Viviamo una crisi di solitudine globale. Per tornare comunità serve prenderci cura l’uno dell’altro. - THE VISION
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Tra tutta la cronaca che si è susseguita negli anni, c’è una notizia in particolare che non sono mai riuscito a togliermi dalla testa. Il 2 agosto 2016, nel quartiere Appio di Roma, alcuni condomini allertano la polizia perché da un appartamento della palazzina sentono arrivare gemiti, pianti e urla. Quando gli agenti arrivano non si trovano davanti un criminale o una scena pronta a finire in una puntata di qualche podcast di true crime, ma due anziani: Michele, 94 anni, e Jole, 89, insieme da settanta. È estate, nella capitale c’è l’afa e chi può permetterselo è partito per le vacanze. Nelle grandi città non affacciate sul mare e non addossate alle montagne, ad agosto resta spesso solo chi è costretto – dal lavoro, dalla salute, dalla fame. A far gridare Jole e Michele è la povertà, ma soprattutto la solitudine. Cresciamo con l’idea che il sentirsi abbandonati contribuisca solo a renderci burberi eremiti pronti a evitare ogni contatto, o persone spente, dalla voce flebile e il carattere mite, la volontà tanto consumata da assecondare qualunque possibile richiesta altrui. La solitudine come stasi, immobilità. Eppure, la reazione chimica del nostro corpo quando ci sentiamo soli si manifesta nelle reazioni che ci preparano agli sforzi necessari per combattere o scappare quando ci troviamo di fronte a un pericolo: il battito cardiaco si fa irregolare e la pressione sanguigna aumenta insieme all’infiammazione e allo stress. Ci spinge alla disperazione – e nei casi più estremi alla morte. La solitudine costante arriva a far male quanto fumare 15 sigarette al giorno. È difficile ammettere di essere soli, agli altri e a se stessi: ci appare sempre più come un fallimento personale e non come il risultato combinato di fortuite circostanze della vita e di fattori economici, sociali e culturali su cui abbiamo poco potere. 

Oggi siamo nel pieno di una crisi di solitudine globale. Nei Paesi sviluppati, negli ultimi quindici anni, il numero di persone che afferma di avere amici o parenti su cui poter contare è diminuito costantemente: più di tre americani su cinque si sentono soli; il Regno Unito ha istituito un ministero specifico per il contrasto del fenomeno e tre quarti dei cittadini ha dichiarato di conoscere il nome del vicino – una quota che sembra adatta a descrivere la situazione anche in altre grandi città italiane, come Milano; in Germania due terzi della popolazione, già prima di mesi di isolamento, ritenevano la solitudine un problema serio. L’Italia, che secondo diversi studi europei ha uno dei tassi di solitudine più alti del continente, lo scorso anno si è classificata quinta in un sondaggio globale sulla sensazione di essere soli. Già una ricerca del 2020 evidenziava come il 55% degli italiani intervistati affermasse di soffrire di solitudine, con la quota più alta, il 32%, nella fascia dai 18 ai 34 anni. Una percentuale che arriva all’88% quando si restringe il campo a ragazzi e ragazze adolescenti. Anche se gli ultimi anni hanno costituito uno spartiacque nel cambiare finalmente approccio al discorso pubblico sulla salute mentale, l’emergenza sanitaria non ha fatto altro che esacerbare sensazioni già diffuse: nel 2015, il 13,5% degli italiani over 16 dichiarava di non avere una persona alla quale chiedere aiuto; tre anni dopo, circa 3 milioni di persone dicevano di non avere una rete di amici, né di sostegno. Mentre in Giappone le donne più anziane sembrano compiere piccoli furti per godere in prigione della compagnia che non hanno nel quotidiano, in Cina un uomo di ottant’anni, prima di morire, lasciava un annuncio in giro per Tianjin chiedendo che qualcuno lo adottasse.

