Con “I Predatori” Pietro Castellitto smaschera ferocemente l’egoismo della vecchia generazione - THE VISION

Essere figli ed essere giovani oggi significa prendere parte a un conflitto generazionale che non si basa più su contrapposizioni sociali nette come proletariato contro borghesia, operaio contro padrone, ricco contro povero, ma che anzi si alimenta trasversalmente. A volte, ci si ritrova a essere modellati dai desideri mai realizzati dei nostri genitori, dalle lezioni che avrebbero dovuto imparare loro e che invece vogliono insegnare prematuramente a noi. Da un lato ci sono le vecchie generazioni, incapaci di farsi davvero da parte, pronte a giudicare con un po’ troppa superbia le battaglie di chi cerca di rimediare ai loro errori; dall’altro le nuove, caratterizzate da un’incertezza lavorativa ed economica senza precedenti, le cui difficoltà, invece di essere riconosciute come sistemiche, vengono sminuite e ridotte a capricci. Una sfida continua tra falliti e condannati – o meglio, tra predatori e prede – in questi tempi in cui il mito della felicità obbligatoria si è indissolubilmente legato a quello dell’individualismo, predatori lo siamo diventati un po’ tutti.

Sicuramente lo sono i protagonisti de I predatori, esordio alla regia di Pietro Castellitto, presentato all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia e vincitore del Premio per la miglior sceneggiatura nella sezione “Orizzonti”. Unica opera italiana prodotta con l’aiuto di Rai Cinema ad aver ricevuto un riconoscimento, nonostante la presenza, nella sezione principale, di storie mature e acclamate come Le sorelle Macaluso di Emma Dante e di Notturno di Gianfranco Rosi. Figlio d’arte, nella presentazione del film Castellitto ha dovuto non solo superare la critica cinematografica, ma scontrarsi con l’inevitabile paragone tra il proprio lavoro e quello dei genitori: il pluripremiato attore-regista Sergio e la scrittrice Margaret Mazzantini, vincitrice anche del Premio Strega nel 2002 per Non ti muovere e del Premio Campiello nel 2009 per Venuto al mondo. Un confronto superato grazie alla capacità di realizzare un’opera molto diversa dalla media stilistica del cinema italiano, come si intravede già dal trailer, in grado di criticare ferocemente quel mondo borghese da cui nasce.

Ambientato tra il centro di Roma e il litorale di Ostia, I predatori segue la storia di due famiglie all’apparenza completamente diverse. Ciascuna incarna le molteplici facce dell’umano, diverse più nella forma sociale che nel contenuto. I Vismara sono proletari dichiaratamente fascisti, impegnati a gestire l’armeria di famiglia. Claudio, nipote di un pregiudicato implicato nel traffico d’armi, trascorre le proprie giornate a insegnare al figlio Cesare come utilizzare un fucile. I Pavone sono invece una famiglia alto borghese, di quelle che oggi si definirebbero radical chic senza esitazioni: Ludovica Pensa, la madre, è una famosa regista impegnata nelle riprese del nuovo film La guerra lenta; Pierpaolo, il padre, è un medico, mentre Federico, il figlio più grande, è un giovane assistente universitario di Filosofia. A unire le due famiglie saranno due torti subiti nello stesso momento: una truffa ai danni dei Vismara, e l’esclusione di Federico Pavone dal gruppo di lavoro per la riesumazione del corpo di Nietzsche, perché non ritenuto abbastanza sveglio. Un giorno Claudio Vismara si presenta nello studio di Pierpaolo per ringraziarlo di aver salvato la madre dopo un incidente in auto, proponendogli di regalargli un’arma. Non sa che Federico è nascosto dietro la porta del bagno e ascolta l’intera conversazione. Il ragazzo contatterà allora l’armaiolo per acquistare una bomba con cui intende distruggere la tomba del filosofo tedesco per vendicarsi dell’ingiustizia subita, ma gli eventi si svilupperanno diversamente da quanto previsto. 

