Non si può morire perché costretti a scegliere fra il coronavirus e il lavoro

Oggi, 24 giorni dopo il primo caso accertato in Italia di coronavirus, entra in vigore il “protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”. È stato firmato sabato 14 marzo, tre settimane dopo lo scoppio dell’emergenza sanitaria. Settimane in cui in Italia si è parlato di come e quando poter fare una passeggiata, in che modo fare attività fisica, se i tabaccai sarebbero rimasti aperti e perché le profumerie sono fra le attività “necessarie” che possono restare aperte. Tre settimane in cui, come troppo spesso capita nel nostro Paese, ci si era dimenticati giusto un particolare: la salute e la sicurezza di quei lavoratori che in questo momento permettono che l’economia del Paese non vada per sempre a farsi benedire, o che il nostro soggiorno casalingo non diventi davvero simile a una reclusione; e, dovrebbe essere scontato dirlo, degli operatori sanitari – quelli cui si tributano applausi dai balconi ma non la garanzia della propria incolumità.

Sono giorni in cui le bacheche social della mia bolla sono piene di foto di cani/gatti/uccellini che ci tengono compagnia. Un continuo scorrere di immagini di chiamate di gruppo, o allenamenti da casa, di libri, film, giochi o qualsiasi  altro tipo di consiglio su come sopravvivere allo smart working e far passare la noia dentro le quattro mura di casa propria. Tutto questo magari mentre mangiamo una pizza appena ordinata su Deliveroo, Just Eat o Glovo, da cui ordinare anche una poke con l’avocado (perché ci si tolga tutto tranne l’avocado). Sì, perché se possiamo permetterci di ostentare la nostra noia casalinga, sperando che se mai dovessimo finire all’ospedale ci sarebbe qualcuno pronto ad assisterci, convinti  che quando finalmente ci rialzeremo dalle nostre poltrone lì fuori ci sarà ancora un Paese che riesce a garantire gli scaffali dei supermercati pieni, tutto questo lo dobbiamo proprio alle categorie di lavoratori di cui il nostro governo ha deciso di occuparsi per ultimi, o di non occuparsi proprio.

Come per esempio gli infermieri. “Mancano mascherine, tamponi e dispositivi di sicurezza. Siamo allo sbando,” hanno fatto sapere i segretari regionali del sindacato degli infermieri Nursing Up, Claudio Delli Carri e Angelo Macchia. Aggiungendo: “Vogliamo dispositivi di protezione individuale e tamponi subito, non siamo carne da macello. Veicoliamo il contagio e abbiamo paura per le nostre famiglie. Pare, inoltre che nel decreto in approvazione dal governo ci sia un’indennità di mille euro per gli operatori sociali, per quello che stiamo facendo. Mille euro è un’elemosina vergognosa”.

L’associazione degli infermieri di Lombardia e Piemonte ha scritto al governo paventando un possibile sciopero della categoria, fra i più esposti al contagio oltretutto. Da giorni lamentano l’assenza di approvvigionamenti, di camici adeguati, di calzari, ma anche delle mascherine che impediscano il contagio e di tamponi per verificare la positività al contagio. Insomma, stiamo davvero parlando della mancanza delle anche più minime misure per la tutela della salute. Chissà, magari  il governo pensava che gli scroscianti applausi, i lumini e gli inni cantati dai balconi italiani potessero bastare a rincuorare pure loro.

E così, mentre fior fior di giornalisti, analisti, opinionisti, o semplici arrivisti, impiegano il loro – troppo – tempo libero con inutili dirette social per parlare di temi scientifici di cui non sanno nulla, facendo a gara a chi posta per primo dati e numeri che non comprendono a pieno, o confezionano accattivanti e patinate stories che gli permetteranno di utilizzare l’hashtag #iorestoacasa così “la gente lo vede che non esco e mi dicono che sono una persona buona e responsabile” o magari se sono un cantante canto anche una canzoncina perché “Ehi raga, stare a casa è una figata”, ci sono lavoratori il cui operato rende possibile che questo soggiorno forzato sia così figo. Eppure non sembra freghi a nessuno, tanto meno al governo.

