Perché indire lo sciopero del sesso per combattere il maschilismo non ha senso

Il 10 maggio scorso con un tweet l’attrice statunitense Alyssa Milano ha chiamato tutte le donne a uno sciopero del sesso fino a che non saranno rispettati i loro diritti riproduttivi. Si tratta di una reazione di protesta contro le recenti leggi antiabortiste approvate in Alabama – dove entrerà in vigore una delle più restrittive in materia, prevedendo l’interruzione di gravidanza solo in caso di serio pericolo per la salute della donna, e non in caso di stupro, e punendo i medici che la praticano con pene fino a 99 anni di prigione – e in altri Stati del sud degli Stati Uniti, dove il battito cardiaco del feto sarà il limite temporale oltre cui non sarà permesso interrompere la gravidanza. Dato che è possibile individuare in un feto quello che sarà poi il suo cuore formato già a partire dalla sesta settimana, di fatto l’aborto sarà vietato da un momento della gestazione in cui moltissime donne non sanno ancora nemmeno di essere incinte, di fatto impedendolo tout court

Come è stato ricordato, non è forse casuale che quegli stessi Stati statunitensi che premono per un ritorno al passato siano gli stessi che fino a pochi decenni fa, nell’ambito della segregazione razziale, praticavano la sterilizzazione forzata delle donne nere e relegavano le bianche al ruolo di angeli del focolare. Per gli Stati Uniti si tratta di un salto nel passato assecondato dall’amministrazione Trump, ma la situazione non è migliore in Europa, come ha dimostrato la Polonia, dove l’anno scorso migliaia di donne sono scese in piazza brandendo delle grucce, cupo simbolo degli aborti clandestini dei secoli scorsi, per protestare contro una delle leggi più severe del continente che rischiava di essere ulteriormente inasprita. Anche il recente Congresso Mondiale della Famiglia di Verona, dove si distribuivano gadget di gomma a forma di feto, è stato un campanello di allarme. Se manifestare per fermare quest’ondata di oscurantismo retrogrado è necessario e doveroso, è controproducente farlo in nome delle donne usando una strategia che gioca contro di loro. 

Manifestanti al Congresso mondiale delle famiglie di Verona, 2019

Nell’omonima commedia di Aristofane, l’ateniese Lisistrata convince le sue concittadine e le donne di altre città a unirsi in uno sciopero del sesso per mettere fine alla guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e, dopo varie discussioni e difficoltà, riesce a costringere gli uomini a firmare la pace. La commedia ha dato origine a diverse opere con un soggetto simile, tra cui il film Chi-Raq di Spike Lee, in cui la scena è trasferita tra le gang della Chicago dei nostri giorni, e La sorgente dell’amore di Radu Mihaileanu, ambientato in Nordafrica. Ma il contesto di cui Lisistrata fa parte è la società ateniese del quarto secolo avanti Cristo, dove i diritti femminili sono scarsi, le donne completamente escluse dalla vita cittadina e dalla discussione politica e non hanno altro modo per farsi sentire pubblicamente che utilizzare come strumento di propaganda la propria vita privata e l’intimità dei propri letti. Le donne della commedia aristofanea non chiedono parità, ma vogliono soltanto la fine della guerra: per questo il mezzo che impiegano per ottenerla non stride, ma anzi si chiarisce, con il contesto. Nella commedia le donne all’inizio non sono convinte dalla proposta di Lisistrata perché non vogliono privarsi loro stesse del piacere sessuale: l’autore, quindi, che pure è un uomo del suo tempo, contempla in una certa misura la possibilità per le donne di partecipare a un’intimità appagante. 

Oggi ci si rifà a episodi più vicini nel tempo per dimostrare come scioperi analoghi funzionino, come nel caso dello “sciopero delle gambe incrociate” indetto una decina di anni fa dalle fidanzate dei membri di alcune gang criminali colombiane, accusati di rendersi protagonisti di episodi di violenza per affermare la propria virilità. L’accostamento con lo sciopero del sesso indetto da Alyssa Milano è però fuori luogo per almeno due motivi: innanzitutto perché quell’episodio fa parte del contesto machista delle gang latinoamericane, in cui si inserisce coerentemente, e poi perché l’idea che quelle donne volevano veicolare era “la violenza non è sexy”, per cui il mezzo impiegato era funzionale al messaggio. 

