La violenza è una malattia infettiva. E la scienza sa come debellarla.

Solitamente, un trauma facciale non uccide, ma può sfigurare significativamente la vittima. Christine Goodall lavora come chirurgo maxillo-facciale a Glasgow dall’inizio degli anni Duemila e ha curato centinaia, se non migliaia, di pazienti con ferite al collo, sul volto, alla testa e sulla mandibola. A volte le ferite sono causate da una mazza da baseball, che frantuma le ossa e causa lividi gravi, quasi quanto quelli di un incidente stradale; altre volte si tratta di un coltello. Un taglio sulla fronte o sulla guancia lasciano una cicatrice incisa sul volto, un machete ferisce tutta la mascella, tagliando la pelle e arrivando a rompere l’osso sottostante.

Una volta, nel bel mezzo della notte, un giovane è entrato nell’ospedale con una ferita da coltello che gli attraversava il volto. Goodall temeva il tour mattutino dell’indomani, perché allora avrebbe dovuto dirgli che sarebbe stato impossibile ridurre la visibilità della cicatrice. La sua reazione però l’ha stupita. “Sembrava molto tranquillo,” ha detto. “I suoi amici sono venuti a trovarlo nel pomeriggio, ed è lì che ho capito perché la cicatrice per lui non sarebbe stato un problema: perché tutti ne avevano una. Si era semplicemente unito al club”. L’incidente è rimasto impresso nella mente di Goodall, come un promemoria di quanto la situazione in città fosse diventata pericolosa.

Nel 2005, l’Onu ha pubblicato un rapporto in cui si diceva che la Scozia era il Paese più violento al mondo. Lo stesso anno, uno studio sul crimine condotto dall’Organizzazione mondiale della sanità in 21 nazioni europee ha mostrato che Glasgow era la capitale degli omicidi. In un anno, più di mille persone hanno fatto richiesta per un trattamento per trauma facciale, molti dei quali causati da una colluttazione violenta.

Goodall, che ha passato la maggior parte della sua vita a Glasgow, mette i punti alle ferite e ripara i tessuti danneggiati. Per molti pazienti però il problema rimane a lungo, anche dopo la dimissione: dolore cronico, sindrome da stress post-traumatico, automedicazione con alcool e droghe. Spesso, sono sempre le stesse persone a fare avanti e indietro dal reparto di traumatologia e dal pronto soccorso, come vittime o autori di attacchi violenti. “Siamo diventati davvero bravi a ricucire le ferite,” dice Goodall. “Ma poi mi sono chiesta: cosa possiamo fare per evitare che arrivino qui?”

Gli esseri umani adottano continuamente di comportamenti a rischio che possono portare a seri problemi di salute: fumare, mangiare troppo, fare sesso senza protezioni. Da molto tempo è stata accettata la saggia idea per cui i dottori dovrebbero incoraggiare i pazienti a cambiare i loro comportamenti – smettere di fumare, mettersi a dieta, usare il preservativo – anziché aspettare di curare un’enfisema o attacchi di cuore correlati all’obesità o l’HIV. Quando si parla di violenza invece, la discussione si basa sull’assunto che sia un comportamento innato e immutabile, e che le persone che la commettono non si possano redimere. Troppo spesso il sistema giudiziario ha adottato misure di contrasto inefficaci, come sentenze più dure o aumento dei pattugliamenti. Ma esistono prove sostanziali del fatto che nessuna di queste soluzioni sia efficace nel ridurre il crimine. L’approccio securitario quindi è una tattica sbagliata?

Nel 2005, Karyn McCluskey, la principale analista della Strathclyde Police, ha scritto un report in cui faceva notare che la polizia tradizionale non stava riuscendo a diminuire la violenza. Questo genere di relazioni contengono sempre una lista di consigli. “Uno era abbastanza ironico,“ ricorda Will Linden, che lavorava come analista per McCluskey. “’Fate qualcos’altro’. Non penso intendesse proprio quello, ma il commissario capo ci diceva ‘Okay, andate a fare qualcos’altro”. Il team di McCluskey, capitanato da lei e dal collega John Carnochan, ha cominciato quindi a fare ricerca sulle origini della violenza. “In modo particolare, in Scozia queste ragioni potevano essere la povertà, le disuguaglianze, la mascolinità tossica, l’abuso di alcool o tutti questi fattori messi insieme – la maggior parte dei quali sono al di fuori dei compiti della polizia,” dice Linden.

A questo punto gli studiosi si sono guardati in giro per trovare altri programmi pionieristici sulla prevenzione della violenza e imparare da questi. Così hanno fondato la Violence Reduction Unit (VRU), di cui Linden ora è direttore. Il gruppo ha scelto alcuni elementi di programmi già esistenti e si è impegnato a guadagnare supporto da altre istituzioni scozzesi, come il sistema sanitario, il dipartimento per il supporto contro le dipendenze, i centri d’impiego e altri. Da quando la VRU è stata lanciata nel 2005, il tasso di omicidi a Glasgow è crollato del 60%. Il numero di pazienti per traumi facciali che passano dagli ospedali di Glasgow si è dimezzato, secondo Goodall, e ora si aggira intorno ai 500 casi per anno.