Mercoledì 11 un Giuseppe Conte tirato a lucido – che da quel giorno viene incensato come “meno male che c’era lui” o addirittura come sex symbol, nonostante prima di arrivare dove siamo oggi ci siano volute tre settimane, altrettanti decreti che per interpretarli ci voleva un indovino, e bozze “fuoriuscite” il cui unico risultato è stato accendere il panico e affollare le stazioni – ha comunicato a reti unificate che il governo avrebbe preso la decisione di chiudere l’Italia dei negozi e degli esercizi commerciali, firmando il decreto “Ulteriori misure di contenimento del contagio da COVID-19 sull’intero territorio nazionale”. A non chiudere – oltre alle profumerie che offrono chiaramente beni di prima necessità come l’eau de toilette, sai mai che chiuso in casa poi puzzi – l’esecutivo ha deciso fra le altre cose di non impedire il servizio a domicilio e di lasciare aperte le fabbriche. Una scelta a mio avviso necessaria – soprattutto per le seconde – per non rischiare davvero di non trovare più un sistema Paese quando l’emergenza coronavirus sarà finita.

Proprio a fronte di questa centralità del settore e delle categorie di lavoratori interessati, era necessaria, doverosa, la massima attenzione per fare in modo che operai, metalmeccanici, artigiani potessero svolgere in massima sicurezza il proprio lavoro. Questo perché, per usare le parole dello stesso Conte “Tutti coloro che stanno lavorando – operai, tecnici, quadri – non espletano semplici prestazioni lavorative secondo lo schema di scambio tra lavoro e retribuzione. In questo momento questo loro sforzo assume un particolare significato. È un atto di grande responsabilità verso l’intera comunità nazionale”. Peccato che proprio quella comunità, e in particolare chi la governa, non abbia mostrato la stessa attenzione nei loro confronti.

Così, mentre l’Italia intera si domandava se poter “scendere a pisciare il cane”, sindacati e lavoratori hanno giustamente iniziato a protestare proprio per la mancata attenzione nei loro confronti. Soprattutto nelle aziende della meccanica, dove sin dall’inizio dell’emergenza COVID-19 le sigle Fim, Fiom e Uilm, avevano chiesto misure di sicurezza per i dipendenti in modo da poter fronteggiare l’emergenza sanitaria senza rischi per la salute dei dipendenti. Richieste rimaste inascoltate per giorni, dando il via a una serie di scioperi in molte fabbriche, dovuti al fatto che in alcuni casi mancavano addirittura le mascherine e non si riescono a mantenere le distanze minime di sicurezza fra i lavoratori. Una situazione paradossale, visto il ruolo cruciale di quel settore. Una condizione assurda per uno Stato che nella sua Carta pone fra le sue basi il diritto al lavoro e la tutela della salute dei suoi cittadini. 

Sia il diritto al lavoro che la tutela della salute dei cittadini da parte della Repubblica sono diritti costituzionali. Il primo comma dell’articolo 4 (contenuto fra i principi fondamentali della Carta) recita infatti “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Passando invece all’articolo 32, si legge “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Quello che non è chiaro è come sia stato possibile che a tre settimane dall’inizio dell’emergenza Covid-19, e dopo due decreti ad hoc, all’interno dell’esecutivo nessuno avesse riflettuto sulla macroscopica necessità di occuparsi della salute di quei lavoratori che avrebbero dovuto compiere “un atto di grande responsabilità verso l’intera comunità nazionale”.

Pochi sanno che in Italia le fabbriche danno lavoro a oltre 4 milioni di persone e che costituiscono il grosso dei 463 miliardi esportazioni che tengono in piedi il Paese. Le proteste per una maggiore sicurezza hanno fatto riemergere dal dimenticatoio la strategicità e il peso del mondo industriale, mettendo in evidenza che da un lato se chiudono le fabbriche si azzera la produzione del Paese, dall’altro, se non chiudono, la lotta al coronavirus, per come è stata impostata in Italia, rischia di essere di fatto compromessa.

E così suona tragicomico l’annuncio di Conte fatto dopo la videoconferenza di venerdì mattina fra esecutivo e le parti sociali.  “Abbiamo il vincolo morale e giuridico di garantire loro condizioni di massima sicurezza” per questo “la Protezione civile sta compiendo sforzi straordinari per essere nella condizione di distribuire gratuitamente a tutti i lavoratori, già nei prossimi giorni, dispositivi di protezione individuale. Vale a dire, guanti e mascherine”. Dopo tre settimane e due decreti, quello di prevedere guanti e mascherine per chi lavora in fabbrica è già un bel passo avanti.

