Perché i Savoia dovrebbero chiedere scusa al Sud per quello che gli hanno fatto - THE VISION

Quando si parla di Unità d’Italia, e in particolare delle conseguenze per il Meridione, spesso c’è la tendenza a semplificare una vicenda complessa. Da un lato troviamo la versione asettica e schematizzata di dati e personaggi del nostro Risorgimento dei libri di scuola, che tralascia di approfondire l’impatto negativo dell’annessione del Meridione ai domini dei Savoia. Dall’altra c’è la mistificazione inversa, con i neoborbonici che oggi per ideologia o calcolo politico descrivono il Regno delle due Sicilie prima dell’annessione come un Eden ottocentesco, ricco e florido sotto la guida di Francesco II di Borbone. Come insegna chi di storia si occupa con serietà, la realtà è molto più complessa e sfaccettata.

Prima del 1861 l’economia italiana era ancora prevalentemente agricola, molto indietro nel processo di industrializzazione rispetto alle grandi potenze europee. Anche al Nord le industrie erano ancora poche, ma nonostante questo erano già evidenti delle differenze con il Meridione. Secondo le rivisitazioni dei nostalgici neoborbonici, nel Regno delle due Sicilie si pagavano meno tasse: vero, ma di conseguenza l’amministrazione pubblica poteva garantire ai suoi sudditi meno servizi e una peggiore qualità della vita. Le poche imposte venivano trattenute – specialmente nel Banco di Napoli – o riservate al mantenimento della corte, dell’esercito e della flotta (il 40% del bilancio totale era rappresentato dalle spese militari).  

Nonostante il Regno delle due Sicilie sia stato il primo Stato italiano a inaugurare una linea ferroviaria nel 1839 con la Napoli – Portici, al momento  dell’Unità d’Italia in tutto il Sud c’erano 184 chilometri di binari, concentrati solo nel territorio campano, mentre nel resto del Paese i chilometri erano già 1801. Secondo lo storico e politico Giustino Fortunato, uno degli alfieri del meridionalismo, il Regno delle due Sicilie non era affatto il paradiso descritto dai neoborbonici, tanto da scrivere che “Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite. Erano più lievi e assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi. L’esercito assorbiva tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente”. 

Inaugurazione della linea ferroviaria Napoli-Portici di Salvatore Fergola, olio su tela, 1839

Un’altra differenza si giocava sul tasso di istruzione: al Nord l’analfabetismo riguardava il 45% della popolazione, mentre nel Meridione in nessuna regione scendeva sotto l’80%. Inoltre il governo borbonico portava avanti una politica legata ancora a diritti feudali sui terreni comunali, e a dominare erano i latifondisti. Non esisteva una classe borghese se non nei grandi centri urbani e commerciali come Napoli e Palermo, e l’antica nobiltà di derivazione feudale non riusciva a liberarsi nella maggior parte dei casi di una visione legata all’ancien régime, incapace di vedere i vantaggi di una popolazione istruita e con una migliore condizione di vita . Per lo storico Denis Mack Smith, “Un contadino della Calabria aveva ben poco in comune con un contadino piemontese; queste due metà del Paese si trovavano a due livelli diversi di civiltà. I poeti potevano pure scrivere del Sud come del giardino del mondo, la terra di Sibari e di Capri, ma di fatto la maggior parte dei meridionali viveva nello squallore”.

