Per la deputata repubblicana Mary Miller, il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, che ha eliminato le tutele costituzionali del diritto all’aborto, di fatto rendendolo illegale in almeno 26 Stati americani, è una “storica vittoria per la vita dei bianchi”. Lo ha affermato al comizio di Donald Trump Save America, accolta da grida di giubilo festanti. Oggi Miller si difende dalle critiche che le sono ovviamente piovute addosso: non intendeva dire “white life”, ma “right of life”, diritto alla vita. Che sia un lapsus o una frase intenzionale, queste parole svelano il terreno ideologico su cui si è mossa parte della battaglia contro l’aborto della destra conservatrice statunitense: non si tratta soltanto di riaffermare il tanto citato “diritto alla vita”, ma più in particolare il diritto a certe vite.
L’accesso all’aborto sicuro, infatti, è una questione razziale e di classe. Lo è in Italia, dove in molti casi ad abortire clandestinamente sono donne senza documenti che temono di essere schedate e rimpatriate se si recano in ospedale. Se verranno scoperte, infatti, ora che il reato è stato depenalizzato ed è diventato un illecito amministrativo, dovranno pagare una sanzione che arriva fino a 10mila euro. Ma ora lo è soprattutto negli Stati Uniti, dove è noto da tempo che l’illegalità dell’aborto colpirà in particolare le donne nere, indigene e latine, che avranno maggiori difficoltà a spostarsi in Stati in cui l’interruzione di gravidanza sarà ancora consentita. Ma l’aborto è una questione razziale e di classe anche nella sua opposizione, configurandosi come un progetto politico più vasto della semplice fede religiosa.
Le politiche antiabortiste si accompagnano alla preoccupazione dell’avvicinarsi di un “inverno demografico” e di una “grande sostituzione”, concetto che affonda le sue origini nel nazismo ma che è stata recentemente riportata in auge dall’accademico francese Renaud Camus. Secondo questa teoria, l’uomo bianco sta venendo progressivamente sostituito da un altro popolo, da un lato a causa del basso tasso di natalità delle popolazioni “occidentali” e dall’altro delle ondate migratorie. Uno dei principi fondamentali della cultura di destra è il nativismo, ovvero la convinzione che solo chi fa parte della nazione per ragioni di discendenza possa legittimamente abitare il territorio di uno Stato. Chiaramente, da questa categoria sono esclusi i figli dei migranti che, seppur nati sul territorio del Paese, non possiedono le caratteristiche identitarie – incluso il colore della pelle – adatte a essere identificati con la millenaria tradizione occidentale (cosa ancor più paradossale nel caso degli Stati Uniti, se si pensa che sono stati fondati da migranti).
Come spiega la teorica politica Giorgia Serughetti nel suo libro Il vento conservatore, in reazione all’inverno demografico, i partiti di destra attuano strategie come la difesa dei confini e la separazione etnico-razziale – non solo fisica, nei quartieri delle città, ma anche nell’accesso a determinati servizi pubblici – e si rifugiano in quello che la studiosa chiama “panico demografico”, una retorica martellante sull’“l’annientamento delle identità nazionali per la costruzione di un unico tipo d’uomo, risultato degli incroci delle «razze»” e “la distruzione della famiglia in favore della costruzione di una società di individui soli, sterili, anziani, manipolabili”. L’argine per contrastare questa deriva si traduce anche nell’adozione di politiche pro-nataliste, in particolare contro la pratica dell’aborto, responsabile – a detta degli antiabortisti – di 42 milioni e mezzo di morti l’anno.
L’espressione “inverno demografico” – che nasce proprio all’interno di questi ambienti e che quindi porta con sé una forte connotazione ideologica – è presente in molte delle leggi e delle delibere che le amministrazioni locali di destra stanno proponendo per ostacolare l’aborto in Italia. Quali figli debbano nascere per rimediare alla crisi demografica è chiaro: la popolazione migrante ha già tassi di fertilità maggiori rispetto alla popolazione autoctona e i suoi figli non sono comunque considerati italiani dalla legge, almeno fino ai 18 anni. L’aborto è un problema che sembra meno grave quando a commetterlo è una donna migrante, che vi ricorre sicuramente per “inciviltà”, a differenza delle donne bianche che vi ricorrono per “disperazione”, sempre secondo la retorica antiabortista. Le iniziative che si rifanno all’inverno demografico non riguardano esclusivamente le interruzioni di gravidanza, ma si accompagnano ad altre politiche per la “valorizzazione della famiglia”, che anche in questo caso può godere di questo privilegio solo a determinate condizioni.