Come è possibile che il governo non si sia confrontato con le sigle sindacali prima di firmare il decreto “restiamo a casa”? La risposta è da ricercarsi non nella pandemia, ma in anni politiche – o di non-politiche – che negli anni hanno reso il rapporto fra salute e lavoro sempre più simile ad uno scontro fra fazioni, quando invece dovrebbe essere tutt’altro. A questo proposito il caso dell’Ilva di Taranto ha fatto, e continua a fare, tragicamente scuola. Uno Stato incapace di imporre a una multinazionale di rispettare tutte le misure possibili per tutelare ambiente e salute, non solo dei suoi lavoratori, ma di un’intera città. Decenni di malgoverno, miopia, e interessi tanto individuali quanto criminali che hanno portato tutta Taranto a scontrarsi con una realtà che la costringe a scegliere: “Vuoi lavorare? Allora devi essere pronto a morire”. Non c’è quindi da stupirsi se anche in questo caso, in piena emergenza sanitaria, il dibattito fra lavoratori che chiedono sicurezza e industriali che richiedono continuità di produzione abbia assunto i toni tipici di una puntata di Forum.

Per gli industriali lombardi le rivendicazioni dei sindacati di fronte all’emergenza coronavirus – e in particolare la decisione di scioperare – è stata “irresponsabile”. Il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, ha dichiarato che una parte di società, soprattutto i rappresentanti dei lavoratori, “stanno strumentalizzando questo fenomeno e stanno aprendo degli scioperi in varie fabbriche”. A suo avviso, è “un segno di non responsabilità, di non capire i problemi che abbiamo”. Ecco, la drammaticità di questo scontro fra salute e lavoro sta proprio nel fatto che entrambe le parti in causa hanno pienamente ragione. Ha ragione la Fiom quando chiede al governo di “mobilitarsi da subito per iniziative tese a verificare che ai lavoratori siano garantite dalle imprese le condizioni di salute e sicurezza anche attraverso fermate per una riduzione programmata delle produzioni”. Come ha ragione anche Confindustria Lombardia nel placare chi grida al “chiudiamo tutto”, ricordando che “Ci sono delle aziende strategiche per questo Paese che non possono fermarsi, filiere complete come la farmaceutica e l’alimentare, che hanno bisogno dell’imballaggio, dei trasporti”. Anche il Centro studi di Confindustria ha infatti sottolineato che: “fabbriche chiuse vuol dire supermercati vuoti, prospettive di ripresa in pericolo”. D’altra parte resta il fatto che la salute della collettività non può correre rischi. Ecco dunque presentarsi un perfetto esempio di dilemma cui una politica attenta e preparata dovrebbe saper rispondere, trovando un compromesso in grado di non compromettere nessuna delle parti in gioco. Ma siamo in Italia nel 2020, non possiamo pretendere troppo.

Marco Bonometti

E così si è arrivati alla mattina di Sabato 14 marzo, e alla pubblicazione di un altro glorioso quanto epico tweet del presidente del Consiglio: “Dopo diciotto ore di un lungo e approfondito confronto, è stato finalmente siglato tra sindacati e associazioni di categoria il protocollo di sicurezza nei luoghi di lavoro. Per il bene del Paese, per la tutela della salute di lavoratrici e lavoratori. L’Italia non si ferma”. L’accordo consentirà alle imprese di tutti i settori, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali e la riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro”. Tutto è bene quel che finisce bene no? Più o meno. Davvero si doveva arrivare agli scioperi (più che giustificati) per richiedere quello che deve sempre essere dovuto: la salute e la sicurezza sul lavoro? Si doveva necessariamente arrivare alle minacce e alle settate delle fabbriche? Onestamente penso che siano questi i momenti in cui la competenza e la lungimiranza di chi governa – qualità politica troppo spesso sottovalutata – vada esaminata e giudicata. E anche in questo caso il giudizio si attesta in una forbice che va dal “meglio tardi che mai” allo “speriamo che non sia troppo tardi”.

