Che il lavoro sia tutta la nostra vita è uno dei primi insegnamenti con cui sono cresciuto. Eppure, oggi, il senso di incertezza e disorientamento che mi accompagna da mesi mi sembra avere a che fare proprio col suo contrario. È una sensazione che, forse per non sentirmi il solo, più probabilmente per ciò che leggo e ascolto attorno a me, definisco “generazionale”, e che mi sembra abbia a che fare con il non riconoscermi più nel mio lavoro. O meglio, con il lavoro in generale. Abbiamo puntato così tanto sull’importanza sociale, culturale ed etica del lavoro – anche perché ci è stato detto che dovevamo farlo, che non esisteva alternativa – che quando ci siamo accorti collettivamente delle prime crepe del sistema neoliberista erano ormai diventate voragini, ci siamo ritrovati incapaci di spiegare cosa fosse successo davvero o di orientarci in autonomia verso nuovi significati. Io, per esempio, questo peso che il lavoro perde sempre di più, lo percepisco, ma non so ben spiegarlo, né trovarne l’origine, il momento zero. Sento mia madre desiderare di andare in pensione il più tardi possibile per la paura di non saper impiegare le giornate, e riesco solo a pensare che io ci andrei domattina, a trent’anni. Secondo le previsioni dell’Inps mi spetterebbe invece a settanta. E non è una questione di essere choosy o sfaticato: a lungo abbiamo creduto che, anche nel peggiore dei casi, anche quando faceva schifo, un lavoro ci desse un senso, uno scopo e una struttura alla vita, ma a me, semplicemente, non sembra più così.
Non sono l’unico. Secondo il rapporto Censis del 2023, il 64,4% degli occupati italiani ritiene che il lavoro serva “solo per avere i soldi” di cui si ha bisogno, una percentuale che sale al 76,6% considerando le persone con al massimo la licenza media. Un segnale del fatto che questo malessere sia più ampio di una prerogativa generazionale, anche se spesso oggi lavorare non basta più nemmeno per avere i soldi per vivere, considerata la flessione negativa dei salari e del potere d’acquisto, e la conseguente erosione della ricchezza del ceto medio, a cui si aggiunge l’obbligo, ancora per molti e molte, di dover svolgere tre o quattro occupazioni per poter comunque sopravvivere a malapena. Il lavoro ha smesso di adempiere alle sue promesse. “È plausibile che la differenza principale rispetto al passato non sia l’ansia che lasciare il lavoro genera, ma quella che avere un lavoro placa”, scrive la sociologa Francesca Coin ne Le grandi dimissioni. “Rispetto a quanto accadeva ieri, il fatto stesso di avere un impiego non risolve le preoccupazioni di chi lavora”. Il rifiuto di ciò che è diventato il lavoro nell’ideologia neoliberista, la sua trasformazione e la sua fine – o, almeno, la sua crisi – sollevano domande essenziali: Cosa faremmo della nostra vita se non dovessimo alzarci ogni mattina e andare in ufficio, in cantiere, in negozio, al ristorante, su un treno o in auto avanti e indietro, tutti i giorni? E che ne sarebbe del tempo, una volta che quello libero sarebbe il tempo di ogni giorno? Chi saremmo senza il nostro lavoro? Come cambieremmo, noi, le nostre comunità, se non dovessimo avere un’occupazione per guadagnare soldi per vivere? E soprattutto, riusciremmo a farlo o ci sembrerebbe di barare? Perché è vero, vogliamo tutti lavorare meno, ma saremmo in grado di smettere completamente?
