Perché essere transessuali in Italia è ancora un problema

Pur essendo stato acclamato all’ultima edizione del festival di Cannes, Girl, l’esordio registico di Lukas Dhont, in Italia è passato in sordina. Eppure, all’alta qualità stilistica che gli ha permesso di vincere il Camera d’Or e il Queer Palm, si aggiunge il tentativo di rappresentare in modo originale un mondo – quello della comunità transessuale – svincolandosi da qualunque stereotipo. Circondata da sostegno e affetto, la protagonista Lara – impersonata da Victor Polser, al suo debutto e oggetto di non poche controversie – è una ragazza di quindici anni che sogna di diventare un’étoile del balletto e che ha deciso di affrontare il percorso che la porterà alla completa transizione anatomica. Mentre le sue compagne di danza sono già sviluppate, Lara vive così una doppia pubertà, attraversando questo momento di passaggio con grande impazienza.

Still dal film “Girl” di Likas Dhont, 2018

Quello che la protagonista di Girl vive sullo schermo, migliaia di persone transessuali, in Italia, lo vivono ogni giorno. L’attesa fisiologica in cui gli ormoni sortiscono gli effetti desiderati varia da individuo a individuo, ma il percorso di transizione può essere allungato e reso ancor più difficoltoso dai tempi burocratici. Nel nostro Paese, ad esempio, chi vuole rettificare il proprio sesso anagrafico deve presentare un ricorso al tribunale, mostrando le perizie psicologiche ed endocrinologhe, a cui, se non trovate attendibili, segue la nomina da parte del giudice di uno psichiatra. Fino al 2015, prima di ottenere la modifica dei documenti anagrafici, era necessario anche sottoporsi al cambio di sesso tramite interventi chirurgici, terminati i quali bisognava ricorrere nuovamente al giudice, presentando la cartella clinica, per chiedere la rettifica del sesso e del nome. Oggi è possibile procedere alla richiesta anche senza l’obbligo dell’operazione, ma resta necessaria una dichiarazione dello psichiatra che accerti la disforia di genere e aver iniziato la terapia ormonale, specificando quindi che non si intende modificare i caratteri sessuali primari, ma solo quelli secondari. Il percorso resta comunque psicologicamente ed economicamente complesso. In seguito alla rettifica definitiva, non rimarrà alcuna traccia, se non sull’atto integrale di nascita, circa il sesso e il nome originari del richiedente, a salvaguardia della privacy.

L’iter, poi, è inoltre ovviamente soggetto ai tempi canonici di legge, per cui le sentenze possono tardare ad arrivare. Francesca Parisi, attivista e attuale vicepresidente, dopo un paio di anni come presidente dell’associazione ArcigayLe Bigotte di Foggia, mi racconta di aver fatto richiesta al tribunale nel marzo 2018, ma il suo caso non sarà chiuso prima di maggio 2019. Deve attendere un altro anno per poter essere chi ha sempre saputo di essere. La necessità di rimettersi al tribunale è dovuta all’impossibilità del medico, per legge, di rimuovere un organo sano senza l’autorizzazione del giudice. Quest’ultimo, però, non avendo competenze in materia, deve attenersi alla valutazione medica. Un ciclo infinito in cui il soggetto transessuale si ritrova sballottato da tribunale a ospedale, ospedale a tribunale, sempre soggetto alle decisioni altrui. A questo, si aggiunge il fatto che, se le spese mediche legate alla modifica dei caratteri secondari rientrano nel Servizio Sanitario Nazionale, quelle legali sono a carico dello Stato solo a patto che il richiedente abbia accesso – per reddito – al patrocinio gratuito.

Chi sceglie di sottoporsi agli interventi chirurgici di riassegnazione del sesso incorre poi in ulteriori problemi. Prima del 1982, anno in cui è entrata in vigore la legge sul transessualismo, tutti coloro che erano interessati a sottoporsi a un’operazione di riassegnazione del sesso dovevano rivolgersi all’estero, dato che nel nostro Paese era vietata. Le strutture mediche di riferimento però sono ancora poche e sono presenti solo a Trieste, Torino, Genova, Bologna, Perugia, Roma e Bari e ciò comporta due principali problemi: tutte le spese di trasferimento sono a carico del soggetto e le liste di attesa si allungano, essendo oberate da richieste da parte di tutta Italia. Può capitare poi che, a causa della scarsa empatia e informazione del personale medico, la persona transessuale venga ricoverata nel reparto afferente al proprio sesso di nascita. Così, un transessuale FTM (female to male) si troverà nel reparto femminile, subendo un’ulteriore pressione psicologica che si aggiunge all’ansia per l’intervento.

In ogni caso va ricordato che il processo di transizione è ancora estremamente complesso, lungo, fisicamente sfiancante e dall’esito non sempre certo: per esempio, non è infrequente avere difficoltà nella minzione o non riuscire a raggiungere l’orgasmo con l’organo ricostruito. La paura diventa quindi un grande deterrente. È recente il caso di quattro donne che hanno tentato di rettificare il proprio sesso, ma hanno avuto lesioni gravissime e danni permanenti. Operate per la riassegnazione del sesso tra il 2011 e 2012, secondo l’accusa i tre dottori a cui erano affidate avrebbero condotto consapevolmente una sperimentazione utilizzando una tecnica non presente nei protocolli.