Karyn McCluskey

La strategia della VRU è stata descritta come un approccio da “sanità pubblica” alla prevenzione della violenza. Questo si riferisce a un’intera scuola di pensiero che suggerisce che oltre agli ovvi problemi di salute che risultano dalla violenza – il trauma psicologico e le ferite fisiche – è il comportamento violento stesso a essere una malattia che si trasmette da una persona all’altra. Se qualcuno è stato vittima di violenza sarà incline a commetterla a sua volta. L’idea che la violenza si trasmetta tra le persone, riproducendosi e diventando la norma all’interno di un gruppo, spiega perché una località può essere più interessata da più accoltellamenti o sparatorie rispetto a un’altra con simili problemi sociali. “Nonostante la violenza sia sempre stata presente, il mondo non la deve accettare come una parte inevitabile della condizione umana,” afferma una guida dell’Oms sulla prevenzione della violenza.

Dice anche che “La violenza può essere prevenuta e il suo impatto ridotto nello stesso modo in cui gli sforzi della sanità pubblica hanno prevenuto e ridotto le complicazioni relative alla gravidanza, gli infortuni sul lavoro, le malattie infettive e quelle dovute al cibo e all’acqua contaminata in molte parti del mondo. I fattori che contribuiscono alle risposte violente possono essere cambiati – siano essi legati all’abitudine o al comportamento oppure relativi a condizioni sociali, economiche, politiche o culturali più vaste”. Ma nella maggior parte del mondo, il pugno duro contro il crimine garantisce voti, cosa che rende difficile convincere la politica a perseguire quest’idea. Come ha fatto Glasgow? Quando indagavano su cosa significasse trattare la violenza come un problema di salute, la VRU ha pensato a Chicago.

Negli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, l’epidemiologo americano Gary Slutkin era in Somalia: era uno dei sei dottori che lavoravano sugli oltre 40 campi profughi che ospitavano un milione di persone. Il suo obiettivo era contenere il contagio di tubercolosi e colera. Il contenimento delle malattie infettive si basa in gran parte sui dati. Per prima cosa, la sanità pubblica mappa in quale preciso luogo avvengono la maggior parte delle trasmissioni della malattia. Solo in seguito possono impegnarsi a contenerla in quelle aree, spesso spingendo le persone a cambiare le proprie abitudini, così che un effetto rapido possa essere visto anche quando fattori strutturali maggiori non possono essere contrastati. Per esempio, le malattie diarroiche spesso sono causate da un cattivo sistema fognario e dalle risorse d’acqua. Ci vuole molto tempo per sistemare le fognature, ma nel frattempo, migliaia di vite possono essere salvate dando alle persone delle soluzioni orali per reidratarle.

Gary Slutkin

Slutkin seguì questi stessi passi per contenere le infezioni nei campi profughi somali e poi anche più tardi, quando ha lavorato con l’Oms sulla prevenzione dell’AIDS. Qualsiasi fosse l’esatta natura della malattia infettiva in questione, i vari passaggi per contenerla erano più o meno gli stessi. “Cosa hanno in comune? Tutte queste cose si trasmettono,” racconta Slutkin dal suo ufficio di Chicago. “Le malattie cardiache, gli infarti non si trasmettono”.

Cambiare le norme di comportamento è molto più efficace che semplicemente informare le persone. E per farlo, che l’obbiettivo sia fornire alla gente soluzione reidratante, spingerle a evitare l’acqua sporca o a usare i preservativi, dei messaggeri credibili sono fondamentali.

“In tutti i focolai abbiamo utilizzato personale che provenisse dallo stesso gruppo di quello del target,” ha spiegato Slutkin. “Rifugiati somali per parlare con rifugiati con tubercolosi o colera, sex workers per interfacciarsi con sex workers con l’AIDS, mamme per entrare in contatto con mamme che soffrissero di problemi legati all’allattamento o alla digestione.”

Dopo oltre dieci anni di lavoro all’estero, Slutkin è rientrato in patria, a Chicago, alla fine degli anni Novanta, esausto dal continuo viaggiare e per via della costante esposizione alla morte. “Volevo semplicemente una pausa da tutte queste epidemie,” ha confessato. Non aveva pensato che anche gli Stati Uniti potessero avere simili problemi. Per anni era stato consumato dalla paura legata alle malattie e alle difficoltà tipiche che si riscontrano nei Paesi in via di sviluppo; ora si trovava davanti a una problematica diversa: un tasso di omicidi schizzato alle stelle.

I suoi progetti legati alla risoluzione di questo problema sono iniziati con un’idea da nerd, nata dall’ossessione, sviluppata all’estero, con i grafici e le tabelle. Quindi ha cominciato a raccogliere dati relativi alla violenza da arma da fuoco nella sua città. Nel farlo, si è subito accorto delle analogie con quelle mappe che era abituato a realizzare per inquadrare la diffusione di un’epidemia. “Le curve di andamento delle malattie sono le stesse, e procedono a grappolo. Da lì è stato facile capire che si trattava di un fenomeno contagioso: come la febbre causa febbre, il raffreddore causa più raffreddori, la violenza causa ulteriore violenza.”

