Come il sovranismo chiude i porti alle ONG e li apre al caporalato

Se c’è una battaglia di cui Matteo Salvini e gli altri sovranisti di casa nostra non si stancano mai, è quella sul made in Italy a tavola. Quante volte li abbiamo visti in posa sui social con arance, pomodori, bruschette all’olio extravergine e altre primizie simbolo dell’agroalimentare nostrano. “Comprate italiano, mangiate italiano, bevete italiano”, ha esortato qualche giorno fa l’ex ministro dell’Interno durante la sua visita al Villaggio Coldiretti di Bologna. Il club del prima gli italiani ama il cibo di casa nostra e sarebbe disposto a tutto pur di difenderlo dalle contaminazioni straniere. Quello che gli interessa meno è da dove, o meglio ancora da chi, arriva: nella maggior parte dei casi è il prodotto di lavoratori stranieri, spesso irregolari, sottopagati e sfruttati.

I braccianti nel nostro Paese sono circa un milione secondo il rapporto Agromafie e Caporalato del 2018. Il 28% sono migranti, a cui si somma un sommerso quantificabile in circa 220mila lavoratori stranieri, assunti in nero e con retribuzioni molto inferiori a quelle previste dai contratti nazionali. Ecco chi lavora la terra da cui nascono i prodotti onnipresenti nei post del Capitano e degli altri politici della destra ultranazionalista italiana. Un esercito di occupati che fanno comodo, perché spesso invisibili, a differenza dell’esigua minoranza degli stranieri che popolano le stazioni e le piazze, o che commettono reati ma che sembra una folla oceanica grazie al megafono social sovranista.

Salvini ha più volte detto che il problema, per lui, non sono gli stranieri in generale: “Gli immigrati che lavorano bene sono i benvenuti”, ha dichiarato nel 2015 in un post provocatorio. Lavorare bene, a quanto pare, significa subire lo sfruttamento in silenzio e, sempre in silenzio, contribuire a valorizzare quel made in Italy che tanto piace al leader leghista e ai suoi colleghi. Eppure, il sovranismo con riserva non è un’esclusiva del leader leghista. Basta spostarsi nell’Europa dell’est, quella dei Paesi del gruppo di Visegrad, per rendersi conto che a tanti proclami pubblici contro l’immigrazione fanno da contraltare migliaia di ingressi non dichiarati, ma noti alle autorità, per compensare l’emorragia di manodopera nei lavori meno ambiti dai loro cittadini. Una “dimenticanza” che sta alimentando una spirale di sfruttamento che prosegue da anni.

L’esempio più eclatante è quello dell’Ungheria di Viktor Orbán. Dal suo ingresso nell’Unione europea al 2017, 600mila persone hanno lasciato il Paese. Inoltre, lo Stato magiaro sta vivendo una crisi di natalità, che ha portato il governo a varare una serie di incentivi alla popolazione per fare più figli. In estate, per esempio, si è stabilito che alle coppie – unicamente quelle sposate – sarà offerto un prestito di 30mila euro, che non dovrà essere rimborsato in caso facessero almeno tre figli. L’Ungheria è un Paese sempre più vecchio: da decenni le nascite sono in calo e questo si sta riflettendo sul mercato del lavoro, dove manca manodopera. Il 93% delle imprese manifatturiere in Ungheria afferma che la carenza di personale da assumere sta limitando la produzione. Numeri simili riguardano anche le aziende di altri settori: sono più di 80mila (alcune stime parlano anche di 150-200mila) le posizioni lavorative vacanti nei settori dell’edilizia, del manifatturiero, della vendita al dettaglio e del turismo. Per far fronte all’emergenza, Orbán ha introdotto alcune novità nella normativa sul lavoro, alzando per esempio il tetto degli straordinari da 250 a 400 ore all’anno e consentendone il pagamento dilazionato in tre anni. Se non ci sono lavoratori, facciamo lavorare di più quelli che ci restano, deve aver pensato il presidente, che poi si è reso conto dell’insostenibilità di questo ragionamento e ha rivolto lo sguardo all’estero, alla ricerca di manodopera straniera.

L’Istituto centrale di statistica ungherese ha reso noto che i permessi di lavoro accordati a stranieri nei primi otto mesi del 2019 sono stati circa 50mila, una quota che si avvicina ai 60mila concessi in tutto il 2018. Nel 2016 erano stati soltanto 7300. Orbán non ha rilasciato dichiarazioni su questo aumento di ingressi, mentre i media controllati dallo Stato continuano a tacere. Il presidente intanto va avanti con gli slogan sulle frontiere chiuse e se la prende con i partner europei che accolgono nei propri porti i barconi di disperati. Orbán sta conducendo quel giochino delle parole a cui non corrispondono i fatti a cui ci ha abituati il suo fan italiano numero uno, Matteo Salvini – mentre dal Viminale diceva che i “porti sono chiusi”, sono arrivati oltre 8mila migranti in Italia. Eppure, si tratta dello stesso Orbán che nell’ultimo biennio ha ammorbidito la legge nazionale sui permessi di lavoro agli extracomunitari. Oggi, per esempio, alle agenzie di reclutamento locali bastano poche settimane per ottenere questo tipo di autorizzazioni, così da velocizzare l’arrivo di manodopera.

