Cresciamo e consumiamo troppo, il pianeta non può sostenerci, dobbiamo invertire il processo - THE VISION

Il tasso di crescita della popolazione mondiale è un elemento cruciale per il futuro dell’umanità, non più solo del suo benessere. Con buona pace di Papa Francesco e delle sue ultime dichiarazioni in fatto di nascite, siamo troppi, o quantomeno, siamo troppi rispetto ai nostri consumi e all’impatto che hanno sulla terra, in proporzione alle sue risorse. Non è un segreto: da quando la medicina, la tecnologia, la diminuzione di guerre molto estese, diffuse e prolungate nel tempo e il capitalismo ci hanno curati, protetti e rimpinzati abbiamo smesso di morire. Quindi, anche se le donne in vaste aree del mondo non fanno più le fattrici, dato che statisticamente quasi ogni figlio in questi luoghi sopravvive all’ambiente che lo circonda, nell’attuale sistema di consumi una famiglia finisce con l’avere un impatto pressoché identico su di esso. Nel 2060 dovremmo raggiungere il picco demografico, e nel 2100 saremmo nella peggiore delle ipotesi 13 miliardi. Se tutto andasse bene. I dati sull’emergenza climatica lasciano intuire che non andrà esattamente così e che tra sempre meno tempo inizierà a pioverci in testa qualcosa di ben peggiore della merda.

Uno studio pubblicato nel 2008 su Nature ha elaborato proiezioni della popolazione globale nel 2100 con un range di variabilità compreso tra i 5,2 e i 12,7 miliardi di persone. Le proiezioni delle Nazioni Unite – ottenute con un approccio diverso e pubblicate nel 2015 – hanno mostrato un intervallo più ristretto, compreso tra i 9,5 e i 13 miliardi. Un altro recente scenario definito dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) mostra invece un picco di 9,4 miliardi di abitanti sulla Terra raggiunto nel 2070, seguito da un declino a 9 miliardi entro la fine del secolo, con una forbice compresa tra i 7,1 e i 12,8 miliardi. Nonostante le credenze della Chiesa e le direttive politiche degli ultimi quattromila e qualcosa anni è forse giunta l’ora che l’umanità si dia una regolata. Molte altre specie hanno proliferato a dismisura e hanno massacrato il loro habitat, ma la demografia non segue un andamento predeterminato, perché le politiche di intervento possono effettivamente contribuire in modo notevole a influenzarla.

Il problema è che l’impatto della natalità italiana – sia in positivo che in negativo – sul mondo è minuscolo, ridicolo, indifferente, anche se crediamo ancora di essere il centro del mondo, ora che abbiamo persino ridotto i nostri viaggi a causa della pandemia più che mai. L’esplosione demografica parte dai Paesi poveri o in via di sviluppo, gli stessi che per secoli abbiamo colonizzato e sfruttato e a cui oggi, dopo averli peraltro sfruttati per sviluppare la moderna ostetricia e sottoposti a pesanti tecniche di violenza riproduttiva, chiediamo di ridurre il numero di nascite, come abbiamo già fatto noi spontaneamente in nome di una profonda trasformazione dei valori che davano forma alla nostra società. Le teorie eugenetiche, negli Stati Uniti, hanno dato vita a una lunga storia di sterilizzazione forzata delle popolazioni emarginate, un fenomeno ampiamente ignorato – e in alcuni casi incoraggiato – dal femminismo bianco, ma ancora oggi, la discussione è distorta dalla nostra prospettiva, dai nostri first world problems e dai nostri privilegi, come se fossimo il centro del mondo. 

Le Nazioni Unite, con i loro Sustainable Development Goals (SDG), che è già un ossimoro se ci pensate bene, sottoscritti nel 2015 dai leader di 193 Paesi, per ridurre il tasso di crescita puntavano al “migliorare la salute riproduttiva” e “l’istruzione femminile”. A quanto pare, infatti, più una donna è titolata meno figli fa (ed è piuttosto semplice capire perché), quindi per risolvere il sovrappopolamento, senza dover imporre obblighi che più si confanno ai totalitarismi, è necessario lasciare che le donne si emancipino, studino, lavorino e guadagnino una loro indipendenza. Questo sembra bellissimo, ma al tempo stesso trovo spaventoso che tutto ciò sia sfruttato non tanto per il reale bene delle donne, quanto per manipolare le strutture sociali. L’analisi presentata dall’Onu mostra che se alcuni di questi obiettivi fossero raggiunti gli effetti diretti e indiretti sui futuri trend demografici sarebbero tangibili, e andrebbero per la maggior parte in favore di una diminuzione del tasso di crescita della popolazione. In termini numerici, secondo gli autori, la popolazione raggiungerebbe il massimo nel 2060, per poi raggiungere un valore compreso tra 8,2 e 8,7 miliardi nel 2100, a seconda degli obiettivi di sostenibilità raggiunti.