Checché ne dicano i nostalgici di un’epoca che non hanno mai vissuto, i problemi del Meridione non sono collegati alla nascita del Regno d’Italia, ma al modo in cui Sud è stato annesso al Nord; il periodo post unitario poteva rappresentarne un rilancio, ma ha acuito ancora di più le differenze tra gli antipodi della Penisola. Innanzitutto venne esteso a tutti i cittadini del regno lo Statuto albertino, vigente dal 1848 nel regno di Sardegna, e Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia. L’errore fu quello di non comprendere le profonde diversità territoriali, uniformandole sotto un’unica legislazione. Il nuovo Stato unitario incamerò i debiti dei Regno di Sardegna – che a differenza di quello borbonico spendeva fino al passivo di bilancio – e prelevò i fondi del Banco di Napoli per appianarlo. Il Sud utilizzò i suoi fondi per ripagare i debiti del Nord, ma senza avere in cambio dei servizi adeguati, anche per una iniziale scarsa rappresentanza politica e istituzionale nel neonato governo unitario. Il voto all’epoca si basava sul censo, e alle prime elezioni del 1861 tra i cittadini che un tempo facevano parte del Regno delle due Sicilie, circa 10 milioni, appena 130mila furono ammessi al voto, contro gli oltre 400mila del Nord. I deputati eletti al Sud rappresentavano quindi le esigenze dei proprietari terrieri, e la rappresentanza numerica era inferiore rispetto alle regioni settentrionali.

Una fregata piemontese nel porto di Napoli durante l’occupazione dalle truppe garibaldine, 1861

Il modello dello Stato piemontese fu imposto anche alla pubblica amministrazione, così come la moneta corrente, con la lira già usata in tutto il Regno di Sardegna che fu scelta come valuta nazionale. Allo stesso tempo fu smembrato l’esercito borbonico, con molti ufficiali che persero il loro grado, e introdotta la leva obbligatoria, misura molto impopolare in una società in prevalenza agricola. Più in generale, per lunghi anni il Meridione non fu considerato come parte a tutti gli effetti del Regno d’Italia, ma come una sorta di dominio coloniale.

I primi inevitabili tumulti furono alimentati dalla disillusione dei braccianti meridionali. Molti di loro avevano indossato la camicia rossa combattendo insieme a Garibaldi dopo il suo sbarco in Sicilia, convinti di lottare per un sistema che avrebbe cancellato la loro povertà e il sistema borbonico che li confinava tra gli “ultimi”. Invece, non solo le riforme agrarie non furono mai messe in atto, ma la tassa sul macinato voluta dal presidente del Consiglio Luigi Menabrea e inasprita dal successore Giovanni Lanza – in vigore dal 1869 al 1884 – gravarono soprattutto sulle classi più umili, a causa dell’aumento del prezzo del pane. Il primo a esserne deluso fu lo stesso Garibaldi, divenuto all’epoca deputato. Le sue proposte alla Camera dimostrano un forte interesse per riorganizzare l’esercito meridionale, smembrato in seguito all’Unità, e una richiesta di giustizia per i cittadini del Sud. Già nel 1861 disse durante un intervento in Parlamento che “Lo stato deplorabile dell’Italia meridionale, e lo abbandono in cui si trovano così ingiustamente i valorosi miei compagni d’armi mi hanno veramente commosso di sdegno verso coloro che furono causa di tanti disordini e di tanta ingiustizia”. L’immobilismo su diversi temi centrali per parificare la condizione di quelle che erano a tutti gli effetti ancora due Paesi diversi nella concezione di chi governava, portò Garibaldi a dimettersi nel 1864.

Garibaldi a Mentana, 1867

Nel 1868 scrisse una lettera alla patriota Adelaide Cairoli, dicendole: “Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano”. Per questo, già nel 1861, quando esplosero i primi moti e si affermò il brigantaggio, Garibaldi arrivò ad accusare il governo di aver causato una guerra fratricida. 