Non è possibile che dopo tre settimane dall’inizio dell’emergenza il dicastero del Lavoro non avesse pensato a un modo per garantire la salute di tutti i lavoratori italiani, e in particolare di quelle categorie chiave per il sistema Paese e per la sua economia. Come è possibile che i sindacati scoprano quali sono le azioni decise dal governo solo a decisione presa? E davvero, almeno risparmiateci i post governativi autocelebrativi “per il bene del Paese”. Ecco, proprio per quel famoso bene comune, mi sentirei più al sicuro con dei governanti che invece di stare sui social pensassero e agissero in modo puntuale, attento e condiviso.

L’assurdità dello scontro tutto italiano fra tutela della salute e diritto al lavoro ha raggiunto livelli paradossali se si guarda alla situazione dei rider. Dopo mesi al centro della propaganda politica, utilizzati come pedine per raccattare consenso, i rider si sono ritrovati a essere attori fondamentali di un Paese in quarantena, ma ancora una volta senza le tutele igienico-sanitarie necessarie. Il decreto infatti prevede che se bar e ristoranti devono restare chiusi al pubblico, le consegne a domicilio possono essere svolte. E attenzione, non pensiamo solo a chi viene preso dall’irresistibile languorino per un chirashi con salmone, ma a chi si fa portare a casa beni di prima necessità a casa, magari perché soggetto a rischio con scarse difese immunitarie che non gli permettono di fare una passeggiata per andare al supermercato più vicino o alla farmacia di turno. Proprio per questo era naturale aspettarsi la predisposizione di misure capaci di garantire la sicurezza di chi farà quelle consegne, tutelando così anche la salute di  tutte le persone con cui vengono in contatto. E invece no. D’altronde diciamocelo, la battaglia per i diritti dei rider andava di moda un anno fa, ormai non più.

E quindi, questi lavoratori autonomi – circa 20mila secondo le stime – pagati a consegna, senza particolari garanzie e tutele sono diventati l’ennesimo esempio del perché quando si decidono misure drastiche come quelle adottate per contenere il contagio del coronavirus c’è bisogno della competenza che permette di immaginare tutti i possibili risvolti che queste misure possono avere. Che poi, in realtà, non mi pare ci voglia un dottorato per richiedere alle piattaforme di delivery di fornire almeno guanti e mascherine ai lavoratori. E invece niente. E così anche fra i rider è cominciata la protesta. Il collettivo Deliverance Milano ha chiesto a tutti i colleghi di interrompere l’attività. “Sentiamo la necessità di dire che la nostra vita e la nostra salute valgono più di una pizza, di un sushi, di un panino”, hanno scritto, invitando anche i consumatori a non ordinare, perché “pensiamo al necessario, alla nostra salute, alla nostra vita”. D’altra parte, però, c’è chi se non consegna non guadagna, tanto che la Cgil ha chiesto ammortizzatori sociali anche per questa categoria di lavoratori. E così si è ripetuto lo scontro fra due diritti costituzionali, e di certo non per colpa di chi lavora chiedendo tutte le tutele in materia di sicurezza. Poi nel weekend Assodelivery, l’associazione dell’industria italiana della consegna di cibo a domicilio, ha iniziato a distribuire mascherine a tutti i rider. Una decisione presa prima che il governo pensasse che forse era il caso di prenderne una nei confronti di tutti quei lavoratori cui è stato chiesto di non fermarsi.

Fino a  quando nel nostro Paese questi due diritti saranno visti e affrontati come se fossero in contrapposizione non arriveremo mai da nessuna parte. È tremendamente ingiusto richiamare alla responsabilità una parte della “forza lavoro”, chiedendole di restare a casa per il bene di tutti, e nello stesso momento non pensare alla responsabilità che un governatore ha nei confronti di coloro ai quali, per il bene di tutti, viene invece chiesto di non fermare. Sono giorni che viene tutta l’Italia viene invitata a essere responsabile, perché è nostro dovere fare in modo che il contagio da COVID-19 possa essere fermato nel minor tempo possibile, e allo stesso tempo viene chiesta la medesima responsabilità ai lavoratori affinché anche l’economia del Paese non vada a rimpolpare il numero dei deceduti da coronavirus.

Ora è però arrivato il momento che chi governa si faccia realmente carico di tutta la responsabilità che implica governare un Paese, attraverso scelte ponderate, attente, misurate e condivise con tutte le parti in gioco. Altrimenti finisce che a casa ci resteremo tutti anche dopo che il coronavirus sarà stato debellato. Saremo sanissimi, ma chiusi a casa pubblicando tante stories pregando che di trovare i soldi per pagare l’affitto.

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