400 anni dopo la tratta degli schiavi, dobbiamo decolonizzare l’Africa dai nostri pregiudizi

In occasione del quattrocentesimo anniversario della tratta degli schiavi di origine africana verso le Americhe, la deputata statunitense Ilhan Omar, insieme a una delegazione organizzata da Nancy Pelosi di colleghi perlopiù afroamericani, ha visitato il Ghana. Dopo aver visto alcuni dei luoghi in cui venivano fatti prigionieri, i deputati si sono soffermati nel castello di Cape Coast, dove i futuri schiavi venivano radunati prima di attraversare l’Atlantico sulle navi negriere. Proprio di fronte alla “Porta del non ritorno” (Door of No Return) – soglia da cui gli schiavi uscivano, per non fare mai più ritorno in Africa  – Omar ha risposto agli attacchi ricevuti di recente da Trump, che durante uno dei suoi comizi aveva istigato il suo elettorato a gridare send her back (rimandala da dove è venuta). La deputata democratica ha deciso di tenere fede all’invito, “tornando” nel suo continente di origine per questa commemorazione simbolica.

Ilhan Omar

Il ritorno alle origini è comune per un Paese come il Ghana, che si è reso artefice di numerose iniziative per favorire visite turistiche e gite, agevolando anche eventuali trasferimenti permanenti, per le persone della diaspora africana – ossia tutti coloro che si sono ritrovate da un’altra parte del mondo a causa della tratta degli schiavi o delle politiche coloniali. La diaspora ha comportato per molte persone la perdita, generazione dopo generazione, di qualsiasi ricordo o connessione con il continente di origine. Una di queste iniziative promosse dallo Stato ghanese è Year of Return, l’Anno del Ritorno celebrato in occasione dell’anniversario della tratta, che affianca alle commemorazioni per l’arrivo dei primi schiavi a Jamestown, in Virginia, una riflessione sull’importanza della resistenza delle vittime della tratta transatlantica, sparpagliate dall’America all’Asia. L’idea del ritorno alle origini fu promossa in particolare dall’ex presidente ghanese Kwame Nkrumah, sostenitore del movimento panafricanista. Le idee del movimento furono centrali tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, favorendo la decolonizzazione e il processo che portò all’indipendenza del continente africano.

Cape Coast Castle, Ghana

Non è un caso che da qualche anno il Ghana sia diventato una meta ambita per gli afroamericani e gli afrocaraibici in cerca delle proprie origini, molti dei quali al termine del viaggio decidono di trasferirsi in modo definitivo nella capitale Accra. Il Ghana è uno dei Paesi africani che più sta facendo tramontare lo stereotipo del continente africano come luogo di povertà, bambini denutriti e senza un futuro. Secondo il Fondo monetario internazionale, l’economia del Ghana sta crescendo a ritmi sorprendenti, anche grazie a una presenza sempre più massiccia di donne nell’ambito dell’imprenditoria, cosa che ha permesso all’amministrazione ghanese di mettere in campo politiche efficaci per abbassare il livello di povertà della popolazione.

Nonostante questi fatti, l’Africa è ancora vittima di un bombardamento di spot pubblicitari che sbattono bambini malnutriti e tristi sullo schermo, favorendo una narrazione a senso unico che la descrive come incapace di risollevarsi da sola e in perenne attesa di aiuto, in particolare occidentale. Non c’è nulla di male nel volontariato ed è ovvio che ci siano organizzazioni che si occupano di portare aiuto nelle zone di instabilità o di estrema povertà. Tuttavia non sono rare le volte in cui il volontariato diventa volonturismo, un volontariato di facciata che serve solo per autocompiacersi con la foto di qualche bambino preso in braccio da pubblicare sui propri social network. La tendenza a mostrarsi come salvatori degli africani bisognosi, al posto di fornire informazioni sul contesto in cui si opera è anche noto come white saviour complex, il complesso del salvatore bianco. Spesso i volonturisti scelgono di proposito le zone più povere del continente non perché bisognose di assistenza, ma perché più ricche di occasioni per farsi un selfie con un bambino malnutrito. Senza neanche avere la decenza di oscurare i volti dei minori.

Questa degenerazione del volontariato è stata approfondita da Niccolò Govoni – volontario e fondatore di una scuola per bambini rifugiati in Grecia. In un Ted Talk, Govoni si è chiesto: “Potremmo farlo qui? Accetteremmo qui [in Italia] un volontario indiano senza qualifiche, senza supervisione, in una delle nostre scuole, con i nostri bambini? Se la risposta è no, perché noi [occidentali] possiamo farlo nel terzo mondo?”. Non sono rare le volte in cui persone occidentali, pur non avendo alcuna qualifica né preparazione, partono con lo spirito del supereroe e la presunzione che essere nati in Occidente basti per capire le problematiche e la complessità di altri Paesi. Un caso estremo e pericoloso è stato quello della missionaria statunitense Renee Bach, fondatrice di Serving His Children: dopo il trasferimento in Uganda, si presentava come medico nonostante non avesse mai frequentato l’università – indossando un camice e uno stetoscopio – per curare i bambini malnutriti. A seguito della morte di diversi pazienti che aveva in cura, alcune madri dei bambini e la Women’s Probono Initiative, hanno denunciato l’attività dell’organizzazione a inizio 2019.

