Perché è così difficile spiegare di essere italiani a questo Paese?

In quanto italiani di origine straniera, la questione dell’identità è un elemento che, crescendo, entra a far parte della quotidianità. Solitamente, da piccolo non ti fai troppe domande: nasci o cresci in Italia, parli italiano, vai scuola in Italia, frequenti i compagni di classe italiani, quelli di calcio, di danza, di tennis. Attorno a te si crea un microcosmo del tutto identico a quello di un bambino o di una bambina italiani come tanti altri. Nella maggior parte dei casi, salvo particolari difficoltà, è naturale rispondere “Italia” a chi ti chiede da dove vieni. E quando sei ancora piccolo e ti dicono che in realtà lo Stato italiano non ti riconosce come suo cittadino, rimani un po’ perplesso, confuso. 

Crescendo però ti rendi conto delle ore di fila in questura che i tuoi compagni di scuola non devono fare, delle spese che i tuoi genitori devono affrontare per il rinnovo di quel permesso di soggiorno di cui non comprendi realmente il significato. Fino a che, a diciotto anni, una volta completate le pratiche per l’ottenimento della cittadinanza – ammesso e non concesso che vada tutto a buon fine, date le complicazioni burocratiche – il sindaco, ti invita al Comune per il giuramento e ti fa i complimenti per essere diventato italiano. E allora tutto quello che avevi dato per scontato fino a quel momento, buona parte delle certezze su cui avevi costruito la tua identità, svanisce in un secondo e ti chiedi cosa fossi prima. 

Anche dopo aver ottenuto questo “attestato di italianità”, non è detto che verrai percepito come tale. Anzi, sembra proprio che questo pensiero non sfiori minimamente la mente di alcune persone che, vedendo in te i tratti somatici tipici di un’altra zona del mondo, non riescono a concepire che tu possa essere tanto italiano quanto loro. Djarah Kan, cantante e scrittrice nata in provincia di Caserta e di origine ghanese, ha raccontato su Facebook un episodio in questo senso emblematico: si trovava sull’autobus, e due controllori le hanno chiesto il permesso di soggiorno; lei ha risposto di non averlo poiché italiana. In casi simili, perfino dopo aver conversato in perfetto italiano per ore – oppure con una forte inflessione dialettale – c’è sempre qualcuno che si sorprende e si complimenta per il corretto utilizzo della lingua. Come se fosse impossibile che una persona di origine nigeriana, cinese o indiana, nata e cresciuta in Italia, abbia avuto il medesimo percorso di studi di un qualsiasi altro cittadino italiano, nato da genitori italiani.

Una simile dinamica si verifica quando ti chiedono “Da dove vieni?” Se rispondi Roma, Firenze, Torino o Parabiago, difficilmente il tuo interlocutore sarà soddisfatto e insisterà dicendoti “Okay, ma da dove vieni davvero?” Senza considerare che magari il Paese di origine dei tuoi genitori tu non l’hai mai visto, non ci sei mai stato e non ti interessa nemmeno andarci, magari. Oppure senza pensare che tu possa non voler disquisire del tuo intero albero genealogico con un tizio appena conosciuto. Questo avviene soprattutto con i ragazzi e le ragazze adottati da famiglie italiane, ai quali si chiede in modo quasi maniacale la verità sui genitori biologici e sulle loro origini. Come se non si riuscisse ad accettare che sono italiani a tutti gli effetti. Lo si è già visto in passato con l’esempio di Mario Balotelli che, nonostante sia nato a Palermo, sia cresciuto in una famiglia italiana e abbia un nome italiano, ha più volte ricevuto insulti razzisti legati al colore della pelle.

Se da un lato, quello più estremista e xenofobo, c’è chi dice che non esistono italiani non bianchi – come è successo due anni fa in una scuola di Pistoia – dall’altro c’è chi sembra non rendersi nemmeno conto di applicare, magari con tono pacato e gentile, gli stessi stereotipi razzisti al proprio interlocutore di origine straniera. Il caso più recente è quello di una domanda posta a Mahmood, il cantante che ha vinto l’edizione di Sanremo di quest’anno. La giornalista gli ha chiesto cosa gli mancasse del suo Paese e lui le ha risposto che il suo Paese è l’Italia. Non è solo la domanda a essere assurda in sé, specialmente se posta dopo che si era ampiamente discusso – anche troppo – delle sue generalità;  ancora peggio è il fatto che la giornalista, di fronte alla risposta di Mahmood, abbia ribattuto con un “lo so”, come a voler annullare completamente – e a questo punto consapevolmente – la sua italianità. 

Questa idiosincrasia si riflette perfettamente nelle politiche di questo governo. Tramite le nuove norme del Decreto Sicurezza, il processo burocratico per ottenere la cittadinanza è stato reso ancor più complesso, dispendioso e lungo. Si generano così delle situazioni paradossali, che vedono bambini e ragazzi tecnicamente italiani che si ritrovano legati al permesso di soggiorno dei genitori per poter rimanere nel Paese in cui sono nati e/o cresciuti. Per diciotto anni lo Stato italiano ti considera straniero anche sei qui ci sei sempre vissuto e non è nemmeno detto che, dopo la lunga attesa, le file agli uffici preposti e le spese, tu riesca a ottenere la cittadinanza.

La questione della riforma di cittadinanza è caduta nell’oblio il 23 dicembre 2017 e sembra che a nessuno interessi più. Quel giorno in Parlamento mancava persino il numero legale per poterne discutere: assenti il M5S, la destra e perfino parte di quel centrosinistra che si era tanto prodigato per portare a termine la riforma. Il disegno di legge proposto prevedeva due modalità di accesso alla cittadinanza, lo ius soli temperato e lo ius culturae. Se lo ius culturae fosse diventato legge, bambini e giovani arrivati in Italia regolarmente prima dell’età di dodici anni avrebbero avuto la possibilità di ottenere la cittadinanza dopo il completamento di un ciclo scolastico di almeno cinque anni e a patto che i genitori avessero un permesso di soggiorno di lungo periodo). Stessa procedura per lo ius soli temperato (che nulla ha a che fare con lo ius soli tout court) possibile anche per chi fosse direttamente nato in Italia da genitori regolarmente lavoratori e residenti.

Nulla di così catastrofico, quindi, come molti esponenti dei partiti più intolleranti hanno fatto credere attraverso allarmismi insensati su invasioni e regolarizzazioni a tappeto dei “clandestini” – un termine che andrebbe cancellato definitivamente dal linguaggio comune. In realtà questa riforma ha caratteristiche ben precise: non è vero che avrebbe permesso agli stranieri residenti sul territorio italiano di ottenere la cittadinanza automaticamente. Eppure è prevalsa questa convinzione, per disinformazione e non volontà di approfondire. 

In un’altra intervista a Mahmood di Antonio Dikele Distefano, scrittore italiano, il cantante si è poi sfogato dicendo: “Non è che noi dobbiamo spiegare che siamo italiani, è che deve cambiare un pensiero, un meccanismo, che non viene dalla nostra generazione”. E il punto sta proprio qui: per quanto si possa cercare in tutti i modi di spiegare e rivendicare la propria identità italiana niente cambierà finché la questione non verrà percepita come normale. Solo quando si riuscirà a non mettere più in dubbio l’identità italiana di qualcuno solo sulla base dei tratti somatici, e solo quando le origini di una cantante italiano non saranno più notizia da prima pagina si vivrà in una realtà davvero inclusiva e priva di pregiudizi superficiali. 

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