Il brigantaggio era un fenomeno precedente all’Unità del Paese, ma dal 1861 mutò forma per diventare non più l’azione criminale di banditi, ma il catalizzatore di un malcontento generale che imperversava al Sud. Garibaldi lo definì “una questione sociale, la quale non si poteva risolvere con il ferro e con il fuoco”. Racchiudeva infatti diverse anime: dai contadini inferociti dopo le continue vessazioni ai nostalgici dell’ancien régime borbonico, dai vecchi soldati privati del grado ai liberali delusi dalla moderazione del governo unitario. Fu un fenomeno non troppo dissimile da una guerra civile, soprattutto perché le autorità risposero alle rivolte con la legge Pica del 1863, che introdusse il reato di brigantaggio e delegò alle autorità e ai tribunali militari il compito di reprimerlo, abolendo di fatto lo stato di diritto per larghe fasce della popolazione meridionale. Per chi rifiutava la leva del servizio militare, le punizioni erano estese anche ai parenti o addirittura a un intero paese. 

Antonio Gramsci commentò queste vicende sull’Ordine Nuovo scrivendo nel 1920 che “Lo Stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Con la legge Pica migliaia di presunti briganti e loro fiancheggiatori vennero fucilati, mandati in esilio o condannati ai lavori forzati. Nel 1868 il presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea propose addirittura di deportare tutti i criminali meridionali in campi di detenzione in Patagonia. Fallito il tentativo per il rifiuto del governo argentino, chiese aiuto alle autorità inglesi per avere un’isola deserta nel mar Rosso utile a tale scopo, ma il progetto non andò in porto.

Antonio Gramsci

La repressione in tutto il Meridione fu estremamente violenta, con villaggi incendiati e civili uccisi, come accade nel 1861 nella campana Pontelandolfo, con almeno 400 morti. In questi anni le legittime rivendicazioni del Sud sono state però macchiate da alcune mistificazioni dei neoborbonici e di giornalisti non troppo attenti. L’esempio principale è la fama del forte di Fenestrelle, vicino a Torino, dove venivano rinchiusi prigionieri di guerra. Secondo i revisionisti, la struttura militare divenne una sorta di campo di concentramento dove morirono centinaia o addirittura migliaia di persone. Lo storico Alessandro Barbero ha smentito queste tesi nel libro I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle. Usando le fonti ufficiali dell’epoca e gli archivi storici, Barbero smonta queste tesi: soltanto quattro detenuti morirono durante la prigionia, non fu una struttura dedicata esclusivamente ai prigionieri meridionali e non si differenziava da tutte le altre prigioni del Regno. Barbero per il suo lavoro di ricerca fu querelato dai neoborbonici e attaccato da Pino Aprile, autore del bestseller Terroni.

Alessandro Barbero

Barbero si è però limitato a documentare la realtà dei fatti, senza mai negare le difficoltà del Sud e i torti subiti in quegli anni. Ha infatti dichiarato che il Nord ebbe un aiuto maggiore per lo sviluppo rispetto al Sud, e ha spiegato che certe dinamiche del Risorgimento “non sono entrate a far parte della grande narrazione sui testi scolastici, è verissimo. […] Sono state taciute nei libri di scuola, nei quadri che si appendono nei municipi, quindi nella retorica ufficiale, ma nei veri libri di storia, non scolastici, se ne è parlato fin dall’Ottocento, passando per il Gramsci del Risorgimento tradito. Gli storici queste cose le hanno sempre studiate, non è colpa loro se i governi non gli hanno dato spazio”.

Non si può banalizzare il dibattito sulla questione meridionale post Unità con aneddoti inventati o semplificazioni, anche perché questi non servono: i semplici fatti restituiscono una realtà in cui il Sud per decenni è stato penalizzato in modo sistematico dalle scelte dei Savoia e dei loro governi. Tutto il resto è un insieme di tesi precostituite e revisionismo storico di cui il Sud non ha bisogno. Quello che serve è una seria discussione nazionale e condivisa sugli anni in cui sono state messe le basi delle disuguaglianze che ancora oggi privano chi nasce nel Sud del Paese di diritti e possibilità che poche centinaia di chilometri più a nord sono dati per scontati. Questo è il primo passo per realizzare un’unità che a 160 anni dalla sua proclamazione è ancora troppo spesso poco più che una formalità.

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