Nel suo libro Feminist Theory: From Margin to Center, la filosofa femminista bell hooks dice che senza un ripensamento radicale del potere non è possibile alcuna liberazione. Le donne non sono riuscite infatti a pensarsi al di fuori delle dinamiche di potere imposte dal patriarcato: quelle privilegiate, sono ricorse a quei modelli per ritagliarsene un pezzo, quelle oppresse invece si sono sempre configurate come succubi. Questo schema, scrive la filosofa, ha prodotto un’illusione: “L’impressione che le donne debbano ottenere il potere prima di poter effettivamente resistere al sessismo è radicato nella falsa assunzione che le donne non abbiano potere”. Per questo, secondo lei, è necessario esercitare il “potere dell’incredulità”, cioè rigettare la realtà che il sistema ha imposto alle donne.
Per farlo, bisogna riconoscere quanto le dinamiche di potere siano pervasive ma soprattutto interdipendenti. Nel 1989, quest’idea è stata formulata dalla giurista Kimberlé Crenshaw, che – analizzando il modo in cui i tribunali si occupavano dei casi di violenza domestica e di discriminazione sul lavoro ai danni delle donne nere – coniò il termine intersezionalità. Crenshaw la descrive come un’intersezione del traffico stradale: si possono infatti percorrere diverse strade, ma alla fine ci si ritroverà sempre a un incrocio, insieme alle persone che provengono dalle altre direzioni. Oggi il termine “intersezionalità” è uscito dall’accademia ed è diventato molto diffuso e divisivo. Viene usato come aggettivo accanto alla parola “femminismo”, per indicare un impegno politico capace di prendersi cura di più di una questione alla volta, mentre alcuni dei suoi detrattori lo considerano “un nuovo sistema di caste” che “promuove il solipsismo a livello personale e le divisioni a quello sociale”. L’attivismo intersezionale ha infatti portato luce su nuove questioni e soggetti che un tempo erano considerati marginali nel dibattito e per i conservatori questa non sarebbe che l’ennesima prova di un’eccessiva attenzione “politicamente corretta” a problemi di scarsa importanza.
Ma, a ben vedere, ciò che è davvero intersezionale è proprio il potere, che “colpisce” le persone “incrociandole nelle loro identità”: le discriminazioni sociali – come il razzismo, il sessismo, l’omotransfobia, l’abilismo – non agiscono infatti in modo indipendente, ma si sovrappongono in un sistema di oppressione che rispecchia la complessità delle identità. Ad esempio, una donna afrodiscendente sarà discriminata sia in quanto donna che in quanto Nera. Lo ha espresso bene Ayisha Siddiqa, attivista pachistana e fondatrice del movimento ambientalista PollutersOut!, durante l’evento 22 For ‘22: Visions For a Feminist Future, una conversazione sul futuro organizzata da The Meteor in partnership con Gucci’s CHIME FOR CHANGE, la campagna mondiale lanciata nel 2013 che unisce voci di diverse generazioni provenienti da tutto il mondo appartenenti a persone impegnate in prima linea nella lotta per l’uguaglianza di genere in un summit globale. L’evento, tenutosi al Barnard College di New York e trasmesso in streaming, è stato presentato dalla conduttrice tv Symone D. Sanders e ha visto la presenza di ventidue attiviste e attivisti che stanno contribuendo a immaginare un futuro diverso. Raccontando del suo avvicinamento alla causa climatica, Siddiqa ha spiegato che ciò che l’ha spinta all’attivismo è stata la presa di consapevolezza che le compagnie petrolifere avevano alimentavano guerre nel suo Paese per prendere possesso delle risorse non rinnovabili. “La crisi climatica non è passiva. Non è il risultato di un disastro naturale. È opera dell’uomo. È il risultato del capitalismo, di anni di colonialismo, anni di oppressione razziale”, ha dichiarato durante l’incontro.
Quella ambientale è forse la più grande sfida del futuro, perché tiene in sé anche tutte le altre, ma è impossibile vincerla senza tenere conto del fatto che i problemi che dobbiamo affrontare oggi hanno la loro radice nelle disuguaglianze sociali, economiche e di genere. Come ha scritto la filosofa femminista Elena Pulcini, siamo tutti soggetti in relazione. La cura degli altri – e del pianeta – viene spesso intesa non come qualcosa che ci definisce come individui, ma come un’azione che arriva solo in un secondo momento. L’etica della cura proposta da Pulcini e dal movimento femminista prova a ribaltare la prospettiva, individuando proprio nella relazione ciò che ci contraddistingue e ci tiene insieme. Solo pensandoci in questa rete di dipendenza possiamo provare ad agire con quel “potere dell’incredulità” di cui parlava bell hooks.