La famiglia assume in quest’ottica un ruolo centrale non solo come forma di conservazione delle caratteristiche nativiste (quelle di sangue in primis), ma anche del patrimonio. Non è possibile infatti separare questa visione del mondo familistica dalla necessità di conservare e tramandare la ricchezza. Questa visione è condivisa anche dai gruppi antiabortisti e anti-LGBTQ+ che, richiamandosi alla “legge naturale” su cui il matrimonio eterosessuale si fonda, con essa fanno riferimento anche alla proprietà privata, con un nesso stabilito per la prima volta dal papa Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum del 1891. Il papa definì la proprietà privata un “diritto naturale” al pari della famiglia, “una società retta da potere proprio, che è quello paterno”.
I richiami alla legge “naturale” – con cui in realtà si intende quella divina – sono molto frequenti nella retorica antiabortista. Il documento programmatico di Agenda Europe – una delle più importanti lobby antiabortiste presenti nelle istituzioni europee – è significativamente intitolato “Ristabilire l’ordine naturale” e delinea una strategia per “fermare il declino della civiltà dell’Occidente e rovesciare la Rivoluzione Culturale”. “Abbiamo una finestra temporale ristretta da dieci a venti anni”, si legge nel documento, “Se non [la] usiamo, allora la civiltà occidentale, per aver abbracciato un’ideologia perversa, potrebbe facilmente essersi autodistrutta”. Il primo e più importante obiettivo del gruppo è quello di contrastare l’aborto. Considerando che la sede dei suoi summit in passato è stata quella di Ordo Iuris, l’istituto giuridico che ha scritto le leggi che hanno vietato l’aborto in Polonia, si può dire che siano sulla buona strada.
L’idea che esista un ordine naturale immutabile e preesistente è un’ottima carta da giocare sul piano retorico, perché può poggiare su idee vaghe ma radicate nell’immaginario come quello delle “nostre tradizioni” o della “millenaria cultura giudaico-cristiana”, che sarebbero ormai accerchiate dal progressismo armato da una volontà distruttrice. Il commento di Trump alla pronuncia della Corte Suprema è stato che “Dio ha preso questa decisione”. Non è una semplice manifestazione di fede, ma è un’affermazione in perfetta continuità con il progetto reazionario della destra che rappresenta. Il giudice Clarence Thomas, il più conservatore della Corte Suprema, ha già detto che il prossimo passo sarà rivedere altre sentenze della Corte che si basano sulle stesse garanzie su cui poggiava la Roe v. Wade: contraccezione e matrimonio tra persone dello stesso sesso, considerati altri ostacoli del progetto nativista.
Anche se erano anni che ci si preparava a questo momento, le notizie arrivate dagli Stati Uniti hanno scioccato molte persone, che non pensavano fosse davvero possibile che un diritto garantito da cinquant’anni potesse essere portato via dal giudizio di sei persone. I segnali di una svolta conservatrice sui diritti riproduttivi d’altronde si potevano cogliere anche nei discorsi razzisti, nelle politiche migratorie più disumane e nella retorica nazionalista. Una società chiusa, infatti, non può accettare l’autonomia e la libertà delle donne rispetto al controllo dei loro corpi, ma ha bisogno di reprimerle il più possibile, per di più perché sono considerate le dirette responsabili del calo demografico. Non importa se questo scivolamento verso l’integralismo somiglia a quello che quegli stessi politici usano come uno spauracchio per imporre politiche securitarie, chiudere i confini e reprimere le libertà personali. Tutto si giustifica con la difesa dei “nostri valori”. Vale la pena allora chiedersi se i “nostri valori” stanno diventando quelli dell’oppressore.