Sentirsi soli è diventato un fenomeno collettivo e trasversale, per troppo tempo considerato e analizzato solo come assenza di una rete sociale. Eppure, soprattutto nei tempi in cui viviamo, consiste in molto di più. Come spiega l’economista Noreena Hertz nel saggio Il secolo della solitudine, “Si tratta anche di sentirsi senza sostegno e cura da parte dei nostri concittadini, dei datori di lavoro, della comunità, del governo. È essere distanti non solo da quelli a cui dovremmo sentirci vicini, ma anche da noi stessi. Non è solo la mancanza di sostegno in un contesto sociale o familiare, ma anche sentirsi politicamente ed economicamente esclusi”. Quella che viviamo oggi “è una solitudine che, pur includendolo, è molto più ampia del nostro desiderio di sentirci vicini agli altri, perché è anche una manifestazione del nostro bisogno di essere ascoltati, visti, accuditi, di avere la capacità di agire, di essere trattati in modo equo, con gentilezza e rispetto”. Un bisogno che risulta spesso disatteso non solo nel rapporto reciproco tra individui, ma anche tra le richieste avanzate dai cittadini e l’inadempienza della politica. Non è un caso che, nonostante la solitudine non faccia distinguo per genere, età, orientamento sessuale o classe sociale, le persone che vivono in condizioni di povertà siano coloro che ne risentono maggiormente, finendo per essere isolate non solo socialmente, ma anche economicamente. Nel suo acquisire un’urgenza politica, il fenomeno richiede quindi necessariamente interventi statali.

In un momento storico in cui i luoghi di aggregazione si riducono a piazze virtuali, sarebbe importante, per esempio, aumentare gli investimenti nelle biblioteche, nei centri di servizi culturali, nel rendere pedonali parti della città sottratte ai suoi abitanti e nell’ampliare gli spazi destinati ai bambini: ambienti in cui è valorizzata la socializzazione e dove crescono le probabilità di stringere legami sociali, ma rappresentano anche dei contesti dove imparare come farlo. Se è vero, come scriveva Aristotele, che l’uomo è un animale sociale per la sua capacità di unirsi in gruppo e costituire una comunità, serve alimentare una riflessione sulle modalità con cui possiamo mantenerla viva. A farci sentire meno soli contribuisce poi anche la vita di quartiere, che rischia però di essere smantellata dalla foga immobiliare di investire e mettere in affitto, aumentando il numero di case vuote per determinati periodi dell’anno, rendendo i prezzi tanto proibitivi da non dare a tutti la possibilità di mettere radici e influenzando così il conseguente allontanamento soprattutto di chi vive in condizioni di povertà. Come suggerisce Hertz, l’azione dei governi potrebbe mirare a introdurre dei tetti agli affitti, stabilire un massimo di giorni all’anno per cui un immobile può essere messo a disposizione su piattaforme come Airbnb, riducendo così il ricambio dei locatori, e prevedere agevolazioni fiscali per quei negozi che contribuiscono a creare un senso di comunità – come le librerie indipendenti – e che si scontrano, tra le altre difficoltà, con l’aumento degli acquisti online. D’altronde lo spazio urbano è il luogo in cui trascorriamo più tempo e in cui ne passeremo sempre di più. Considerato che la nuova gentrificazione è climatica, anche prendere seri provvedimenti sul piano della mitigazione ambientale finisce per contrastare l’attuale sensazione di solitudine. Inoltre, con il tempo percepito come risorsa sempre più rara, il lavoro resta un nodo critico. Le professioni, se svolte in presenza, offrono l’opportunità di creare legami ma al contempo, a causa della sovrapposizione tra lavoro e identità e della cultura del sacrificio ancora diffusa, riducono il tempo da investire nelle relazioni sociali e di volontariato al di fuori dell’ufficio. Il tasso di disoccupazione potrebbe poi essere ridotto investendo nella creazione di nuove mansioni pertinenti la cura e la compagnia, ma il rischio è che il contrasto alla solitudine finisca per diventare prerogativa dei ricchi.