Si trattava di una prospettiva piuttosto diversa rispetto al pensiero mainstream, concentrato perlopiù sulle tecniche di contrasto più classiche, securitarie, sul pugno di ferro. “Ad essere sbagliata è l’idea di fondo che le persone siano sostanzialmente ‘cattive’ e che quindi non ci sia altro da fare se non punirle,” ha spiegato Slutkin. “È un fraintendimento della condizione umana. Il comportamento si forma in realtà sull’esempio, sulla riproduzione dei modelli. Quando hai la salute dalla tua, e analizzi una malattia, non giudichi o colpevolizzi. Cerchi di comprendere, di trovare delle soluzioni.”

Slutkin ha passato gli anni successivi tentando di finanziare un progetto pilota che tentasse di contrastare la violenza con gli stessi processi che l’Oms utilizza per combattere le epidemie di Tbc, colera o Hiv. I passaggi dovrebbero essere tre: interrompere la trasmissione, prevenire futuri contagi, cambiare le norme di comportamento del gruppo.

Nel 2000, il progetto è partito nel quartiere di West Garfield Park, a Chicago. Già nel corso del primo anno si è registrato un calo del 67% nelle sparatorie. Più finanziamenti arrivavano, più quartieri venivano inclusi nella sperimentazione. Ovunque il progetto venisse implementato, la violenza crollava del 40%. L’approccio è stato poi usato anche in altre città.

Quando cercavamo di controllare il contagio di Hiv provavamo a cambiare la mentalità delle persone affinché evitassero di adottare comportamenti sessuali rischiosi,” ha spiegato Slutkin. “È molto più complesso cambiare questo che non il comportamento violento. Le persone non vogliono cambiare le loro abitudini a letto, mentre sono disposte, vogliono rinunciare alla violenza.” Nonostante ci fossero diversi fattori che contribuivano all’alto tasso di violenza nella città di Chicago – la povertà, la mancanza di lavoro, l’esclusione sociale, la segregazione, il razzismo – secondo Slutkin le vite dei suoi abitanti potevano essere cambiate semplicemente cambiando il comportamento di alcuni e invertendo le norme del gruppo.

Come in molti altri posti, il dibattito sulla violenza a Chicago prende spesso una piega razzista. La città è pesantemente suddivisa su base razziale. Molti quartieri del South Side, la parte meridionale, hanno una popolazione afroamericana del 95%; altri hanno simili percentuali per gli americani di origine messicana. Molte di queste aree sono molto povere dal punto di vista socioeconomico e vengono da anni di totale abbandono da parte dello Stato. Il tasso di omicidi in alcuni casi supera di dieci volte quello di altri quartieri, più benestanti, nelle aree abitate dai bianchi.

Secondo Slutkin, tuttavia, questa diffusione a grappolo della violenza ha molto meno a che fare con l’etnia e molto di più con i pattern di comportamento di una piccola sezione della popolazione, principalmente dei giovani maschi, e che poi si diffondono a tutti gli altri. “Il linguaggio condiziona il comportamento delle persone, quindi cerchiamo di non usare termini come “criminale” o “gang” o “teppista”, ma parliamo di contagio, trasmissione, guarigione,” ha spiegato.

Oggi l’organizzazione di Slutkin, Cure Violence, ha sede nel dipartimento di salute pubblica dell’Università dell’Illinois, a Chicago. In corridoio c’è un poster con un giovane ragazzo e lo slogan recita “Non mi sparare. Voglio crescere”.

L’organizzazione lavora oggi in 13 quartieri, e simili programmi sono stati sviluppati anche a New York, Baltimora, Los Angeles e anche in altre nazioni del mondo. Si basa sull’addestramento di organizzazioni locali a questo tipo di approccio. Poi sono loro ad occuparsi di trovare il giusto personale per lavorare nell’area.

Nonostante ci siano dubbi sull’uso delle statistiche che Cure Violence fa, il metodo risulta efficace secondo diversi studi. Una ricerca del 2009 della Northwester University ha riscontrato che con questo metodo il crimine è sceso in diversi quartieri. Nel 2012, i ricercatori della Scuola di salute pubblica John Hopkins hanno analizzato quattro aree della città di Baltimora che avevano implementato il progetto di Slutkin e hanno riscontrato che il numero di omicidi era calato in tutte. I risultati spesso sono stati sorprendenti. A San Pedro Sula, nell’Honduras, le prime cinque aree che hanno utilizzato il metodo Cure Violence hanno visto, nel periodo tra gennaio e maggio del 2015, il tasso di sparatorie calare del 98% rispetto a quello del 2014.

Demetrius Cole ha 43 anni, è un uomo pacato, con un tono di voce soffice. Ha passato in prigione gli ultimi 12 anni. È cresciuto in un’area di Chicago devastata dalla violenza e, all’età di 15 anni, ha visto il suo migliore amico morire in una sparatoria. Nonostante questo, ha vissuto una vita tranquilla ed è rimasto fuori dal mondo delle gang. Voleva diventare un marine. Quando ha compiuto 19 anni, un suo caro amico ha comprato una macchina nuova. Altri ragazzi del quartiere hanno tentato di rubarla, e hanno sparato al suo amico. Cole non si è fermato a pensare, ha reagito. In quei pochi minuti, la sua vita è cambiata per sempre. Mentre il suo amico è rimasto paralizzato, incapace di lavorare, Cole è stato spedito in prigione per il suo gesto.