Ciò che si tenta di contenere non è certo la nascita di un figlio – anche perché in quanti, nei Paesi cosiddetti ricchi, hanno la voglia, le risorse, il tempo, l’energia e la possibilità economica di farne più di uno o al massimo due? Quasi nessuno. Diverse coppie verso i quarant’anni – perché è questa ormai l’età in cui ci si riproduce e in cui la pressione sociale appare più forte, essendo percepita come vicino a una sorta di scadenza biologica, a una linea di non ritorno – giustificano la loro scelta di non avere figli dicendo che così salvano il pianeta, ma poi mangiano carne o mantengono altre abitudini dall’alto impatto ambientale.

 

Per fortuna, il sistema che li colpevolizza passerà presto per forza di cose a miglior vita, e forse finalmente ci libereremo del senso di colpa che nasce dalla frizione tra le nostre convinzioni e la pressione sociale. A noi – più o meno – giovani generazioni è stato tolto tutto, integrità ambientale, risorse, posti di lavoro, valore dello studio, compensi, prospettive, sonno, salute mentale, e la situazione peggiora ulteriormente se si è donne e madri, motivo per cui non solo calano le nascite, ma addirittura i rapporti sessuali – per dare un’idea di quanto sia profondo questo trauma. Quindi è perfettamente comprensibile che i millennial – reduci da queste crisi – ora vogliano per la maggior parte prosperare da sé, in santa pace, senza cedere neanche un grammo di tutto ciò che con sforzi e sacrifici enormi sono riusciti a racimolare.

La cosa interessante è che se penso alla mia cerchia di conoscenze la prima cosa tra queste a cui ci si dice pronti a rinunciare in nome dell’ecologia è proprio la generazione di un altro essere umano, a cui segue il consumo di fast fashion (che pure con un’abile mossa retorica era stata accolta come una rivoluzionaria democratizzazione della moda). Qualcuno non mangia carne, o ne ha ridotto drasticamente il consumo, ma ho di certo ben pochi conoscenti vegani. Sul fronte spostamenti – un altro dei fattori più inquinanti su cui come singoli potremmo avere un certo potere d’azione – poi quasi tutto tace (conosco solo una persona che non prende aerei e lo fa anche perché per lavoro ha spesso i viaggi in treno gratuiti); così come non conosco nessuno che non abbia uno smartphone, o non lo cambi relativamente spesso. Fino a cinque anni fa ammetto di aver avuto tre amici che resistevano, ma poi si sono convertiti anche loro al digitale. Eppure anche questo è uno dei consumi più impattanti sul pianeta. Il solo fatto di esistere, però, non ci dà il diritto di consumare quanto e tutto ciò che vogliamo, perché ormai la nostra relazione con gli oggetti è rappresentata dalla dipendenza. La nostra felicità, intesa come soddisfacimento di un desiderio, è quanto di più lontano possa esserci da un diritto, e probabilmente uno dei più grandi e funzionali fraintendimenti del mondo contemporaneo (a partire dalla costituzione statunitense).

I diritti sono frutto di lunghe e tenaci riflessioni e lotte, non sono qualcosa che ci viene dato dall’alto. Spesso, in epoca moderna, non è stato riconosciuto alle donne il diritto di abortire, o è stato negato – e tutt’ora rischia in più Paesi del mondo di essere messo in discussione; allo stesso modo è stato tolto il diritto ad alcuni popoli o minoranze di riprodursi, in maniera altrettanto invasiva, iniqua e violenta, a volte attraverso obblighi legislativi (in Cina la politica del figlio unico è stata in vigore dal 1979 al 2013), a volte senza nemmeno che le vittime ne fossero a conoscenza. Entrambi gli eventi rappresentano in modo evidente la criticità del rapporto tra corpo individuale e Stato.

