Qualche settimana fa, il cantante Sangiovanni ha annunciato di aver annullato tutti i concerti per prendersi una pausa dalla sua carriera e dedicarsi a se stesso e alla propria salute mentale. Le sue dichiarazioni, che ci raccontano il lato più faticoso e sfibrante di una carriera iniziata solo pochi anni fa e già costellata di diversi successi, dovrebbero però farci riflettere su un ambito molto più vasto di quello musicale. Le voci degli artisti che si sono subito aggiunte a quella di Sangiovanni, dovrebbero infatti farci riflettere sul lato più insidioso del concetto stesso di successo – parola di cui oggi si fa spesso abuso – che quasi tutti prima o poi finiamo per sognare e inseguire, ma di cui spesso ignoriamo le ombre. Oggi, infatti, il successo appare sempre di più come l’anticamera del disagio psicologico, e quando viene raggiunto, finisce in molti casi per tradire le aspettative.
Sangiovanni ha scritto: “Non ho le energie fisiche e mentali in questo momento per portare avanti il mio progetto. Voglio stare bene per condurre al meglio la musica vista come lavoro”. Non ha tardato a far sentire la propria voce Ghemon, che ha puntato il dito contro un’industria discografica che sfibra gli artisti ed esercita grosse pressioni; un’industria guidata dall’ossessione per i numeri e i sold out a qualunque costo, disposta a spremere gli artisti fino all’ultima goccia per trarne il profitto maggiore. Ghemon ha parlato di risultati prodotti in batteria e, metaforicamente, “riempiti di estrogeni, che danno l’illusione di grandi abbuffate ma che nascondono un mondo di bugie e false aspettative, in cui purtroppo a rimetterci sono ragazze e ragazzi”. Questo meccanismo, a giudicare da quanto dice Ghemon, andrebbe a intaccare soprattutto la salute mentale dei più giovani, meno strutturati per gestire un tale carico e delle aspettative pressanti. Ma il problema sarebbe accentuato, continua l’artista, dal fatto che tutti sanno ma nessuno parla, nessuno rivela quanto accade, per paura di rimanere emarginati da un sistema che, seppur tossico, continua a rappresentare un’élite ambita. A Ghemon è seguita la cantante Syria, dichiarando di essersi “sentita una sfigata” quando il momento di massimo successo per lei era tramontato, ed era stata messa da parte per far spazio a nuovi artisti sulla cresta dell’onda. Il senso di inadeguatezza, disistima e malessere vissuti e raccontati da Syria si possono ritrovare, seppur per ragioni alla base diverse, nelle dichiarazioni di Levante, e anche Tiziano Ferro si è recentemente unito al coro.
La nostra società tutta, e non solo la porzione che sta sotto la luce dei riflettori, d’altronde è così ossessionata dal successo da compromettere, per tentare di raggiungerlo e mantenerlo, la propria salute. Oggi siamo tutti affetti da una smania di perfezionismo che spesso ci impedisce di godere dei piccoli risultati che otteniamo; siamo tanto influenzati dai modelli di riferimento irrealistici che impazzano sui social da rischiare di perdere la misura di noi stessi e puntare a obiettivi inverosimili, in una corsa ossessiva che ci toglie serenità ed equilibrio. Miriamo a parole che rischiano di essere vuoti stereotipi, come fama e successo, che nella visione di molti deve produrre guadagni facili e ingenti; ma mentre lo facciamo, perdiamo di vista i nostri bisogni reali e la cura per noi stessi.
L’ossessione dei numeri, della fama, del risultato, è così compulsiva oggi da averci fatto completamente dimenticare il valore di ciò che davvero potrebbe farci bene: godere del lento percorso che ci porterà a un eventuale traguardo, assaporare il piacere di realizzarci coi nostri tempi, senza corse a perdifiato verso i nostri obiettivi. Piuttosto che spremerci e farci spremere, dovremmo godere dell’attesa fruttuosa. Ma questo, oggi, nella società dei social, del delivery, del tutto e subito, sembra impossibile. Finiamo per desiderare solo il successo, che non è la naturale gratificazione di cui tutti abbiamo bisogno: è qualcosa di più, qualcosa di superfluo e addirittura dannoso, che fa di noi dei criceti sulla ruota, incapaci di riconoscere i nostri limiti. Quei limiti che si manifestano ormai in forma di disagio psicologico, e non è un caso che ansia e depressione siano le problematiche più diffuse nel nostro secolo, soprattutto tra le nuove generazioni.