“Ho reagito in base all’emozione, come accade spesso da queste parti,” ha confessato. A partire dall’ottobre 2017 ha lavorato per Cure Violence nel quartiere di West Englewood, nel South Side di Chicago. Si trova davanti persone che sono nella stessa situazione in cui era lui e prova a persuaderli che vale la pena fermarsi a riflettere. “Cerchiamo di mostrare loro che la violenza ti mette davanti a un vicolo cieco. Gli spiego che esistono solo due modi in cui una sparatoria può concludersi: o muori, o finisci in prigione.” Cole lavora per Cure Violence come un “interruttore di violenza” e interviene in seguito a una sparatoria per prevenire vendette e calmare le persone prima che monti un’escalation di violenza. “Il mio lavoro è interrompere la trasmissione,” mi ha spiegato Cole. “Cerchiamo diversi modi per allontanare questi ragazzi dalla mentalità a cui sono abituati, dando loro una prospettiva diversa.”

Gli interruttori di violenza utilizzano numerose tecniche, alcune prese in prestito dalla terapia cognitivo comportamentale. Cole le recita una a una: la “riproduzione costruttiva”, che consiste nel ripetere al soggetto le sue stesse parole; il babysitting, che consiste semplicemente nel restare con qualcuno fin quando non si è calmato; l’enfatizzazione delle conseguenze. “Diversi ragazzi non sanno nemmeno dove mangeranno il prossimo pasto, le loro madri si drogano,” racconta Cole. “Alcuni dicono che il rifiuto della violenza sia comune buon senso. No. Il buon senso non appartiene a molte persone, non è così comune.”

L’efficacia del lavoro dell’interruttore dipende dalla sua credibilità. Molti, come Cole, hanno passato diversi anni in prigione e possono parlare di esperienze vissute in prima persona. Molti sono conosciuti nella comunità locale. Possono intervenire nel momento in cui c’è una sparatoria, per esempio convincendo i partecipanti a non reagire. Ma spesso si accorgono anche quando il conflitto si sta avvicinando e quindi si muovono preventivamente per allentare la tensione o suggerire alternative pacifiche. “Magari non riusciamo a raggiungere tutti, ma anche solo quelle poche persone significano molto,” confessa Cole. Ride mentre parla di un giovane uomo con cui si è trovato a lavorare. “Era un casino. Tutti i ragazzini guardavano a lui come un modello. Era lui l’uomo del gruppo, sempre in assetto da combattimento. La sua trasformazione è stata totale – ora i ragazzini lo vedono lavorare, e vengono al nostro centro per trovare un impiego.”

Grand Crossing è un’altra area del South Side. Nel dicembre 2017 ha aperto qui un nuovo centro Cure Violence, su una strada trafficata, in uno spazio neutro scelto deliberatamente per accogliere diversi gruppi rivali. Quando ci entro, in un pomeriggio primaverile, un ragazzo quasi ventenne con una cicatrice piuttosto visibile in volto siede alla reception. Nell’ufficio, lo staff sta giocando a domino, la tv sullo sfondo passa una partita di baseball. Un giovane uomo della zona fa avanti e indietro nella stanza per parlare con i dipendenti. Demeatreas Whatley, il supervisore della zona, sta gestendo le scartoffie nell’ufficio sul retro. Whatley ha lavorato per il Cure Violence a periodi alterni dal 2008, quando è uscito di prigione dopo 17 anni e ha deciso che aveva bisogno di fare qualcosa di diverso nella sua vita. Il suo primo incarico era a Woodlawn, l’area in cui è cresciuto.

Demeatreas Whatley

Ignorando le lamentele dei genitori si è trasferito nel quartiere più problematico dal punto di vista delle tensioni tra gang e ha lavorato giorno e notte per istaurare trattati di pace tra i giovani gruppi rivali. Inizialmente ha convinto i due gruppi a stare alla larga l’uno dal territorio dell’altro, poi ha lavorato sugli individui per modificare la loro visione della violenza come soluzione e li ha spinti a tornare a scuola. “Ho capito che stavo davvero facendo la differenza quando ho visto gli anziani sedersi sotto al porticato di casa loro a bere il caffè,” ha detto.

Anche se deve sempre essere adattato alle caratteristiche del luogo, Cure Violence segue più o meno sempre gli stessi passaggi. Prima di tutto, mappa le aree di diffusione della violenza. Whatley mi mostra una fotocopia in formato A4 di Grand Crossing, dove sono evidenziate le zone con il tasso di omicidi più alto, dove si concentra il lavoro dell’organizzazione. Poi, assume messaggeri credibili che abbiano connessioni con la comunità locale. “Il tipo di persona che cerchiamo è qualcuno di rispettato nella zona, e magari è già qualcuno che lavora per sedare le risse o aiuta i ragazzi a fermare questa pazzia,” mi dice. Questi interruttori pattugliano le strade facendo conoscenza con i negozianti, i vicini e costruendo legami con i ragazzi e le ragazze che sono considerati a rischio. “Sono in grado di capire se c’è stata una rissa o se ne sta per arrivare una,” mi racconta Withley. “È questo che li rende efficaci. Il fatto che sono sempre presenti.”