Se è vero che l’intervento dei governi è essenziale nel mitigare questi effetti, anche il singolo è chiamato a fare la sua parte, dal momento che la società non ci è stata data già fatta, dunque non basta accettarla passivamente – siamo noi a darle forma. Oggi viviamo in un’epoca in cui il neoliberismo ha mostrato i suoi aspetti più infausti, portando alla consapevolezza che un’altro sistema non solo è possibile, ma necessario. Agendo secondo l’imperativo della produzione, abbiamo finito per diventare incapaci di fare i conti con il nostro tempo libero, riempiendo le giornate di impegni inutili e sentendoci tanto più valorizzati quanto ci avviciniamo al burnout. In questo scenario, la cura è diventata una commodities come un’altra: da un lato, siamo sommersi di inviti a stare meglio, recuperare energie, fare solo ciò che ci va, in cui il self-care viene ridotto a una performance; dall’altro, la cultura del wellness è diventata una vera e propria industria, una strategia di marketing che ha ridotto la cura a un dovere, a “una questione di preferenze individuali da scegliere sul mercato, un po’ come si sceglie una macchina o una maglietta”, come scrive The Care Collettive in Manifesto della cura. Ciò a cui aspirava l’ex premier britannica Margaret Thatcher, quando in un’intervista del 1981 al Sunday Times disse che “l’economia è il metodo; l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”, si è avverato. Siamo diventati incapaci di prenderci cura di noi stessi, degli altri, del mondo e di considerare la tutela del bene comune di primaria importanza. Il “noi” si è progressivamente frantumato in molteplici “io”, da cui è emersa una spasmodica fatica orientata a inseguire esclusivamente il benessere individuale. 

Margaret Thatcher

In una società in cui le nuove generazioni non hanno punti di riferimento a cui aggrapparsi e la maggior parte della popolazione si fa sempre più anziana e sola, ragionare sulle forme di famiglia alternative a quella basata sui legami di sangue aiuta a creare mutui rapporti di sostegno. Mentre oggi si dà per scontato l’amore come fondamento della famiglia, nella storia sono molti gli esempi in cui la sua concezione ha travalicato quella composta solo da consanguinei: la cura condivisa dei bambini, l’autocoscienza, l’assistenza medica delle attiviste di Black Panther negli anni Settanta; il supporto tra persone diversamente oppresse durante l’epidemia di Aids; l’economia comunitaria di alcune popolazioni indigene. All’interno della comunità LGBTQ+ si sente spesso parlare di “famiglia scelta”, non potendo in alcuni casi di omotransfobia contare su quella anagrafica. Eppure tutti, nella vita, possiamo aver sperimentato e sperimentare rapporti simili: con amici, con i vicini di casa, persino con la cassiera del supermercato dove andiamo più spesso, nonostante possa sembrarci un legame più distante.

Certo la cura richiede uno sforzo considerevole: significa doverne riconoscere la necessità, scendere a compromessi, partecipare attivamente. Non basta nemmeno stare con le persone: bisogna fare insieme. Le comunità, infatti, rischiano di essere luoghi esclusivi creati basandosi solo sul criterio della similitudine, ma riscoprire il valore sovversivo e radicale della cura per rimetterlo al centro del nostro agire comporta impegnarsi ad andare oltre. Significa, cioè, avviare un movimento di avvicinamento reciproco che faccia superare la paura, scoprire cosa ci unisce e saper apprezzare le differenze, assumendosi, però, il rischio del conflitto insito nell’incontro con l’Altro, riscoprendolo come una parte imprescindibile dello stare in  società e come motore del cambiamento. Una trasformazione che non implica il  dover essere amici di tutti, ma riconoscere per ciascuno lo stesso diritto alla dignità, al dare e ricevere cura come vorremmo fosse per noi. Significa, infine, saper ammettere che spesso ciò che è meglio per la collettività non è ciò che sarebbe meglio per noi. La famiglia, quindi, deve sempre più essere concepita, come un insieme di persone che partecipano intimamente gli uni alle vite degli altri; una costruzione sociale e culturale che potremmo provare a basare non sull’amore di coppia ma sulla cura reciproca. Il problema è che oggi, soprattutto nelle grandi metropoli, sembra essersi sviluppata una sorta di paura di entrare nello spazio altrui – e di lasciar penetrare l’Altro nel nostro. L’obiettivo a cui dovremmo rivolgerci, nonostante l’invito di diversi governi solo a procreare, è quello di generare parentele, trasferendo il concetto di cura a ogni contesto extrafamiliare, creando così nuove reti relazionali per ripensare le relazioni esistenti e rafforzarle.

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