Un altro esempio recente di white saviour complex è la notizia pubblicata da La Repubblica di un parco giochi inclusivo per bambini con disabilità costruito in Tanzania grazie a un’organizzazione di volontariato calabrese. Il parco giochi è stato descritto come “l’unico del genere in tutta l’Africa”, ma non è così. Ci sono molti esempi di scuole elementari inclusive per bambini con disabilità, fisica o intellettiva, in Sud Africa; in Nigeria con la Little Beginnings Academy di Lagos; in Ghana con la Multikids Inclusive Academy di Accra e una lunga lista di scuole accessibili in molte città del Paese.

Anche quando si parla di ambiente e cambiamento climatico, i riflettori sono puntati principalmente sulle iniziative occidentali, lodando soltanto singole iniziative di volontariato e ignorando invece i programmi autoctoni, spesso più lungimiranti. Ad esempio, nell’Ondo Kingdom, in Nigeria, è stato fondato il Green Institute Campus: per il suo presidente Adenike Akinsemolu l’obiettivo non è solo quello di rendere i giovani più consapevoli e responsabili sulle tematiche ambientali, ma anche fare in modo che diventino il motore del cambiamento sociale del Paese. I corsi a disposizione permettono di ottenere delle “nano degrees”, certificazioni per studenti universitari che vogliono acquisire o rafforzare competenze negli ambiti dello sviluppo sostenibile, delle scienze e del cambiamento climatico. La Nigeria non è il solo Paese ad avere chiara l’importanza dell’emergenza ambientale. A fine luglio, in Etiopia, sono stati piantati 353 milioni di alberi in meno di dodici ore grazie all’impegno del primo ministro Abiy Ahmed Ali e alla campagna Green Legacy che ha sede nella capitale Addis Abeba.

Abiy Ahmed Ali

Non si può quindi pensare che i migranti che vediamo arrivare in Europa siano l’unico volto di un continente dalle mille sfaccettature e in piena espansione su tutti i fronti. Lo dimostra, ad esempio, il progetto African Continental Free Trade Area, promosso dall’Unione Africana con l’obiettivo di creare un’area comune di scambio in tutto il continente, favorire la produzione locale e ridistribuire i guadagni che al momento sono quasi un monopolio di multinazionali estere e Paesi terzi. Questo è il primo passo di un progetto che richiederà in futuro anche una redistribuzione della ricchezza e maggiori investimenti nel welfare, a patto che i leader africani riescano a trovare un modo per collaborare tra loro.

A ciò si aggiunge l’introduzione di un passaporto panafricano che semplificherebbe gli spostamenti interni al continente. Al contrario di quanto ripetono quotidianamente alcuni politici, non è vero che “tutta l’Africa viene in Italia”, dato che la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana si sposta in altri Stati del continente. Il presidente ghanese Nana Akufo-Addo, durante un incontro all’Eliseo con il presidente francese Emmanuel Macron a cui erano presenti quattrocento discendenti della diaspora africana, ha affermato che è tempo che l’Africa cambi approccio con l’Europa: la relazione che si è instaurata tra i due continenti ha da sempre reso l’Europa più ricca e danneggiato l’Africa. Oggi non solo è necessaria una relazione più equa e giusta, ma che i vari Stati del continente africano prendano in mano il proprio destino, utilizzando le loro ricchezze per garantirsi sviluppo e benessere.

Questioni socio-politiche a parte, sembra quasi che non possa esistere un’Africa abitata da giovani come noi che vanno al cinema, ai concerti, ai festival e che conducono una vita normale come in ogni altro continente. Dell’Africa si mettono in evidenza quasi solo lati negativi. Artisti come Burna Boy, Tiwa Savage, Wizkido Yemi Alade, cantanti nigeriani del genere afrobeat di fama internazionale che sono stati perfino inclusi nell’ultimo album di Beyoncé, stanno abbattendo numerosi stereotipi sulla percezione che si ha di Africa e “africani”. Anche il cinema sta dando il suo contributo, come nel caso di Nollywood, la principale industria cinematografica nigeriana che ha lanciato Genevieve Nnaji – protagonista e regista del film Lionheart, primo film nigeriano acquistato da Netflix.

Quando si parla di Africa cediamo ancora troppo facilmente a uno stereotipo: è vero che esistono ancora aree dominate da povertà e instabilità, ma questi non sono gli unici aspetti esistenti e, soprattutto, non sono aspetti che possono descrivere un continente così vasto e complesso. Serve un radicale cambio di approccio nel parlare di Africa. Come ha affermato la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie,  la conseguenza di un’unica narrazione è la privazione di dignità e la disumanizzazione di interi popoli.

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