Il centro dà lavoro a 11 interruttori, che di solito spendono almeno sei delle otto ore del turno in giro per il quartiere; poi ci sono almeno altri 4 mediatori che lavorano sul lungo periodo, interagendo con i ragazzi. In un periodo che va da sei mesi a un anno, questo genere di professionisti cercano di cambiare la predisposizione alla violenza e cercano opportunità di lavoro, consulenza o di formazione per i ragazzi del quartiere. “Bisogna conoscere alcuni trucchetti,” raconta Jermaine Peace, un mediatore che lavora a Grand Crossing. A volte attira l’interesse dei ragazzi dicendo loro che può scattare delle fototessere per la patente. “Alcuni ragazzi e ragazze pensano che a nessuno importi,” mi dice.

“Una volta che hanno capito che a te interessa e che ti vuoi mantenere in contatto, magari qualche volta ti chiamano e ti dicono ‘ehi, non mangio da due giorni’. Allora tu vai lì e compri loro qualcosa da mangiare e a quel punto hai una buona occasione per parlare con loro.” Peace usa questo genere di espedienti per cercare di cambiare la loro mentalità. I mediatori assistono i loro clienti in generale, portandoli in centri per la tossicodipendenza, trovando loro lavoro o anche comprando loro dei vestiti nuovi da indossare ai colloqui. Il lavoro è difficile, specialmente quando si ha a che fare con i giovanissimi, perché in quel caso la pressione condizionante del gruppo è più forte. Un giovane ragazzo con cui Peace stava lavorando è stato ucciso proprio quando stava per iniziare il processo di trasformazione.

Se da un lato Slutkin evidenzia quanto questo modello possa essere efficace e veloce nel ridurre gli omicidi, e quanto sia meno costoso rispetto all’incarcerazione di massa, dall’altro non si può negare che ci vogliono un sacco di mediatori e interruttori per riuscire nello scopo. Alcuni territori delle gang di Chicago sono molto piccoli, sono fatti di alcuni isolati. Un interruttore rispettato in una zona sarebbe uno sconosciuto in un altra, o addirittura potrebbero essere diffidenti nei suoi confronti. Per poter lavorare serve almeno un interruttore con buone connessioni in ciascun distretto, in modo che quando scoppia il conflitto ci sia qualcuno di fidato nei paraggi che possa intervenire.

Cole usa le sue connessioni a West Englewood e istaura nuovi legami con persone che lo possano aiutare a raggiungere sempre più gente. “Sono stato nella stessa condizione. È difficile reinserirsi nella società dopo essere stati in prigione,” mi dice Cole. Se le persone ti conoscono e conoscono la tua storia, sei in grado di mettere fine a un sacco di risse o sparatorie, e anche evitare omicidi. Io sono la prova vivente che anche loro ne possono uscire. Puoi farcela, dico loro, puoi cambiare.”

A Glasgow, Christine Goodall non vede i pazienti solo nel momento in cui vengono ricoverati per la ferita, subito dopo l’attacco. A volte le persone tornano da lei mesi, anche anni dopo l’incidente, cercando disperatamente una soluzione. Una giovane paziente è tornata un anno dopo essere stata sfigurata in volto dal partner abusante, che le ha squarciato la guancia con un coltello. L’attacco le ha lasciato una ferita gigante e non c’era nulla che la chirurgia potesse fare per migliorare la situazione. “Era molto carina, espansiva, aveva un lavoro, una vita normale. Ma non si sentiva in grado di uscire di casa, figuriamoci lavorare,” racconta Goodall. “Sai quando qualcuno piange davvero fino a singhiozzare? Era una cosa straziante. Sono uscita da quella stanza e mi sono sentita priva di ogni speranza.” In quel momento Goodall ha deciso che doveva fare qualcosa. Nel 2008, insieme ad altri due colleghi chirurghi, ha fondato un’associazione caritatevole che si chiama Medici Against Violence. L’associazione è diventata partner di Violence Reduction Unit.

Quando la VRU è stata fondata, nel 2005, Karyn Mc Cluskey e John Carnochan, della polizia di Strathclyde hanno cercato ovunque per trovare una possibile soluzione per Glasgow. Alla fine hanno tentato l’approccio di Gary Slutkin, mescolandolo a quello di David Kennedy, un criminologo di Boston. Il modello di Kennedy, lanciato a Boston negli anni Novanta, prevede che vengano riuniti gli esponenti delle gang rivali e che sia data loro un’opzione: rinunciare alla violenza ed entrare in un percorso di formazione o di lavoro, oppure affrontare le conseguenze penali. Questo ha significato anche aumentare le pene per possesso di coltello e incrementare le perquisizioni. Tutte misure accostate alle misure preventive in linea con l’approccio da salute pubblica.

John Carnochan

Will Linen, il direttore esecutivo della VRU, sostiene che questa politica sia stata necessaria. “Prima di iniziare a lavorare abbiamo dovuto ripetere allo sfinimento che la polizia stava facendo del suo meglio, ma che non era abbastanza,” spiega. Se all’inizio l’enfasi dell’operazione era equamente diffusa su controlli più serrati e lavoro preventivo, oggi Linden stima che il 90% dei finanziamenti sia dedicato alla seconda. “Se non fossimo partiti così avremmo dovuto passare la maggior parte del nostro tempo a convincere la stampa che il nostro non era un approccio troppo debole,” dice.