Non tutti comunque sentono il bisogno di sottoporsi all’operazione chirurgica. Le persone bi-gender, ad esempio, si collocano tra i due generi, mai nell’uno o nell’altro, negli spazi di esistenza che si situano al di là del rigido binarismo che la nostra società prevede. Come fa notare Nicola Posteraro – autore di pubblicazioni scientifiche in tema di diritto amministrativo, sanitario, costituzionale, biogiuridica e bioetica – in un articolo pubblicato sulla Rivista italiana di medicina legale: “Questa necessaria previa richiesta giurisdizionale non pare necessaria, né opportuna; essa, anzi, mina il concreto soddisfacimento del diritto alla salute del soggetto a) perché incide sui tempi e, quindi sull’aggravamento della patologia; b) perché fa sì che i soggetti economicamente svantaggiati possano evitare di sottoporsi a simili procedure”. Infatti, le spese mediche legate non vengono sempre caricate sul Servizio Sanitario Nazionale: la scelta spetta infatti al giudice, che a volte non considera gli interventi di modifica dei caratteri secondari come essenziali per il benessere della persona, ma solo come puro capriccio estetico.

Secondo il report 2018 pubblicato da Transgender Europe – in occasione del Transgender Day of Remembrance celebrato il 20 novembre – il fenomeno della transfobia è in costante aumento. L’Italia detiene il triste primato europeo con cinque casi accertati: Johanna Cárdenas Gutiérrez, uccisa in casa a Milano; Ambra, trovata morta nella sua auto, Laura Ursaru, Ximena Garcia e Rafaella Rotocalco, tutte uccise nei dintorni di Roma. I numeri reali sono però maggiori, considerato che molte persone mantengono sul documento d’identità il nome di battesimo e quindi non vengono conteggiate tra le vittime di atti transfobici. “In Italia e nel resto dell’Europa la situazione è peggiorata rispetto al passato. Si è instaurato un clima di intolleranza e di chiusura verso tutte le forme di diversità. Questi dati ne sono la conferma”, chiarisce Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento identità trans, a Il Fatto Quotidiano.

Minoranza nella minoranza, le persone transgender o transessuali sono vittime di comportamenti transfobici anche da parte della stessa comunità LGBTQ+. Mancano compattezza ed empatia, in virtù di un maschilismo che non ha risparmiato nessuno e che si insinua anche tra quelli che dovrebbero smantellarlo. Figuriamoci se non ne sono vittima le transessuali MTF – male to female – che hanno volontariamente perso il privilegio di appartenere al cosiddetto sesso forte.

Francesca Parisi, con la sua associazione e la sua figura, cerca continuamente di scardinare queste categorie attraverso la propria testimonianza: “Io mi sento una donna libera e non posso esimermi dal continuare a portare la mia testimonianza nelle scuole. Molti alunni, conoscendomi, restano sorpresi dalla mia ‘normalità’. Purtroppo, nel clima politico in cui viviamo, molte scuole si rifiutano di accettare questo progetto e diventa difficile convincerli”.

Il problema, come sempre in questi casi, è la mancanza di formazione e informazione in qualsiasi contesto. Puntare sulla creazione di strutture adeguate può risolvere molti dei problemi che i transessuali devono sopportare e favorire progetti di sensibilizzazione può far sì che la gente sia in grado di accogliere le persone transgender con meno diffidenza. Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello Sportello trans di ALA Milano Onlus, ci racconta di un progetto portato avanti a cavallo tra il 2017 e il 2018 presso il carcere di Como, in cui ha trovato una situazione pessima: ragazze all’interno dell’istituto maschile invece che quello femminile, sulla base del sesso biologico e non dell’identità di genere; poco spazio e nessuna attività di intrattenimento. “Gli agenti poi non ne parliamo, tutti ignoranti che ragionano con il binarismo in testa. Le riempiono di psicofarmaci per tenerle buone. Erano in uno stato catatonico”,  ci ha riferito Monopoli.

Still dal film “Girl” di Likas Dhont, 2018

Quello che preme avere, prima di tutto, è una legge contro la transfobia e l’omofobia. Se in Svizzera è appena stata approvata con 118 voti a favore e 60 contrari, in Italia la situazione è completamente diversa e l’obiettivo sembra sempre più lontano. Il disegno di legge che prevedrebbe l’estensione della legge Mancino-Reale al movente d’odio basato sulla discriminazione in base all’identità di genere e orientamento sessuale, è stata approvata alla Camera il 19 settembre 2013 e trasmessa al Senato quattro giorni dopo, dove è ferma da più di quattro anni. Sarebbe un passo importante che significherebbe avere finalmente nel nostro ordinamento il reato di discriminazione e istigazione all’odio e alla violenza omotransfobica.

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