Spesso si sente dire in giro dai cosiddetti antinatalisti che chi sceglie di mettere al mondo un figlio è molto egoista, per di più ora che il mondo sta esaurendo le sue risorse. Così, allo stesso modo, dal versante opposto dei cosiddetti natalisti c’è chi sostiene lo sia il non farlo. Non rispondendo in maniera immediata ai nostri istinti biologici è chiaro che entrambe le scelte, per motivi diversi, sono profondamente egoiste. E, in fondo, l’egoismo andrebbe ripulito dalla patina negativa che siamo ipocritamente abituati a dargli. Pressoché ogni cosa che facciamo la facciamo per egoismo, spesso anche quelle buone e giuste. Siamo nel 2021, ormai è il caso di farcene una ragione, ci sarà sempre qualcuno pronto a criticare le nostre scelte e ciò che siamo. È la storia dell’umanità. Il punto, però, non è tanto la battaglia tra i due diversi schieramenti, quanto la capacità di riflettere in maniera sempre più profonda sul tema, fino a raggiungere una posizione il più lucida possibile, che tenga presente tanti e complessi fattori, individuali e collettivi, intimi e sociali, psicologici, storici ed economici.

È chiaro che oggi più che mai, nell’epoca della povertà di tempo e del multitasking, la scelta della genitorialità ha un forte impatto sugli equilibri della vita, sempre più modellata su un pressante principio di scarsità. Fare figli è sempre più simile a un lusso, a un privilegio, a una possibilità in più. È come se le madri – private della loro importanza e riconoscimento sociale dopo “la morte di Dio”, ovvero la crisi dei valori su cui era costruito il mondo fino all’Ottocento – si sforzassero di dare senso al loro gesto a livello sociale attraverso a una narrazione atta a sancire una sorta di eroismo personale. Così, la gravidanza, divinizzata solo a parole e retorica, nel 90% dei casi viene narrata come un periodo fatto di fatica, sofferenza e dolore (cosa che purtroppo peraltro ancora molto spesso per vari motivi è), che al tempo stesso, però, non vuole essere risolto o superato, ma viene acriticamente sopportato, quasi come una sorta di fardello, necessario a prepararsi agli ulteriori dolori e rinunce che – come la società comanda – porterà poi la maternità.

La tensione tra persone – soprattutto donne – che non hanno figli oppure sì, non ha nessuna ragione di esistere e non fa altro che dividere ulteriormente una minoranza già ampiamente discriminata. In una società democratica, le donne che scelgono di non avere figli e che hanno la possibilità di dare un altro senso alla loro esistenza non dovrebbero sentirsi giudicate, mancanti o insufficienti; così come quelle che invece desiderano averne, e diventano magari madri, dovrebbero essere aiutate e sostenute allo stesso modo nel loro percorso, invece che escluse sistematicamente – soprattutto quando non hanno sufficienti risorse per riuscire a mantenere un loro spazio e tempo sociale – e magari anche accusate di avere un maggiore impatto sul pianeta. Bisognerebbe poter dare a tutte le donne del mondo le stesse possibilità di scelta, sia in una direzione sia nell’altra, con tutte le eventuali sfumature che questo enorme cambiamento sociale, inedito nella storia dell’umanità, porta con sé.

Magari, quando sarà possibile grazie a simulazioni virtuali fare esperienze immersive che non avranno apparentemente più nulla da invidiare alla realtà (in realtà è già possibile per certe cose), ci sarà data la possibilità di intraprendere lo stesso processo potenzialmente trasformativo della gravidanza e della genitorialità senza imprimere un cambiamento al mondo, ma solo a noi stessi. Mi chiedo se, senza un pegno di qualche tipo, la potenziale trasformazione che ne seguirà sarà altrettanto efficace e se un’illusione virtuale, indiscernibile dalla realtà, possa davvero appagare il profondo e – sì – egoistico desiderio di amore totalizzante che continuiamo a cercare di soddisfare in vari modi, o se invece non faremo la fine delle mucche cui per far produrre più latte vengono fatti indossare visori che mostrano loro splendidi prati verdi. D’altronde si sa che la maternità è un periodo dal punto di vista capitalistico assolutamente improduttivo, un fardello per ogni azienda. Intersecando questi due enormi discorsi si apre uno scenario ancora più complesso, con cui non è detto che – presto o tardi – dovremo fare i conti.

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