La VRU è gestita dalla polizia, con il supporto del governo scozzese. È piuttosto inusuale – la Scozia è l’unico Paese al mondo in cui le forze di polizia hanno formalmente adottato un modello di contrasto al crimine con un approccio da salute pubblica. Cure Violence a Chicago opera attraverso l’università, mentre modelli simili a New York e Baltimora sono gestiti dall’amministrazione cittadina e dal dipartimento di salute pubblica. Slutkin, un purista del modello di salute pubblica per il contrasto alla violenza, definisce “orribile” il fatto che sia la polizia ad amministrare il progetto, anche perché sono spesso le forze dell’ordine ad essere parte del problema.

Oltre alla polizia, un’altra serie di ufficiali pubblici – dai dottori ai lavoratori del sociale – sono coinvolti. L’organizzazione di Goodall, Medics Against Violence va nelle scuole per sensibilizzare i bambini alla cultura dell’antiviolenza, per insegnare loro come reagire di fronte a un attacco con coltello e spingerli a riflettere i maniera concreta su come reagire, ad esempio, se un amico dicesse loro che ha un coltello con sé. Utilizza anche delle figure simili a quelle degli interruttori di Chicago, che chiamano navigator e che intervengono direttamente sul luogo dello scontro per attenuare la tensione e aiutare le persone a trovare supporto. A Glasgow i navigator non sono assegnati a una zona specifica, ma lavorano negli ospedali, dove vengono in contatto con le persone coinvolte in risse e scontri violenti. “Molte persone arrivano al pronto soccorso pianificando una vendetta quindi è molto importante che escano senza questa idea in testa,” dice Goodall.

Nel settore della prevenzione della violenza ci si riferisce a questo passaggio come un momento di insegnamento e contatto, quando le persone sono più recettive del normale. “Il dolore è un motivatore incredibile,” dice Linden. Dopo una conversazione iniziale, il navigator aiuta il soggetto a trovare un programma di disintossicazione, se serve, un’opportunità di lavoro oppure un terapeuta. Cercano sempre di agire il più velocemente possibile. Quando qualcuno vuole cambiare, devi essere in grado di cogliere il momento giusto,” dice Linden. “In sei o dodici settimane il soggetto avrà totalmente cambiato mentalità. Ci assicuriamo che, se ci imbattiamo in qualcuno che possa necessitare aiuto, questo non debba aspettare”. Per questo c’è bisogno di molta collaborazione tra le varie agenzie coinvolte.

McCluskey e Carnochan si sono imbattuti nell’approccio da salute pubblica durante una ricerca sulla prevenzione della violenza, ma hanno presto scoperto una rete internazionale di professionisti che lavoravano sulla base di dati raccolti. Si sono quindi uniti alla Violence prevention Alliance, dell’Oms, un organizzazione-ombrello che si occupa di diffondere e condividere gli studi in materia tra i professionisti del settore. “A volte qualcosa che funziona in Giamaica non funziona in Scozia, a meno che non lo metti a punto appositamente – ma è comunque molto utile sapere come lavorano gli altri e capire cosa funziona,” dice Goodall.

Adattare un’idea al posto dove viene applicata è la chiave – ma l’Oms divide l’approccio contro la violenza in quattro passaggi. Il primo è conoscere tutti gli aspetti legati alla violenza. Il secondo è capire perché la violenza si verifica – guardando alle cause, alle correlazioni, ai fattori di rischio. Il terzo è esplorare i metodi di prevenzione usando le informazioni raccolte. Il quarto è implementare le strategie. “Il punto di partenza dev’essere la convinzione che il comportamento violento e le sue conseguenze possono essere prevenute,” dice un rappresentante dell’Oms. Per riscontrare un effetto concreto, questo lavoro necessità di un altissimo livello di cooperazione e di più di quattro o cinque anni. Linden fa notare che in Scozia c’è un alto livello di consenso politico su questo approccio, quindi anche i governi successivi hanno finanziato questo progetto.

“Chiamare semplicemente la violenza una malattia e dire che bisogna interrompere il flusso non la fermerà,” dice. “Tirarla in mezzo nel sistema di salute pubblica, chiamarla prevenzione, questo sì. E non importa se non usi i cavolo di dati per risolvere il problema”. Nonostante le evidenze del suo successo siano in continua crescita, i governi a volte sono riluttanti a investire in questo approccio. “La difficoltà non è capire come ridurre la violenza, ma cambiare il modo in cui le persone percepiscono il problema,” mi dice Slutkin, palesemente frustrato. Fa poi un paragone con l’Aids e lo stigma che veniva attaccato a coloro che lo contraevano durante gli anni Ottanta.

