Amiamo assistere alla sofferenza altrui ed esserne artefici, ci illudiamo sia giustizia ma è invidia - THE VISION

A tutti, prima o poi, è capitato almeno una volta nella vita di provare piacere di fronte al disagio di un altro. Non è qualcosa di cui andare fieri, o facile da ammettere, eppure è un impulso che sembra essere innato. Per quanto esecrabile, l’attrazione che proviamo nell’osservare gruppi di persone in condizioni di difficoltà o patimento è la causa del successo di contenuti televisivi che fanno leva sull’emotività degli spettatori attraverso la pornografia del dolore. Per portare alla luce questa tendenza, e denunciare la deriva della televisione e dei media contemporanei, la scrittrice belga – naturalizzata francese – Amélie Nothomb ha pubblicato nel 2005 il romanzo Acido solforico.

Nothomb è nota per i suoi romanzi provocatori, acuti e cinici, che senza ipocrisia o  intento pedagogico rivelano i sentimenti più biechi che ci popolano. In Acido solforico la scrittrice abbandona il suo sarcasmo per realizzare, attraverso una narrazione parossistica, una metafora di certe dinamiche televisive spietate, che monopolizzano i palinsesti e raccolgono grande consenso di pubblico. Acido solforico, infatti, è ambientato all’interno di un reality intitolato Concentramento, dove un gruppo di malcapitati, reclutati a caso tra la gente comune, viene rinchiusa in un luogo ispirato ai campi di sterminio nazisti. I protagonisti del reality – le vittime – vengono privati del nome di battesimo e identificati attraverso un numero inciso sul corpo; in seguito al processo di spersonalizzazione, poi, sono costretti a subire torture fisiche e psicologiche da parte dei cosiddetti kapò, anch’essi scelti tra le persone comuni. L’unico scopo del gioco, in Acido Solforico, è la violenza al fine di intrattenere gli spettatori, e non è un caso che i kapò vengano selezionati in base a un unico requisito: la totale indifferenza di fronte alla crudeltà e alle ingiustizie perpetrate. Se infatti, all’interno del reality descritto da Nothomb, le vittime non hanno alcuna colpa, i kapò sono esseri privi di qualunque virtù. Il meccanismo del reality fa centro in breve tempo: da un lato ci sono innocenti vessati e talvolta uccisi, dall’altra spettatori irresistibilmente attratti dallo spettacolo della violenza che fanno la fortuna della trasmissione.

Sulle motivazioni che portano l’essere umano a essere attratto dallo spettacolo della sofferenza e della sfortuna altrui, sono stati condotti diversi studi e, per descrivere il fenomeno, è stato scelto il termine tedesco Schadenfreude. Questa parola composta deriva dalla crasi di Schaden, che significa “disgrazia”, e Freude, “gioia”, e indica la combinazione di curiosità morbosa e appagamento che si prova nel vedere qualcuno fare una figuraccia, mettersi in una situazione di difficoltà o pericolo, o addirittura provare disperazione e soffrire. Benché moltissime lingue abbiano una parola specifica per descrivere questo sentimento, il termine tedesco si è imposto soprattutto nel linguaggio scientifico ed è spesso usato come prestito linguistico. Ma in realtà già Aristotele aveva coniato una parola per descrivere questo sentimento: epikairekakìa, da epikàiro, “rallegrarsi”, e kakìa, “cattiveria” o “sventura”. Esiste poi per l’italiano aticofilia, vocabolo di origine greca che indica una sensazione affine a quella descritta dal termine tedesco.

Tra gli studiosi che hanno indagato recentemente la natura e le cause della Schadenfreude c’è la storica Tiffany Watt Smith nell’omonimo libro Schadenfreude. Nel saggio, l’autrice spiega i meccanismi psicologici che stanno alla base di questo sentimento, inutilmente spietato quanto difficile da tenere a freno. In Schadenfreude, Watt Smith spiega che il piacere per le disgrazie altrui scaturisce innanzitutto da un sentimento di rivalsa e dalla voglia di ristabilire una situazione di equilibrio: se l’altro, che noi reputiamo più fortunato di noi, ha una defaillance o addirittura soffre, noi ne beneficiamo per un senso di giustizia. Siamo dunque colti dal sollievo poiché siamo incapaci di ricavare appagamento dalla nostra vita e, di conseguenza, la ricerchiamo nei patimenti dell’altro, come se questi patimenti regolassero i conti e riducessero la nostra invidia. L’invidia, dunque, scaturirebbe dalla convinzione che il benessere dell’altro sia immeritato, frutto di una fortuna cieca e ingiusta.