Alyssa Milano di fronte alla Corte Suprema, Washington, 2018

Non è la prima volta nella storia che qualcuno indice, sbagliando, uno sciopero del sesso come forma di protesta in nome del femminismo. La proposta di Alyssa Milano sembra confermare la retorica sessista secondo cui gli uomini sono fruitori di sesso, mentre le donne “si concedono” a chi se lo merita. Non solo non scalfisce in alcun modo la narrazione che cataloga le donne come sante o puttane e che considera parte della natura maschile cedere alle tentazioni e alle provocazioni, ma la conferma, considerando il sesso alla stregua di merce di scambio con cui negoziare i propri diritti. 

“Il privato è politico” vale ancora, ma non deve tradursi in un ricatto in cui si dà per scontato che le donne, non facendo più sesso coi propri partner (uomini, si presume), li convincano a perorare la loro causa. È un insulto sia per le donne, concepite come manipolatrici e prive di desiderio verso l’attività sessuale, che per gli uomini, considerati incapaci di maturare opinioni etiche e politiche liberi dall’influenza dei loro organi sessuali.

Le vittime di tutta la situazione sono sempre le donne, incolpate di assassinio se decidono di abortire. Le attiviste femministe Florynce Kennedy e Gloria Steinem sintetizzavano così l’ingiustizia di questa visione distorta: “Se gli uomini potessero concepire, l’aborto sarebbe un sacramento”. Purtroppo, questo non significa che tutte le donne siano favorevoli al diritto di scelta: è una donna Kay Ivey, la governatrice dell’Alabama che ha firmato la legge. Per fortuna, non significa nemmeno che tutti gli uomini siano contrari al diritto di aborto, ma la proposta di Alyssa Milano – forse perché, per sua stessa ammissione, suscitata dalla rabbia del momento – non ne tiene conto, riducendo l’intero dibattito a una contrapposizione di uomini contro donne. Nel 2019 è sconfortante, ma a quanto pare necessario, dover ancora ribadire che “femminista” e “femmina” non sono sinonimi come non lo sono “maschilista” e “maschio”.

Le femministe Ti-Grace Atkinson, Flo Kennedy, Gloria Steinem e Kate Millet, 1977

Invece che proclamare uno sciopero del sesso, si potrebbe rifiutare di svolgere tutti quei compiti che ancora troppo spesso ricadono solo sulle spalle delle donne, come la gestione della casa, dei pasti quotidiani e delle pulizie. Sarebbe uno sciopero più sensato, in cui le donne non dovrebbero rinunciare a quella che è un’attività piacevole da fare quando e con chi si desidera, ma andrebbero a intervenire su attività della vita quotidiana che dovrebbero essere condivise e che sono tanto più pesanti, fisicamente e psicologicamente, se svolte da una sola persona. Con uno sciopero simile anche chi non ne ha la percezione si renderebbe conto di quanto nell’intimità delle famiglie siano ancora pesanti gli squilibri di genere. Inoltre si devono organizzare manifestazioni che riempiano le piazze e che siano partecipate, anche dagli uomini, e arricchite da testimonianze di donne che hanno voluto o dovuto abortire, mentre ai sit-in davanti a cliniche e ospedali devono partecipare più medici e ginecologi. Il controllo sulla propria sessualità non si esercita rinunciandovi e utilizzando il proprio corpo come merce di scambio per ottenere qualcosa – i diritti umani – che dovrebbe essere dato per scontato. 

Forse Alyssa Milano ha prodotto l’effetto in cui sperava, facendo parlare di diritti riproduttivi e di scelta sempre più offesi e calpestati, ma con il pericoloso risultato – controproducente perché rischia di mettere in ridicolo per incoerenza chi chiede la fine di questa situazione vergognosa – di aver spostato l’attenzione dall’oggetto dei diritti negati alle modalità  poco femministe di rivendicarli. 

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