Will Linden

Durante una soleggiata serata nel centro di Chicago, guardo Slutkin parlare di fronte a un pubblico di giovani professionisti. A Chicago gli omicidi sono in crescita da vent’anni e il presidente Donald Trump ha promesso che il prossimo anno manderà “i federali”. Slutkin presenta un grafico che mostra come, ogni volta che sono stati tagliati i fondi a Cure Violence in una data area, le sparatorie sono aumentate; quando è tornato, sono diminuite.” (I critici sostengono che non ci siano elementi sufficienti a stabilire una correlazione netta e che ci sono altri fattori in gioco). “Nonostante una quantità enorme di dati, è difficile ottenere finanziamenti,” dice Slutkin al suo pubblico. “L’incarcerazione di massa non ha mai dimostrato di essere efficace, ma è finanziata. Questo è il solo problema di salute pubblica che non è gestito dal dipartimento di salute pubblica.”

Whatley, il supervisore dell’area di Grand Crossing, ha sperimentato sulla sua pelle i tagli; più volte è stato licenziato e poi riassunto nei 10 anni in cui ha lavorato per Cure Violence. Il progetto a cui lavorava inizialmente, in un’area di Woodlawn, è stato cancellato. Ora i vecchietti non bevono più il caffè sotto il porticato.

Dove altro si potrebbe applicare l’approccio da sanità pubblica alla violenza? Una possibilità è Londra, dove nel 2017 gli accoltellamenti tra gli under 25 hanno raggiunto l’apice degli ultimi cinque anni. Negli scorsi mesi, il commissario della Metropolitan Police, Cressida Dick, e il sindaco, Sadiq Khan hanno appoggiato questo approccio. “Il senso di inutilità che deriva dal parlare alle famiglie solo per dire loro che i figli sono morti ci ha fatto pensare molto: che cosa avremmo potuto fare di più per contrastare davvero questo fenomeno?”, si chiede Duncan Bew, direttore clinico del reparto di  traumatologia e chirurgia d’emergenza al King’s College London Hospital.

Sadiq Khan

Bew ha trattato innumerevoli vittime di accoltellamento, le cui caratteristiche variano in base all’orario del giorno. Ad esempio, c’è sempre un incremento di  giovani pazienti (tra gli 11 e i 20 anni) nelle ore successive alla fine delle lezioni. Bew stima che oltre metà delle persone che vede abbia “lacerazioni violente”, di solito provocate da un coltello o un’arma da fuoco. Al contrario, nel resto del Regno Unito, in particolare nelle aree extraurbane, la maggior parte dei pazienti di traumatologia sono vittime di incidenti stradali. È sempre scioccante vedere qualcuno arrivare con l’uniforme scolastica e una ferita da coltello devastante. Ma i chirurghi hanno imparato a concentrarsi su coloro che sopravvivono e, da una prospettiva medica, più il paziente è giovane, più è facile curarlo. Le loro ossa sono malleabili, guariscono velocemente.

Come in molte altre zone, le soluzioni a Londra si sono basate perlopiù sul rafforzamento: sentenze obbligatorie per possesso di coltelli, un aumento dei pattugliamenti e la creazione di un “database di gang “, che invia lettere ai giovani e ai loro genitori minacciando ripercussioni legali. Gli studi accademici hanno scoperto che questo database, così come l’aumento dei pattugliamenti, è discriminatorio su base razziale. A Manchester, la maggior parte delle persone sul database proviene da una minoranza etnica, nonostante la maggior parte delle persone arrestate per atti di violenza giovanile siano bianche.

Il modo esatto in cui l’approccio da sanità pubblica viene implementato varia nel mondo, ma il filo conduttore è l’idea che le persone siano in grado di cambiare, e che bisogna sostenere questa convinzione con degli investimenti. Per funzionare, richiede un certo grado di strategia e un supporto di alto livello che accompagni il lavoro di fondo.“Sono riusciti a farlo in Scozia, con coraggio, seppellendo l’ascia di guerra, dicendo che tutti avrebbero lavorato assieme per dare a queste persone una chance,” afferma Bew.

A Londra sono già in atto numerosi progetti di prevenzione alla violenza che aderiscono più o meno a quest’etica. Bew ha co-fondato un’associazione, la Growing Against Violence, che va nelle scuole per educare i giovani a contrastare la violenza da accoltellamento. Un’altra organizzazione, la Red Thread, conduce un programma di orientamento in quattro diversi centri di pronto soccorso della città. Altre organizzazioni di semplici cittadini educano e supportano le persone per prevenire la violenza. Nella maggior parte dei casi però, questi progetti sono senza fondi, o finanziati solo a breve termine, cosa che complica il loro lavoro. In generale, non c’è stato supporto nella capitale per i servizi per i giovani e le altre iniziative per il sociale; sono stati tagliati, in media, il 36% dei fondi per i servizi giovanili di Londra, con alcuni tagli che superano il 50%.

Questo ha portato a una situazione per cui servizi di riferimento come Red Thread faticano a trovare delle associazioni a cui i giovani possano rivolgersi dopo il loro intervento. Tuttavia Bew è ottimista e crede che questo sia il momento in cui c’è la volontà di tutte le parti di “fare qualcos’altro”, come ha deciso la Scozia nel 2005. Londra è una città molto diversa, non solo nella demografia etnica, ma anche nella variazione dei pattern di violenza. Bew suggerisce che alcune delle aree più colpite potrebbero seguire il modello di Chicago basato su interruttori e mediatori, con addetti che lavorano sulla strada. Da altre parti, come in Scozia appunto, potrebbero essere più efficaci un supporto più olistico come misure di contrasto alla povertà. “Non possiamo avere delle comunità che credono di essere futili, che pensano che la violenza sia inevitabile. Meritano di meglio,” dice. “La violenza segue un pattern simile a quello delle malattie infettive. Lo sappiamo. Possiamo prevenirlo”.