L’insofferenza che ci spinge a volerci sottrarre dal sistema è anche un’opportunità creativa: ci permette di immaginare un mondo in cui il lavoro non costruisce più il nostro carattere, non determina i nostri redditi e non domina la quotidianità. Al di là del suo carattere utopico e degli strumenti effettivi con cui poterlo realizzare – un reddito di base universale e adeguato, la piena automazione, per esempio –, figurarsi una società libera dal lavoro salariato e dal peso che questo ha assunto con il capitalismo ci dà la possibilità di ripensare prima di tutto i nostri desideri e tempi, le nostre passioni e relazioni, il rapporto con noi stessi. Per settimane ho chiesto a ogni persona che incontravo come si sarebbe sentita e cosa avrebbe fatto davanti all’occasione di abbandonare per sempre l’obbligo di lavorare. Molte hanno risposto che viaggerebbero per il mondo, si dedicherebbero alla musica o alla propria famiglia. Altre userebbero il loro tempo facendo volontariato, sentendosi utili non più perché efficienti ma perché parte di un organismo più grande e collettivo. Qualcuno proverebbe vergogna o colpa, la stessa che si pretende provi chi è disoccupato o riceve sussidi sociali, o continuerebbero comunque a lavorare, facendolo non per sopravvivenza, ma per piacere, per voglia, per accrescimento. Il lavoro verrebbe cioè risemantizzato, tornando ad acquistare un senso profondo, e non potrebbe essere altrimenti. “Gli esseri umani hanno quasi certamente una qualche nozione di lavoro fin da quando hanno iniziato a utilizzare concetti, parole e idee per suddividere e strutturare la propria esperienza del mondo circostante”, spiega infatti l’antropologo James Suzman in Lavoro. Una storia culturale e sociale. “Come l’amore, la procreazione, la musica e il lutto, il lavoro è uno dei pochi concetti cui antropologi e viaggiatori riescono ad aggrapparsi ogni volta che si avventurano in terra straniera”.
A spaventare me, invece, è il tempo. Nell’ottica di raggiungere almeno l’età media di 81 anni, avrei oltre 440mila ore, quasi diciottomila giorni, da riempire. Uso questo termine, riempire, pur riconoscendone tutti i limiti, anche se non mi piace, perché nonostante sia sempre più insofferente al lavoro mi sento al contempo pienamente figlio della cultura che a lungo lo ha concepito come unico fulcro della vita, e di conseguenza il vuoto delle giornate mi spaventa. Non so più annoiarmi, ma mi alleno a provarci, per ricordare che sono già esistiti altri modi di vivere prima che il lavoro totale prendesse il sopravvento, anche se li abbiamo cancellati dalla memoria culturale. “Nei rapporti di produzione capitalistici, l’inazione ritorna come un fuori circoscritto. La chiamiamo ‘tempo libero’: servendo solo a rinfrancarsi dopo il lavoro, ecco che resta incatenata alla logica di quest’ultimo”, scrive Byung-Chul Han in Vita contemplativa o dell’inazione. Per il filosofo sarebbe invece proprio l’inazione una delle attitudini più preziose dell’esistenza, perché ci permette di vivere davvero, di tendere l’orecchio al mondo e tornare ad ascoltarlo, comprenderlo profondamente. “Non abbiamo più accesso alla verità, che si rivela solo all’attenzione contemplativa. Sopportiamo sempre meno la noia, e così si riduce anche la nostra capacità di fare esperienza”. Rinunciando alla capacità di annoiarci, però, perdiamo anche l’accesso a ciò che ne scaturisce, perché azione e inazione non sono opposti, ma l’una scaturisce dall’altra.
