Se sei straniero essere perbene non basta. Vogliono annullarti.

Ogni volta che si parla di immigrazione, noto che ultimamente si tende a dare per scontato che ci si riferisca solo a quella clandestina, senza quindi cercare di differenziare le diverse tipologie di immigrazione e le persone che ne fanno parte. Si finisce quasi sempre per fare un miscuglio in cui tutti gli immigrati si trovano nel medesimo calderone: tutti sono arrivati in Italia allo stesso modo, via mare e con i barconi, tutti di recente, tutti si trovano in uno stato di massima necessità.

Eppure ormai dovremmo saperlo che in realtà non funziona esattamente così. È vero che al giorno d’oggi – soprattutto nei media, dai quotidiani ai telegiornali – sembra essere impossibile riuscire a parlare di immigrazione distaccandosi dalle tragiche vicende che accadono nel Mar Mediterraneo. Non c’è alcun dubbio che vi sia una necessità nel dover riportare con esattezza tali avvenimenti. Ma, d’altro canto, nonostante ci siano stati anche report e servizi sugli stranieri regolarmente residenti in Italia, credo che ancora non ci sia una completa consapevolezza del fatto che esistono stranieri che si trovano in Italia da molto tempo e che non necessariamente sono arrivati senza documenti e/o via mare. O ancora che non tutti gli stranieri sono di fatto “stranieri”, ma italiani di origine straniera.

Questa tipologia di immigrati, gli immigrati “perbene”, quella dei residenti regolari che lavorano e che pagano le tasse, esattamente come i concittadini italiani, passa quasi sempre in secondo piano, salvo quando viene utilizzata come metro di giudizio per paragonarla agli immigrati “cattivi”: chi non rispetta la legge o, più in generale, tutti coloro che arrivano in Italia irregolarmente. Per essere uno straniero accettato, e perfettamente integrato nel Paese “ospite” dovrebbe essere sufficiente rispettare la legge e avere i documenti in regola. Tuttavia, spesso è necessario fare un passo indietro e chiedersi se, pur rispettando questi due criteri, la vita dell’immigrato perbene sia semplice e priva di ogni tipo di discriminazione.

Uno degli episodi più recenti riguarda le scuole d’infanzia di Lodi e la decisione della sindaca leghista, Sara Casanova. Da quest’anno, i genitori dei bambini stranieri che vogliono usufruire dei servizi di scuolabus e mensa, oltre al documento Isee – indicatore che consente di verificare lo stato di bisogno familiare – devono presentare un documento del Paese d’origine, in cui si attesti che queste famiglie non possiedono beni di valore registrati a loro nome nel Paese da cui provengono. Peraltro, la stessa documentazione è richiesta per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, e per tale beneficio è sufficiente dimostrare di aver contattato i consolati e le ambasciate competenti. Se gli interessati non dovessero ricevere risposta, verrebbero comunque ammessi, ma con riserva. Decadrebbe dunque il beneficio se, a seguito di indagini dell’Agenzia delle Entrate, dovesse emergere che i beni all’estero esistono, ma non sono stati dichiarati. Non si capisce perché a Lodi non abbiano previsto lo stesso meccanismo.

Una delibera che serve da deterrente per i “furbetti”, come li ha definiti il ministro Salvini. Non si tratta di una novità e, nonostante lo scalpore suscitato, Casanova si è sempre difesa dicendo di aver semplicemente applicato la legge. La sindaca si riferisce infatti all’articolo 3, sulle Disposizioni Legislative in materia di documentazione amministrativa. Tuttavia, ciò ha portato a diverse complicazioni: in primis dovute al fatto che ottenere tali documenti non è semplice, ma richiede un iter burocratico lunghissimo, né tantomeno economico. In secondo luogo, bisogna ricordare anche gli articoli 11, della Direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, e il numero 10, del Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Isee. Nel primo si sancisce che il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali, nel secondo che è necessaria un’unica dichiarazione sostitutiva in riferimento al nucleo familiare, senza alcun riferimento all’origine del richiedente.

Si è arrivati a separare i bambini stranieri da quelli italiani durante l’ora del pasto, generando ovvi disagi tra i piccoli stessi, che vogliono mangiare con i loro compagni. Si tratta di una discriminazione in quanto molti genitori, pur avendo ottenuto i documenti richiesti, si sono visti negati i servizi dal comune di Lodi. “Immigrati perbene”, ma comunque persone di serie B, trattati diversamente dai cittadini italiani ai quali bastava la sola certificazione Isee per usufruire dei servizi.