Tredici anni dopo il suo inizio, la VRU ha conservato al sua flessibilità e la sua apertura a nuove idee. Nel 2012, Iain Murray, un poliziotto che lavorava per la VRU è andato a Los Angeles per visitare la Homeboy Industries, un’azienda di catering che assume ex membri di gang. Oltre a dare loro lavoro per un anno, Homeboy Industries fornisce servizi di mentoring, psicoterapia e altre forme di supporto. Murray è tornato ispirato, pensando a come rendere questo progetto più adatto al modello scozzese. Il risultato è Braveheart Industries, una cooperativa sociale gestita dalla VRU. La sua attività principale è Street and Arrow, un food truck dell’area di Patrick, a Glasgow, che offre peri-peri chicken burgers e tacos di pesce. Assume ex criminali violenti per un anno, offrendo loro il supporto continuato di un navigator, così come sedute regolari di psicoterapia e assistenza per l’inserimento scolastico, la residenza, la genitorialità o qualsiasi altra cosa venga richiesta. I partecipanti devono avere una storia criminale, si devono astenere dalle droghe e dall’alcool e devono essere disposti a cambiare.

“Abbiamo finalmente capito quali sono i problemi,” mi racconta Murray fuori dal food truck in una giornata dal clima variabile, tipica di Glasgow. “La polizia, per anni, si è specializzata nella detenzione e nell’applicazione della legge. Preferirei decisamente trovarmi sulla cima di un dirupo a costruire una barriera per impedire alle persone di saltare che essere in fondo ad aspettare che si buttino. Questo significa scegliere l’approccio di sanità pubblica per il contrasto alla violenza: lavorare sui problemi anziché aspettare che accadano”.

Il ventisettenne Allen lavora alla Street and Arrow da tre mesi. Quando gli ho chiesto quanto tempo ha passato in prigione, non ha saputo dirmelo: ha perso il conto, ma secondo Murray è finito dentro almeno 27 volte. “Non vengo da un ambiente che mi ha incoraggiato, così ho scelto la strada sbagliata: alcool, droghe, violenza, caos, prigione,” dice Allen, un uomo alto e ben piazzato che evita il contatto visivo. “Quella è stata la mia vita. È difficile uscirne quando ci sei dentro”.

Dopo aver scontato l’ultima condanna è andato in riabilitazione. Qualcuno lì gli ha parlato di Street and Arrow. Ha fatto un colloquio, ed è rimasto scioccato quando ha ottenuto il lavoro. “Sono arrivato qui con niente in mano, e intendo proprio niente,” mi dice. “Ma più stavo lontano dal caos, più la mia vita migliorava”. Fa una pausa, cercando di pensare a come esprimere questo cambiamento. “Vedo le persone che hanno una macchina e… quella è una cosa che non avrei mai pensato di avere. Ora sto pensando di prendere la patente. Voglio solo una vita tranquilla. Non l’ho mai voluta prima, volevo solo drogarmi”. La pioggia smette di colpo ed esce il sole. Allen indica il cielo. “Nella mia zona, quando c’era il sole ero ancora più ansioso perché c’erano più persone in giro, armate di coltelli,” dice. “Ora non ho più l’ansia quando c’è il sole. Ho il futuro davanti a me”.

Per molti dei partecipanti, a quanto pare, le cose più semplici possono essere una sfida: arrivare in orario, prendere ordini, indossare una divisa. I navigator li supportano in modo che alla fine dell’anno possano essere pronti per un lavoro normale. Allo stesso tempo, fanno eco agli interruttori di Chicago, cercando di intervenire sulle norme di comportamento per prevenire la trasmissione della violenza. I navigator costruiscono una relazione con gli apprendisti per aiutarli a cambiare le loro risposte al conflitto.

“Attutisce un pochino i colpi,” dice Alan Gilmour, un navigator di Street and Arrow. “La vita è fatta di piccoli progressi. Se qualcosa va storto, com’è normale che sia, puoi reagire male: rabbia, alcool. Noi li supportiamo in questo, lavoriamo su come gestire il conflitto e vediamo la crescita dei nostri clienti in pochissimo tempo”.

Il programma ha avuto un grande successo: l’80% dei partecipanti sono rimasti fuori dalla prigione e hanno ottenuto altri impieghi. Murray ha notato una drastica differenza in Allen. “So dai miei precedenti ruoli nella polizia negli anni che se avessi arrestato quel ragazzo dieci volte di fila non avrei fatto neanche la minima differenza sul suo comportamento. Supportandolo e connettendomi con lui, posso davvero ottenere un cambiamento sostenibile e a lungo termine,” dice. “È davvero un bravo ragazzo. Non riesco a farlo smettere di lavorare. È incredibile: appena cominci a occuparti di loro, loro cominciano a occuparsi di se stessi”.

Questo articolo è stato tradotto da Mosaic

Segui Samira su The Vision