Quanto sta avvenendo in Ungheria non è un fatto isolato. Lo stesso trend riguarda tutti i Paesi sovranisti dell’area. Nel 2017 la Polonia ha rilasciato 680mila permessi di residenza, record annuale tra i Paesi dell’Unione europea. Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha costretto alle dimissioni un viceministro per aver ammesso che il Paese ha bisogno di manodopera straniera. I migranti per lavoro attratti negli Stati dell’est Europa non sono però gli stessi che arrivano in Italia. Il boom di ingressi riguarda infatti mongoli, vietnamiti, indiani, ma anche cittadini bielorussi e ucraini. Negli ultimi mesi sono poi stati accolti anche centinaia di venezuelani “con antenati ungheresi”. Profili meno riconoscibili rispetto al migrante africano o mediorientale, ormai identificato come il male dalle menti dei sovranisti europei. Una volta arrivati, gli indiani vengono impiegati negli allevamenti delle mucche da latte o nell’industria delle costruzioni. I mongoli si occupano della tinteggiatura dei nuovi edifici, mentre chi arriva dal sud-est asiatico è spesso destinato all’industria della ristorazione. Quel che è certo è che non solo queste persone tappano le voragini di manodopera, ma lo fanno anche a condizioni vantaggiose per chi li assume. I sindacati e le opposizioni ungheresi hanno espresso preoccupazione per il fenomeno di importazione di manodopera straniera in un Paese dallo spiccato profilo xenofobo. Poche tutele e bassi salari rischiano di dare il via a una spirale di sfruttamento, accettata dagli stessi lavoratori a causa della mancanza di alternative.

Come in Italia, i politici sovranisti di Visegrad ignorano la situazione. Le loro economie sono in crescita, l’industria va a pieno regime, nascono nuovi distretti e servono risorse che diano una mano, senza chiedere troppo in cambio. Gli odiati migranti si trasformano così d’improvviso in “migranti ben accetti se lavorano bene”, senza che però questo venga reso noto agli elettori. È il paradosso di Visegrad, o quello che Tomas Sobotka, ricercatore al Wittgenstein Center for Demography and Global Human Capital di Vienna, ha chiamato “il paradosso dell’emigrazione”. “Orbán spende molta energia per combattere l’immigrazione nel Paese”, ha sottolineato al New York Times, “ma la ragione principale per cui l’Ungheria si ritrova in difficoltà è perché ogni anno decine di migliaia di ungheresi lasciano il Paese”.

Anni di politiche di zero ingressi non sono state compensate dall’ingresso di manodopera locale nel mercato del lavoro, che al contrario si è trasferita in massa all’estero alla ricerca di migliori salari. László Parragh, presidente della camera di commercio di Budapest, a febbraio si lamentava per la mancanza di “lavoratori dalla pelle bianca con radici cristiane”. Oggi le aziende che rappresenta sono costrette a importare manodopera extra-Ue, spesso musulmana. Ecco allora che uno dei Paesi più duri sull’immigrazione come l’Ungheria negli ultimi tempi si è trasformato in uno dei più liberali sul tema. Nessun Paese dell’Unione europea ha fatto registrare un incremento annuale più netto in termini di concessioni di permessi di lavoro a cittadini extracomunitari rispetto al +113% dell’Ungheria dell’anno scorso.

È questo il modello tolleranza zero a cui guardano estasiati Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Quello della dialettica dell’odio, ma anche delle menzogne e dello sfruttamento. La spirale di sfruttamento in cui finiscono i lavoratori di origine straniera in Ungheria dovrebbe sembrarci familiare. “Il decreto sicurezza di Salvini, abolendo i permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha come effetto immediato e grave l’interruzione dell’integrazione e come effetto collaterale spinge i lavoratori stranieri, che prima vivevano nei centri di accoglienza, nelle mani del caporalato. Le grinfie degli sfruttatori sono pronte a colpire dove c’è disoccupazione”, ha sottolineato sul Manifesto Yvan Sagnet, fondatore dell’associazione No Cap, che si batte contro ogni forma di sfruttamento in agricoltura. L’abuso dei lavoratori stranieri, su cui si basa un’ampia fetta della produzione del made in Italy, rischia di essere amplificato da decreto dell’ex ministro dell’Interno, che ha anche criticato le precedenti leggi contro il caporalato.

I sovranisti, di qualunque Paese essi siano, appaiono più interessati alla bandiera del prodotto finale che non a quella di chi ha lavorato per una manciata di euro all’ora, privo di diritti e tutele, perché si ottenesse quel prodotto. È una gara di ipocrisia, da cui escono sconfitte sempre le stesse persone: gli immigrati, demonizzati pubblicamente, ma in segreto attirati nei nostri mercati e poi sfruttati.

Foto in copertina di Antonio Masiello

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