Passiamo la vita solo sugli schermi, così stiamo perdendo la cognizione della realtà e di noi stessi - THE VISION

All’incirca due mesi fa fece comparsa tra le maggiori testate giornalistiche un titolo che infiammò l’opinione pubblica generando numerosi allarmismi anche tra le fila di Palazzo Montecitorio. Secondo il report “Impossibile 2022” di Save the Children, quasi un adolescente su due non sarebbe in grado di comprendere propriamente ciò che legge. I risultati non costituiscono una novità ma rimangono allineati a quanto riscontrato negli ultimi anni dagli esiti delle prove Invalsi e dai sondaggi relativi all’istruzione media e superiore. Prendendo per esempio l’ultimo rilevamento Invalsi Open, si legge che la proporzione di prove al di sotto della soglia della sufficienza minima è balzata di quasi 10 punti dal 35% del 2019 al 44% nei test compiuti nel 2021 e appartenenti alla scuola secondaria.

Tuttavia, estendendo l’analisi è possibile mettere a fuoco un fenomeno ben più generale e diffuso. L’analfabetismo funzionale e la povertà di linguaggio sono problemi che, presentandosi a partire dall’età della scuola dell’obbligo, si diramano in tutte le direzioni e a oggi riguardano quasi un terzo della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni. Contrariamente all’analfabetismo – in costante e netto calo universale, a partire dalla rivoluzione industriale di fine Ottocento – l’analfabetismo funzionale, definito dall’UNESCO come “incapacità di comprendere, valutare, usare frasi e farsi coinvolgere da testi scritti” rappresenta un aspetto non più legato esclusivamente a fattori di tipo economico e sociale, ma strettamente dipendente dal sistema educativo e dall’impatto della tecnologia sulle nostre abitudini quotidiane. Negli Stati Uniti, prima economia mondiale per prodotto interno lordo, se l’analfabetismo in senso stretto si attesta attorno all’1% della popolazione adulta, l’incapacità di capire e interpretare testi semplici ne investe il 18%. Le stesse proporzioni sono simili nella maggior parte dei Paesi economicamente sviluppati, con tassi minimi del 7,5% in Svezia e massimi del 47% in Turchia. 

Tra le più interessanti cause prese in considerazione c’è un’ipotesi che trascende i fattori puramente economici: l’ineluttabile transizione dei mezzi comunicativi da scritti a immagini video. Prima dell’alba dell’era della televisione e poi di internet, il principale strumento di diffusione di pensieri, idee e narrazioni era rappresentato dal libro stampato e il linguaggio dominante era dunque quello scritto. In particolare, a partire dal terzo millennio avanti Cristo, avvenne in Mesopotamia una delle grandi rivoluzioni della storia dell’uomo: nacquero infatti le prime forme di scrittura fonetica opposte alla semplice rappresentazione delle idee tramite singole immagini. Da quel momento, secondo i ricercatori, l’uomo ha assunto una conformazione di pensiero più ordinata e sequenziale legata alla lettura, che verrà a sua volta favorita dallo sviluppo dei primi alfabeti, raggiungendo l’apogeo nel 1041 in Asia e nel 1453 in Europa, quando per la prima volta venne introdotta la stampa a caratteri mobili.

A distanza di quasi un millennio, tale processo è stato compromesso dall’ingresso di un altro strumento rivoluzionario: lo schermo. La televisione prima e il computer poi hanno infatti concorso a innescare una trasformazione parallela che vede il pensiero analitico e sequenziale essere soppiantato da formae mentis più generiche, vaghe, non più legate al verbo e alla parola, ma all’immagine. Analogamente alle forme di proto-scrittura preistoriche basate sulla rappresentazione isolata dei concetti tramite disegni degli stessi, la società odierna dominata da foto e video predilige la sensazione e l’esperienza diretta rispetto all’analisi linguistica e allo sviluppo astratto dei concetti veicolati. Il quesito che sorge spontaneo riguarda il “perché” e soprattutto il “come” la trasformazione della strumentazione tecnica possa modificare il nostro modo di pensare e il nostro linguaggio.