I modi dell’oppressione al contrario si basano sull’indifferenza. Lo ha ricordato anche Chris Smalls, presidente e fondatore dell’Amazon Labor Union, in conversazione con l’iconica sindacalista Dolores Huerta durante lo stesso incontro. Dopo essere stato licenziato da Amazon per aver organizzato una protesta sulle condizioni di sicurezza durante la pandemia nel magazzino JFK8 di New York, Smalls ha fondato il primo sindacato di Amazon. Nella sua battaglia per i diritti, Smalls ha ricordato all’azienda di avere un’identità e di non essere soltanto un numero intercambiabile con un altro. “L’unica cosa che Amazon non può comprare è l’amore… Ci siamo organizzati riunendo le persone, spezzando il pane, ascoltando musica, creando un’atmosfera positiva, qualunque cosa necessaria per instaurare una conversazione con loro. Amazon non lo fa. Ha un sistema gestito da statistiche. Quando il potere delle persone si unisce, non c’è nulla che possa sconfiggerlo”.
Il problema dello schiacciamento dell’identità non si limita soltanto alle grandi aziende o alle istituzioni, ma anche ai media. Oggi in pochi riconoscono a Tarana Burke il merito di aver fondato il movimento #MeToo. Quando si sente parlare di questo movimento, la maggior parte delle persone pensa allo scandalo che ha travolto Hollywood nel 2017 e che ha portato all’arresto e alla condanna per stupro del produttore Harvey Weinstein. Non sanno che Burke ha dato vita alla campagna già nel 2006 e, soprattutto, che la denuncia collettiva delle molestie avvenuta in quegli anni è stata portata avanti da milioni di donne in tutto il mondo. Burke, durante l’incontro, ha fatto riferimento al concetto di validazione parlando con la regista Janicza Bravo. “C’è tutta una storia da raccontare sulla violenza sessuale, ma i riflettori continuano a essere puntati su un particolare gruppo di donne”, ha ricordato Burke. “Siamo stati socializzati per rispondere alla vulnerabilità delle donne bianche. Questa è una narrazione che dobbiamo disfare. Per Burke non è certo colpa delle donne bianche che condividono le proprie storie e chiedono che quelle storie siano ascoltate, il problema è che sono solo quelle che purtroppo trovano spazio e suscitano attenzione, finendo così per oscurare tutte le altre. Questa sorta di gerarchia tra le vittime di violenza di genere è un retaggio coloniale, che normalizza la violenza sulle donne non bianche e stigmatizza, solo a determinate condizioni, quella sulle donne bianche.
Anche nel contesto del #MeToo, anche di fronte a vittime che avevano tutte le garanzie di “rispettabilità” richieste dalla società patriarcale per essere riconosciute come tali, in molti hanno messo in dubbio la loro credibilità. Questo, secondo Burke, ha alimentato le divisioni nel movimento e per molti avrebbe addirittura sancito un suo fallimento. Ma come ricorda l’attivista, è fondamentale ricordare che validare l’esperienza delle donne marginalizzate che l’hanno creato non significa creare distinzioni tra le vittime, perché tutte le persone possono beneficiare di un mondo più giusto. Il punto non è tanto stabilire a chi appartenga il movimento, quanto evitare che venga strumentalizzato dall’esterno: “La gente troverà sempre un modo per dare la colpa alle donne di tutto”, ha aggiunto. Ciò dimostra la necessità di un’unione delle lotte che vada al di là delle divisioni che il potere costituito impone.
La complessità dei problemi che colpiscono la nostra società a volte ci sembra insormontabile, anche perché veniamo cresciuti con l’idea che il cambiamento e il miglioramento siano esclusivamente legati alla nostra forza di volontà individuale. Pensarsi al di fuori di questa logica e considerarsi soggetti in relazione significa non solo riconoscere la nostra interdipendenza, ma anche individuare più facilmente i responsabili dell’ingiustizia. Come ha ricordato la giornalista afghana Fatema Hosseini durante l’evento, è solo quando ci ricordiamo che di fronte a noi ci sono altri esseri umani che possiamo trovare la forza di combattere. Sessismo, razzismo, abilismo non sono solo concetti astratti, ma azioni e parole di cui si possono individuare i responsabili.
In una società che sembra considerare normali o inevitabili le disuguaglianze, come quella in cui siamo cresciuti, non è semplice esercitare il potere dell’incredulità, ma non è nemmeno impossibile. Se le donne in passato non si fossero mai pensate in un altro modo rispetto a quello in cui l’immaginario patriarcale le dipingeva e come persone meritevoli di diritti e autonomia di pensiero, non ci sarebbe mai stato il femminismo. Se le persone nere non si fossero mai pensate al di fuori dei paradigmi della bianchezza, ci sarebbe ancora la segregazione razziale. Senza questo pensarsi diversi, e uniti, non può esserci un giusto futuro.