Altro caso riguarda le modifiche apportate all’iter per l’acquisizione della cittadinanza per residenza e per matrimonio, previste dal Decreto Sicurezza voluto dal ministro Salvini. La bozza di questo decreto presentava già una discriminazione, in quanto tra le modifiche si prevedeva l’incensuratezza anche dei familiari conviventi, l’assenza di pericolosità sociale, la condotta irreprensibile. Come se ogni straniero o italiano di origini straniera nato e cresciuto in Italia, fosse innatamente pericoloso per la società e come se l’eventuale errore di un familiare possa essere automaticamente associato alla persona che vuole acquisire la cittadinanza. La bozza è stata in seguito corretta eliminando questi punti. Tuttavia, l’iter si allunga da 24 a 48 mesi e la spesa per ottenere i documenti richiesti è dai 200 ai 250 euro – senza contare tutte le altre spese riguardanti permessi e carte di soggiorno con i rinnovi inclusi. L’inasprimento dell’iter burocratico per la richiesta di cittadinanza, già complicato in precedenza, è un ulteriore esempio di come sia difficile arrivare a un’integrazione vera e propria, specialmente per le seconde generazioni, le quali si ritrovano ad essere straniere nel Paese in cui sono nate e/o cresciute.

Infine, vorrei porre l’attenzione su altri due episodi: l’indignazione che la rappresentante del partito Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha espresso in un tweet sull’introduzione del cous-cous nelle mense scolastiche, e la possibilità di poter chiudere, secondo il ministro Salvini, i negozi etnici dalle 21.00 in poi.

Pur di difendere una presunta “italianità”, si attacca il Comune di Peschiera Borromeo che, a differenza di chi ha voluto credere alla propaganda politica di Fratelli D’Italia, non ha introdotto il cous-cous su richiesta delle famiglie di religione islamica, perché queste ultime non mangiano il maiale ma, semplicemente, come chiarito dalla sindaca Caterina Molinari, per decisioni prese in base a nutrizionisti esperti che, oltre a inserire il cous-cous una sola volta al mese, hanno suggerito di sostituire il maiale con le carni bianche. Inoltre, il cous-cous non è un “piatto straniero”, ma fa parte anche della tradizione culinaria italiana, in particolare quella siciliana. C’è quindi una parte politica che continua a ribadire, come fosse un mantra, che gli stranieri in Italia devono rispettare cultura e identità italiane. Aspetti che, tra l’altro, sono impossibili da raggruppare tutti insieme dato che variano da regione a regione. L’Italia stessa è così ricca di diversità che è impossibile non cadere su dati soggettivi, più che oggettivi. Motivo per cui cercare di definire un’unica identità nazionale e spronare tutti i cittadini a omologarsi: risulta essere è assurdo e anacronistico.

Per quanto riguarda il secondo caso, la dichiarazione del ministro Salvini presenta un’ulteriore discriminazione, in quanto si darebbe per scontato che sono i soli negozi etnici a creare eventuali disordini. Nessuno esclude il fatto che, laddove ci fossero disagi provocati dai clienti di determinati negozi, è giusto che ci siano i dovuti controlli e vengano presi gli eventuali provvedimenti. Tuttavia, questo è un principio che dovrebbe essere applicato a tutti i negozi, non solo a quelli gestiti da persone straniere. È come se Salvini insinuasse che gli esercizi commerciali italiani possano rimanere aperti data l’innata “bontà” degli acquirenti, e che, al contrario, gli esercizi commerciali di persone straniere provochino solamente pericolosità sociale. Di nuovo, viene applicato un doppio standard insensato e dichiaratamente discriminatorio. Ora, finché si tratta del rispetto della legge, che vale per tutti, cittadini italiani e non, non si presenta alcun problema. Questi nascono quando, pur rispettandola, ci si trova di fronte a provvedimenti controversi che di fatto discriminano lo straniero, limitandone la piena integrazione. Sembra quindi che chi parla di integrazione forzata voglia comunque, al contempo, mantenere stranieri e italiani separati, senza rischiare che l’identità italiana venga “diluita”, come ha di recente detto il ministro Fontana.

La retorica del “mantenimento dell’identità” nasconde un principio antiquato e per diversi aspetti xenofobo. Ci si sente allarmati senza motivo, dato che finora nessuna persona di origine straniera ha minacciato i cittadini italiani, cercando di imporre i propri usi e costumi – al massimo questo atteggiamento lo avevano avuto i colonizzatori nei confronti di altri Paesi secoli fa, ma non è di certo questo il caso dell’Italia in questo momento storico. Eppure, c’è chi si sente come un cavaliere di crociata e parla di “resistenza etnica”.

Ecco che l’appellativo di “immigrati perbene”, quelli privilegiati e “più buoni” degli irregolari, cade, rovinosamente smascherato di tutta la sua ipocrisia. Mi chiedo quale sia la definizione di “immigrato per bene” se, nonostante il rispetto delle regole, uno straniero in questo Paese deve fare i conti con una realtà che ancora non si rende conto della sua presenza. O, se se ne rende conto, lo vede come un peso, un parassita, o come una zecca dei cani. Mi chiedo, infine, se chi continua ad alzare la voce dicendo che il problema sono solo gli immigrati irregolari, cercando di scrollarsi di dosso ogni possibile accusa di xenofobia o razzismo, si renda conto che anche se si è regolari, la strada per una completa accettazione è ancora lunghissima. Forse, quando si smetterà di ricorrere a ridicoli allarmismi e alla continua distinzione tra “noi” e “loro”, si potrà iniziare davvero a parlare di uguaglianza tra cittadini, a prescindere dalla loro provenienza.

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