Sprezzante, anticonformista, anarchico, ma anche cinico e impietoso, Federico è il personaggio tramite cui il regista sottolinea la mediocrità e l’assenza di sincerità della società di oggi, costruita sul materialismo. “Quando, ormai cinque anni fa, scrissi la prima versione del film partii da Federico. Lui è il personaggio più autobiografico del film e in lui ho catalizzato il sentimento che anche negli ambienti più ‘illuminati’ ci siano quelle prerogative di alienazione e tristezza che possono portare un giovane ad armarsi”, ha commentato Castellitto, che rivedremo presto al cinema come attore nell’atteso Freaks Out di Gabriele Mainetti e nella serie tv di Sky Speravo de morì prima, dove interpreterà l’ex capitano della Roma Francesco Totti. “Non che io abbia mai pensato di mettere una bomba da qualche parte, mi riferisco piuttosto a quel carico di enorme frustrazione, tipicamente giovanile, che nasce dalla differenza che c’è tra quello che sei e quello che gli altri pensano tu sia”. 

Inaspettatamente irriverente, I predatori è una commedia nera sugli stereotipi sociali e politici italiani in cui spiccano tre elementi. Il primo è l’ottimo cast – tra cui compaiono Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Giorgio Montanini e Giulia Petrini – la cui grande esperienza teatrale contribuisce ad arricchire la caratterizzazione dei protagonisti. Il secondo è la regia, perché Castellitto propone scelte inusuali alternando riprese a campo lungo, spesso costruite sulla simmetria, a primissimi piani sbilenchi, dove gli attori vengono ripresi anche solo al margine del quadro, trasformando la messa in scena in un attivo supporto alla sceneggiatura. Proprio quest’ultima rappresenta l’elemento più ambizioso. Nonostante sia stata scritta dallo stesso Castellitto ad appena 22 anni, risulta infatti tutt’altro che acerba, capace di dare vita a personaggi miserabili e per questo estremamente verosimili.

Esaltando il grottesco e l’assurdo, è con i momenti comici, più che con gli eventi drammatici, che Castellitto riesce a dire la sua sull’incomprensione e la fatica di comunicare propria dello scontro tra generazioni. Emblematica è la scena da cui è tratta la locandina, dove seduti al tavolo di un ristorante per festeggiare il novantesimo compleanno della nonna, la cugina di Federico si lancia nell’interpretazione di una canzone trap autobiografica, con cui in pochi versi smaschera tutti i costrutti della generazione più vecchia, esponendone i difetti e cogliendo il senso più profondo dell’incertezza del presente nella domanda: “Perché il futuro fa più paura della morte?”.

Nessuno è veramente buono o cattivo nel suo essere predatore, capace di schiacciare chiunque per raggiungere la propria felicità. “D’altronde, essere felici è un mestiere difficile. A volte, un mestiere da predatori”. È il ritratto di una società in cui l’omologazione imperante e l’individualismo hanno generato frustrazione negli spiriti liberi e ripiegato ogni essere umano su stesso. Nonostante sia un film corale, infatti, i personaggi non arrivano mai a toccarsi, ognuno perso nel proprio tratto di vita rassegnato al caos del mondo. Ed è proprio in questo che le due famiglie, i Vismara e i Pavone, finiscono per somigliarsi nonostante la distanza sociale. Castellitto spiega che: “C’è una classe che per essere predatrice necessita delle armi, e un’altra che ne ha di più raffinate in questa epoca. È un film anti-borghese, non anti-fascista: credo che una certa tendenza a schiacciare l’altro appartenga più ai Pavone che non ai Vismara, i fascisti sono solo ‘più colorati’, lo squadrismo cambia faccia”. Le vere vittime, in questo quadro, restano i ragazzi, fagocitati dai dubbi, dai tradimenti e dalle umiliazioni dei genitori, che sembrano voler occupare ogni storia senza mai farsi da parte. 

Oggi, che la crisi dovuta alla pandemia ha acuito le difficoltà dei 20-30enni – già schiacciati dalla precarietà e dall’imperativo della produttività – i millenial finiscono per scontrarsi ancora più duramente con l’impossibilità di intavolare un reale confronto con le vecchie generazioni, che sembrano non essere disposte ad ascoltare pur di continuare a portare avanti il mondo per come l’hanno conosciuto, anche se ormai è evidente che il paradigma debba cambiare, e in fretta. I predatori allora arriva al momento giusto, non solo per la sua capacità critica e al tempo stesso la sua infusione di speranza, ma soprattutto perché ci dimostra che il cinema italiano è più vivo che mai.

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