“Veder soffrire fa bene” scriveva Nietzsche, mentre un detto giapponese ci ricorda che “La sfortuna degli altri è dolce come il miele”. Per questo, secondo Watt Smith, tutti prima o poi ci sentiamo allietati per l’umiliazione subita da uno sconosciuto, o ci esaltiamo dinanzi all’incompetenza altrui, o ancora proviamo una sorta di soddisfazione nel veder smascherati gli ipocriti. Non possiamo infatti tenere a freno l’impulso di paragonarci a chi ci circonda e di cercare di prevalere sugli altri, e il modo più facile per sentirci superiori è essere testimoni dei loro fallimenti. La consideriamo un’attività puramente contemplativa, in cui non abbiamo un ruolo attivo; ciononostante ce ne vergogniamo, allora proviamo a scagionarci considerandola una sorta di rivincita, per noi e il nostro senso di inadeguatezza. Per quelle nostre vulnerabilità e debolezze che non vogliamo accettare.

11 settembre 2001, New York

Come scrive Wilco Van Dijk, docente ed esperto di psicologia applicata al sociale, nel suo saggio del 2016, anch’esso intitolato Schadenfreude: “A volte chiamiamo in causa la giustizia per spiegare a noi stessi la gioia, anche se a qualche livello sappiamo che si tratta in realtà di invidia”. Gli studi condotti da Watt Smith e Van Dijk rispondono a una domanda che, già nel 1650, si faceva il filosofo Thomas Hobbes in Elementi di legge naturale e politica, chiedendosi “da che passione deriva il fatto che gli uomini traggano piacere dal contemplare, dalla riva, il pericolo di coloro che sono in mare durante una tempesta?”. Un piacere che secondo il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer rivela tutta la crudeltà di cui gli uomini sono capaci, ma che è sintomo anche di una scarsa conoscenza di se stessi. 

Come sostiene la dottoressa Grazia Aloi, esperta in psicologia clinica, chi prova Schadenfreude è spesso incapace di guardarsi dentro e instaurare un dialogo interiore onesto, non ha raggiunto una maturità psicologica e affettiva, ha scarse capacità relazionali e difficoltà nel sopportare frustrazione e sofferenza. Questa condizione, però, non è irrimediabile e il primo passo per imparare a gestirla è prenderne consapevolezza senza trincerarsi dietro l’ipocrisia. Alla base della Schadenfreude ci sarebbe infatti una spiegazione scientifica: come dimostra uno studio dello psichiatra Hidehiko Takahashi – condotto sfruttando la risonanza magnetica funzionale – quando si assiste al dolore altrui si libera dopamina, di conseguenza ci sentiamo subito più felici.

2005, New Orleans

Oltre a constatare l’esistenza della Schadenfreude, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche sosteneva che cagionare sofferenza fosse ancora più piacevole che assistervi passivamente. Un’affermazione che trova riscontro nel romanzo di Nothomb. Il reality-show Concentramento, infatti, raggiunge l’apice del successo quando gli organizzatori prendono una decisione: sarà il pubblico, attraverso il telecomando, a decidere chi dei protagonisti verrà ucciso, dopo essere stato sottoposto a brutali sevizie. Agli spettatori vengono consegnati pieni poteri, viene appagato il loro bisogno di piena affermazione sui propri simili e, con questo espediente, li si tiene definitivamente incollati allo schermo.

Il nostro mondo, sempre più lontano dall’informazione e dall’approfondimento e affezionato a un genere di intrattenimento che fa leva proprio sulla Schadenfreude, vede a sua volta concorrenti pieni di sogni che vengono mortificati da esperti chiamati a giudicarli; personaggi più o meno noti abbandonati su isole deserte, prostrati dalla fame e dall’assenza di igiene; vip in preda a crisi d’ansia o a incontrollate reazioni di rabbia, a causa della convivenza forzata e della mancanza di privacy, spiati ventiquattr’ore su ventiquattro per mesi e mesi; o ancora lacrime di donne e uomini affranti perché il proprio partner li ha traditi o abbandonati in diretta tv. Tutti esempi, questi, di fatica e sofferenza non mostrati per indagarne le cause profonde ma, proprio come accade nel romanzo di Nothomb, per intrattenere gli spettatori, colti da un’innata Schadenfreude.

Questo stato emotivo, che raramente siamo disposti ad ammettere di provare, infatti, ci impedisce spesso di agire in modo etico. La Schadenfreude è un sentimento dannoso non solo per gli altri, ma anche per noi stessi: da un lato ci procura senso di colpa e vergogna diminuendo la nostra autostima; dall’altro ci impedisce di provare empatia. Se per sentirci meglio abbiamo bisogno di sapere che gli altri sono inferiori a noi, o più svantaggiati, stiamo perdendo di vista il senso dell’appagamento, che dovremmo cercare solo ed esclusivamente nel nostro agire. Piuttosto che continuare a nutrirci del dolore e dei fallimenti altrui, dovremmo capire che soddisfare questo impulso non accresce le nostre qualità, ma ci fa somigliare sempre di più a degli aguzzini famelici, ipnotizzati dallo spettacolo disumano che non riescono a smettere di contemplare.

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