I dati sul malessere psicologico nel nostro Paese, dei giovani in particolare, sono infatti inquietanti, e fortemente influenzati da un mix di fattori che li porta a porsi obiettivi estremamente ambiziosi, scaturiti da modelli di riferimento fasulli e dannosi; e che d’altro canto li rende intolleranti al fallimento e li priva delle energie e della motivazione necessarie a costruirsi un futuro concreto e psicologicamente sostenibile. E questo perché quel tipo di futuro, per loro, non è appetibile, è troppo “normale” per essere desiderabile. In questo quadro i social, in alcuni casi, propongono una realtà – in teoria dovremmo saperlo bene – falsata, in cui realizzarsi equivale a essere visti, e seguiti, da più persone possibili; ma se in tanti ti vedono, in tanti possono giudicarti, talvolta in modo crudele, come accade puntualmente sul web. Molti giovani non sono strutturati per un simile impatto col giudizio altrui, e il loro benessere ne risente.
In questo quadro, l’esperienza di Sangiovanni risulta emblematica. Raggiunto il successo con estrema velocità, il cantante ha dichiarato di aver iniziato a vedere nella musica un vero e proprio ostacolo al suo benessere. Se prima del successo per lui la musica era un rifugio, una soluzione e una cura nei momenti di malessere, ecco che all’improvviso era diventata fonte di disagio. E questo è accaduto quando nel rapporto con la sua più grande passione è sopraggiunta l’ansia da prestazione, per i risultati da raggiungere a ogni costo. Per questo bisogna stare attenti quando, citando una celebre frase di Confucio, affermiamo che lavorando con la propria passione non si lavora un solo giorno in tutta la vita: spesso non è così, poiché una passione che diventa lavoro, se a questo si mescolano dinamiche malsane, può trasformarsi nella causa di un grosso disagio.
La testimonianza di Sangiovanni, e di chi come lui racconta la propria esperienza e decide di fermarsi per prendersi innanzitutto cura di sé e della propria salute, deve farci riflettere. Va detto che l’artista, e chi come lui appartiene allo star system, parte comunque da una posizione privilegiata, potendosi permettere di prendere una pausa dalla carriera e ripartire quando se la sentirà; ciononostante, e benchè a differenza sua molti lavoratori non possano permettersi una pausa dalla propria professione, la sua esperienza può comunque farci capire l’importanza di non percepirci, mai, come macchine da prestazione. Dobbiamo mettere da parte quella terribile piaga contemporanea che è la FOMO, e quando necessario fermarci e ascoltarci, e nel frattempo ascoltare le esperienze di chi vive un percorso simile al nostro, che possa esserci d’aiuto o d’esempio. E al contempo dobbiamo riportare urgentemente la componente emotiva e psicologica al centro di qualsiasi dibattito e discussione sul mondo del lavoro, nonché di qualunque ambiente professionale.
Il lavoro, e tutto quello che facciamo per costruire la nostra carriera, non può in nessun caso privarci del nostro equilibrio e salute mentale. Forse dovremmo fermarci a chiederci: per arrivare a un eventuale successo, vale la pena di compromettere la nostra salute psicologica? Certo, oggi in moltissimi ambienti di lavoro e di formazione proliferano casi di ansia, disagio psichico e burnout, e ciò non può essere affatto imputato solo all’ossessione per il successo; ma questa è sicuramente una componente che, se non si riesce a gestire, può degenerare in profondi malesseri. Forse il successo è il vero, subdolo, nemico da combattere: una promessa di felicità destinata a deluderci, l’inganno più grande del nostro secolo. Ed è per questo che la nostra vita, la nostra società, non può più essere strutturata in sua funzione, perché è a causa di questo circolo vizioso che tutti rischiamo di ammalarci.