A beneficiare di un cambiamento di prospettiva sarebbe anche la creatività, oggi soggetta all’imperativo di essere utile e remunerativa, diventata parola d’ordine e rilanciata dagli esperti di business. Invece che un obbligo da inserire nel curriculum, potrebbe tornare a essere uno slancio intimo e personale, proprio come i nostri hobby. Convinti che fosse una fortuna trasformare i propri interessi in un’occupazione, ne abbiamo annullato il piacere fine a se stesso, rinunciando spesso anche al tempo libero, perché non c’è niente che possiamo fare di meglio se il lavoro è la nostra passione. Così, il vuoto ritornello del “trasforma la tua passione in un lavoro e non faticherai un giorno nella vita” si è tramutato in una condanna: “trasforma la tua personalità in un lavoro per lavorare sempre”. La postura e l’atteggiamento che assumiamo nel fare qualcosa per semplice interesse, infatti, sono diversi rispetto a quelli relativi agli obblighi. E, poi, oltre a viverle con un’attenzione nuova, resterebbe da capire quali sono le nostre vere passioni, a cosa vogliamo dedicare del tempo, una volta slegate dal lavoro. Nella società della prestazione, infatti, consapevoli o meno, ogni scelta è diventata una mossa strategica per auto-migliorarsi, eccellere, primeggiare, anche quelle più intime e private. Persino l’amore e l’amicizia si sono persi in questa trappola, che ci trova incapaci – o per meglio dire, impauriti – di entrare in contatto con l’Altro, di lasciarci vedere, alla ricerca costante di rapporti che possano elevare il nostro status sociale o essere più utili o migliori, invece che autentici, perché sembra sempre doverci essere qualcosa di meglio, anche se non sappiamo cosa.
Vivere così, è palese, ci sta sfinendo. In Italia il 70% dei lavoratori vive stress e burnout legati alla propria occupazione, e uno su due lo fa in silenzio, perché anche se negli ultimi tempi di salute mentale se ne discute più apertamente, parlarne, e in particolar modo parlarne sul lavoro, è ancora difficile perché ciò che è considerato una debolezza personale invece che un problema del sistema ci fa sentire ingranaggi difettosi e fuori posto di un meccanismo che invece richiede una perfezione e una prestazione costante. Ci ritroviamo più stanchi, ma anche più soli. Una delle ragioni per cui il lavoro modella in modo così potente le nostre vite, infatti, è anche che da adulti è sostanzialmente il modo principale che abbiamo per interagire con la società. Il capitalismo ci ha illuso che acquistando determinati beni o anche acquisendo determinati job title possiamo sentirci parte di una comunità. Ma se l’obbligo del lavoro decade dobbiamo trovare nuovi modi per stare insieme, partendo dal capire chi siamo e cosa ci muove al di là delle mansioni che svolgiamo. È qualcosa che in parte stiamo già sperimentando, quando con lo smart working o la settimana corta possiamo destinare più tempo alle persone e alle attività che ci interessano davvero. Smettendo in maniera assoluta di lavorare, con intere giornate a disposizione, dovremmo impegnarci nello sforzo di portare quella stessa postura anche nel mondo esterno e nei legami meno profondi, sostituendo alla performance la cura, come fonte del nostro agire.
“Ma cosa significa invocare la fine del lavoro?”, si chiedono il politologo Nick Srnicek e il sociologo Alex Williams in Inventare il futuro. “Con ‘lavoro’ intendiamo i nostri impieghi professionali, il lavoro salariato, il tempo e la fatica che cediamo a qualcun altro in cambio di un reddito. È un tempo di cui non siamo padroni. Un futuro post-lavoro non è un mondo di pigrizia: piuttosto, è un mondo dove le persone non saranno più schiave del lavoro salariato, ma libere di modellare le proprie vite”. Significa cioè recuperare la speranza che le nostre vite possano essere altro da ciò che sono diventate rispondendo al ricatto del capitalismo, ricostruendo il nostro sé in un intero, ormai mozzato e trasformato dallo sguardo degli altri e dalla loro interpretazione di ciò che la nostra occupazione dovrebbe dire di noi. Potremmo far fatica a immaginare una società fuori dalla logica neoliberista, pensare sia impossibile realizzarla considerato che richiederebbe i lunghi tempi necessari ai cambiamenti culturali invece che l’immediatezza che pretendiamo in ogni cosa. Eppure, a guardarla a lungo, è un’idea liberatoria: essere noi, solo noi, senza più lavoro.