Sui social seguiamo solo chi la pensa come noi. Per questo abbiamo messo i paraocchi.

Se dovessimo basarci solo sulle persone che gravitano nella nostra zona di comfort, sui nostri stessi profili social e sugli ambienti che frequentiamo abitualmente, potremmo rischiare di convincerci che tutti la pensino al nostro stesso modo. Poi, a ogni elezione, a ogni viaggio, od ogni volta che frequentiamo un ambiente diverso dal solito, ci si rende conto di quanto questo sia falso – oltre che impossibile. Anzi, magari non solo scopriamo che ci sono persone che la pensano in modo diametralmente opposto al nostro, ma ci ritroviamo addirittura a essere parte della minoranza.

Come spiegano Roberto Basso e Dino Pesole nel libro Economia percepita, prima della globalizzazione il conformismo era vera e propria sopravvivenza. In tribù, villaggi o comunità chiuse essere diversi dalla maggioranza comportava, se andava bene, l’emarginazione; se andava male anche la morte. Senza avere la possibilità di scambi con l’esterno, in un gruppo ristretto, il conformista aveva vita più facile. La globalizzazione e il capitalismo hanno apparentemente distrutto tutto ciò, dandoci la possibilità di spostarci facilmente e in tempi brevi, la rete delle comunicazioni, e la liberalizzazione dei consumi, fino all’arrivo di internet che ha aperto mille possibili finestre sul mondo. Così sono apparsi centinaia di migliaia di pensieri, stili di vita, mode, religioni, teorie e discipline in cui identificarsi e il conformista si è trovato spaesato. Tribù e micro comunità reali sono andate via via scomparendo per lasciare spazio al villaggio globale. Smantellata la struttura sociale che usava il conformismo come metro però non si è diventati uomini liberi.

È più che altro cambiata la forma del sistema, ma non i suoi meccanismi: invece di adeguarci a quello che la gente vicina a noi pensa, andiamo a cercare nicchie di pensiero di cui sentirci parte, ci creiamo la nostra maggioranza, ma questa è un’illusione, e sia online che nella vita continuiamo a dover rispondere alle pressioni che il mondo ci impone per essere accettati. Online esiste qualunque tipo comunità: da chi ha gusti sessuali più o meno particolari, agli interessati di ambiti iperspecialistici, fino a chi colleziona qualsiasi genere di cosa. In rete è facile costruire la propria comunità. Un gruppo con cui, volendo, si può non arrivare mai a discutere: se i paletti della sua esistenza sono determinati solo dal motivo per cui ci si incontra. Si sceglie un singolo aspetto su cui c’è concordanza, si eliminano tutti gli altri e si crea così una stanza in cui sono tutti d’accordo. Gli appassionati di numismatica possono fare amicizia tra loro dall’Australia al Canada, frequentarsi quotidianamente in chat, discutere a fondo di ogni nuova scoperta, il tutto senza mai conoscere il credo religioso o politico, lo stile di vita o il tipo di lavoro degli altri interlocutori.

Dover discutere, senza che la cosa diventi uno sterile scontro verbale, con qualcuno che ha un pensiero diverso dal nostro è un esercizio molto faticoso, per cui automaticamente cerchiamo di trovare situazioni di omogeneità, e la tecnologia e la globalizzazione ci aiutano in questo senso. Così si attiva il cosiddetto pregiudizio di conferma, un fenomeno studiato a fondo dalla psicologia cognitiva, secondo il quale tendiamo a cercare prove delle nostre convinzioni, utili a bocciare le teorie opposte. Una forma di autoinganno, atta a difendere i principi personali, i nostri valori e la nostra identità, e che tocca praticamente tutti, a prescindere dal nostro livello culturale e dalla nostra intelligenza.

Se la possibilità del singolo di censurare le voci discordi alla sua, se non proprio in tutti gli ambiti della vita almeno di quella online, non basta, sui social ci pensa un algoritmo a evitare incontri sgraditi. Questo fenomeno prende il nome di “eco chambers”: le notizie che leggiamo, i commenti che compaiono sulla nostra bacheca, i link e i banner che ci vengono suggeriti, tutto contribuisce a dare l’impressione di essere in una realtà omogenea. Per vedere quanto sia forte questo fenomeno basta provare a scambiare il proprio device con quello di uno sconosciuto, lasciando libero accesso ai suggerimenti di sistema e ai social: quello con cui si entra a contatto è una vera e propria realtà parallela, con notizie e link completamente diversi, estetica, modi di pensare e di rapportarsi diversi.

Quello che si vede sul proprio computer o smartphone è solo uno spicchio di quello che il sistema informatico e minime – e spesso inconsapevoli – decisioni personali ci permettono di vedere. I rischi di questo conformismo autoindotto e di questi mondi chiusi sono tanti. La mancanza di confronto, anche se inizialmente può avere dei vantaggi rispetto all’unità e alla coesione di un gruppo, a lungo andare genera gruppi di pensiero sempre più radicali e ossessivi. Non si tratta solo di pensare allo stesso modo, né di ostracizzare il diverso, ma proprio di vederlo cancellato dalla propria vita, in particolare da quella social, dove è molto più facile operare questa eliminazione. Questo tipo di comunicazione alimenta una visione parziale del mondo, e se una volta questa era una caratteristica imposta dal mondo, che poteva essere più o meno condivisa a livello intimo e personale, adesso è diventata una camicia di forza che indossiamo da soli.

Le soluzioni non sembrano molte, e in realtà sono tutte di facile realizzazione, una volta maturata la volontà di uscire dallo schema. Per il singolo, invece, si tratta di sforzarsi a entrare in contatto con situazioni diverse, di imparare a discutere, civilmente, con chi ha storie o opinioni opposte alle nostre, anche solo per poter comprendere un altro punto di vista – abilità rispetto la quale la scuola potrebbe giocare un ruolo fondamentale. E per quanto riguarda la struttura dei social in toto, criticata sempre più aspramente, anche dopo gli scandali politici che hanno coinvolto Facebook, gli iscritti alla piattaforma, così come gli Stati, potrebbero pretendere un cambiamento attraverso una legislazione più precisa – che al momento risulta ancora profondamente povera e in ritardo rispetto al fenomeno.

Quando alcuni utenti di Facebook si sono accorti che i post di molti “amici” non comparivano più in bacheca hanno fatto girare diverse catene di Sant’Antonio di protesta – risultate totalmente inutili dal punto di vista pratico, ma che hanno però sensibilizzato l’opinione pubblica sul problema. Tra queste catene quella che ho apprezzato di più diceva: “Facebook ti fa vedere sempre gli stessi venti amici? Vorresti vedere più gente? Esci e fatti un giro”. E mi sembra un ottimo punto di partenza per cambiare le cose.

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