni messe in campo nelle ultime settimane per fronteggiare la COVID-19, dal momento che hanno portato a chiudere in primis teatri, cinema e locali. Per loro la situazione in Italia era però già profondamente instabile da molto tempo. In Italia la produzione di servizi legati allo spettacolo e alla cultura va di pari passo con la precarietà, reggendosi, nella maggior parte dei casi, su lavoratori con pochissime garanzie che, in momenti di difficoltà come quello che stiamo vivendo, rischiano tutto. Le norme riguardanti la   gestione dei lavoratori dello spettacolo, come ben noto ai professionisti che ne fanno parte, sono molto particolari, a causa della natura “intermittente” della loro professione. Data la propria la congenita mancanza di continuità nelle prestazioni lavorative nel settore dello spettacolo l’attività lavorativa è regolamentata in maniera diversa rispetto a quella ordinaria. Tutte le analisi statistiche sul settore dello spettacolo denunciano quanto siano gravi i problemi dei lavoratori; oltre alla difficoltà o all’impossibilità di maturare il diritto alla pensione, altre criticità riguardano sicuramente l’indennità di disoccupazione. Sostanzialmente, come altre categorie, anche i lavoratori dello spettacolo sono esposti totalmente all’insicurezza e non hanno nessuna delle tutele sociali che il welfare invece contempla per gli altri lavoratori.

Il 71% dei cosiddetti “lavoratori dell’immateriale” in Italia ha meno di 45 anni, e in media la sua retribuzione annuale è di poco più di 5mila euro, si stima che l’80% abbia contratti temporanei, e poco tutelati. Solo il 17% è iscritto ad associazioni sindacali. Stando ai dati Inps, sono circa 137 mila le persone che lavorano nel settore. Quello dello spettacolo è un mondo professionale complesso e multiforme, e oltre ad attori, registi, musicisti e danzatori conta anche tutti coloro che lavorano dietro le quinte: tecnici, distributori, assistenti, sarti, imprese, scenografi, truccatori eccetera. Per il 55% sono uomini e per il 45% donne, che, anche qui subiscono le discriminazioni del gender gap.

Il mondo dello spettacolo, e della cultura in generale, è un mondo in cui molto spesso, dopo anni di studi e di investimenti economici considerevoli, si sopravvive lavorando alla giornata e senza alcuna garanzia, spesso neanche in termini di stipedio. Un universo fragile, povero, lasciato a se stesso, che è stato dipinto molto bene dalla Fondazione Di Vittorio in Vita da artisti, una ricerca nazionale sulle condizioni di vita e di lavoro dei professionisti dello spettacolo. Per questa categoria non è previsto alcun tipo di ammortizzatore sociale o di tutela per malattia o infortuni e quando ci si ammala si perde la possibilità di guadagnare. Più dell’80% dei lavoratori dello spettacolo dal vivo non riesce ad accedere alle indennità sociali di disoccupazione, maternità, né agli indennizzi relativi agli infortuni sul lavoro, sia perché le condizioni di lavoro nel settore sono estremamente parcellizzate, sia perché non è concesso il versamento di alcuni contributi ai lavoratori autonomi.

Un settore dunque già compromesso, e reso precario dall’applicazione di leggi che mirano al solo profitto e che non hanno aiutato nel tempo a stabilizzarlo. Come avvenuto con la legge 160 del 2016 del ministro Dario Franceschini, la quale prevede fra le altre cose il declassamento delle Fondazioni liriche a Teatri lirici sinfonici, a meno che non si presentino requisiti elevatissimi; un escamotage per abbassare le erogazioni statali verso le fondazioni, e per trasformare anche i contratti dei lavoratori da tempo indeterminato a part-time obbligatorio. Oppure come le misure messe in campo dal governo in questi giorni. Nel decreto cosiddetto Cura Italia, entrato in vigore il 17 marzo, è prevista un’indennità una tantum di 600 euro per i lavoratori autonomi, per un reddito per quanto riguarda il campo dello spettacolo non superiore ai 50mila euro annui. Sicuramente meglio di niente, ma nel settore della cultura e del turismo, così come dello sport – altro grande dimenticato – ci sono lavoratori indipendenti che da ormai alcune settimane non hanno più entrate e non ne avranno ancora a lungo. E per di più a questa identità non possono accedere tutti, ma solo i lavoratori iscritti al Fondo pensioni dello spettacolo, che abbiano almeno 30 contributi giornalieri versati nell’anno 2019 al medesimo Fondo e non siano a oggi titolari di un trattamento pensionistico diretto né di rapporto di lavoro dipendente.

Per quanto possa trattarsi di una misura tampone, 600 euro non possono bastare a risolvere il problema, perché la crisi è profonda e strutturale e richiede misure sistematiche. Fino a ora la categoria dei lavoratori dello spettacolo, così come dello sport, non ha ricevuto nessuna comunicazione ufficiale, anche perché il decreto non contiene nessuna particolare indicazione. Il grosso delle misure invece (lo stanziamento di 130 milioni a sostegno del mondo della cultura e dello spettacolo) andrà a tutelare determinate categorie e determinati interessi dal momento che riguardano le imprese del settore, che potranno così rimborsare biglietti e viaggi con voucher. Le stesse categorie con cui cioè, il ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo in queste settimane ha avuto un’interlocuzione stabile, ma da cui però sono esclusi i precari del settore.

In fondo, basterebbe occuparsi dei  lavoratori dello spettacolo trattandoli con dignità. Perché mentre si stanno definendo le misure per i lavoratori di altri settori, come la cassa integrazione, continuano a essere tagliati fuori milioni di lavoratori che appartengono al precariato, della cultura così come di altri ambiti, per i quali non sono previsti welfare e tutele. Già, perché nel Paese in cui con “la cultura non si mangia”, la situazione di crisi provocata dalla pandemia si innesta su una categoria che è sempre stata bistrattata e forse ci sta dimostrando che il problema non è tanto quello della COVID-19 ma di un’altra patologia, quella che fa mancare totalmente di riconoscimento e di rispetto verso il lavoro di centinaia di migliaia di professionisti, con discriminazioni previdenziali e reddituali indegne.

All’emergenza della pandemia si aggiunge il dramma della percezione diffusa – in primis a livello istituzionale – che esistano lavori di serie A e lavori di serie C. In quest’ottica, anche in un momento difficile come quello che stiamo vivendo, prendere coscienza di questo fatto può essere un punto di partenza importante, un grido d’allarme che non deve essere ignorato, affinché si spinga la politica a fare la sua parte. In questo momento è fondamentale che lo stato faccia fronte al virus salvaguardando la salute dei cittadini in ogni modo possibile, ma non deve tralasciare la tutela dei suoi lavoratori prendendo provvedimenti immediati. Altrimenti, come hanno scritto i firmatari dell’appello Per non diventare una terra di zombie, una volta passata l’epidemia ci ritroveremo in un Paese senza arte, senza teatri, senza cinema, senza possibilità di dibattiti e senza istruzione e quella sarebbe un’altra piaga da non sottovalutare.

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