A questa domanda provò a rispondere più di vent’anni fa il linguista e filosofo Raffaele Simone, che nel suo saggio La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo osserva come l’avvento della scrittura abbia spinto l’uomo a tradurre la realtà vissuta in simboli o sequenze di lettere che non avevano più nulla a che vedere con l’oggetto a cui si riferivano. Da qui il passaggio da una forma d’intelligenza primitiva, o “simultanea”, a un’altra più complessa ed evoluta, quella “sequenziale”. Ciò che manca alla prima, e che contraddistingue la seconda, è l’abilità di ordinare degli elementi indipendenti al fine di formare pensieri complessi e di creare contesti specifici. Secondo Simone, quando invece guardiamo una foto, o osserviamo un dipinto, è  più difficile leggerli in quanto sequenze ed essi vengono quindi tradotti nell’immediato senza dover stabilire dei nessi causali o temporali. La tecnologia contemporanea tende a diffondere informazioni e narrazioni per le quali viene favorito l’uso di un’intelligenza prevalentemente simultanea. Il primato della vista e dell’udito oggi soppianta quello della decodificazione linguistica, riducendo la comunicazione a ricezione di stimoli immediati, trasmessi tramite foto, gif, video, o emoji.

La semplicità e l’immediatezza del guardare acquisiscono la propria attrattività dallo stesso stile di vita che siamo abituati a condurre oggi: lo scambio di informazioni e la lettura per piacere si adattano ora alla velocità della società liquida, in costante movimento, dove il tempo libero a disposizione è sempre meno. Da qui il successo della televisione, che, come sostenne il filosofo Giovanni Sartori nel suo saggio Homo videns, offre allo spettatore la possibilità di distrarsi senza richiedere gli sforzi che implicherebbe la lettura. L’Homo videns, in contrapposizione all’Homo sapiens, diventa un semplice fruitore passivo di contenuti che per essere seguiti non hanno più bisogno – a differenza del libro – di un’attenzione sequenziale. Nella visione di un film non è infatti necessario concentrarsi sui frame o sulla singola linea di dialogo per comprendere il senso di un’intera scena: verificare e riflettere su ciò che si vede diventa meno istintivo quando il ritmo del video è dettato dall’esterno. Da qui il grande successo dei media televisivi e digitali a scapito della più faticosa prosa scritta. A testimonianza dell’inevitabile trionfo dell’immagine sulla parola, le statistiche relative agli ultimi decenni fotografano infatti una società sempre meno avvezza alla lettura. L’ultimo report Istat relativo all’anno 2020 parla chiaro: solo quattro italiani su dieci hanno letto almeno un libro non scolastico negli ultimi 12 mesi, un dato rimasto invariato rispetto a venti anni fa. 

Il valore simbolico della realtà percepita dall’uomo si è capovolto, passando da un sistema complesso, specifico e induttivo a uno deduttivo, dove il punto di partenza è il ragionamento più generico e immediato. Se le immagini e i film ci hanno permesso di squarciare il velo di astrazione dato dalle sole parole scritte permettendoci un contatto più “reale” con le emozioni trasmesse e le esperienze condivise, bisogna ricordarsi però che esse devono in qualche modo poter essere espresse anche verbalmente. Accontentarsi delle sensazioni che vengono meglio percepite tramite la vista escludendo l’elaborazione linguistica o di pensiero delle stesse, infatti, equivarrebbe a vivere da meri spettatori incoscienti. La soluzione a questa impasse potrebbe essere di mescolare il visivo all’intellegibile sintetizzando le emozioni al linguaggio. Saper dare un nome alle proprie emozioni è dunque tanto importante quanto il provarle. La potenza emotiva infusa da film e fotografie potrebbe affiancarsi a una base di esperienza linguistica che ci permetta di utilizzare il pensiero simultaneo per catturare le sensazioni date dall’immagine, e contemporaneamente di saperle definire, raccontare, descrivere, spiegare. Il linguaggio è alla base della nostra capacità di astrazione e senza di esso rischieremmo di perderci un mondo parallelo, che non può essere compreso se non attraverso la fondamentale lentezza della riflessione.

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