La ragazza “triste ma sexy” è l’ennesimo stereotipo distorto dai media per compiacere gli uomini - THE VISION

Quando è uscito Blonde di Andrew Dominik una delle principali critiche al film è stata l’ossessione per il dolore. Questo sembra inglobare la protagonista, Marilyn Monroe, e identificarla completamente, senza che lei riesca a opporre alcuna resistenza. Nel corso di due ore la diva piange, urla, barcolla, beve, ingoia pillole e vaga per la casa in stato confusionale. Il regista, però, anche nelle scene più disturbanti, è stato ben attento a rendere sempre esteticamente apprezzabile il profondo malessere dell’attrice. 

L’immagine di una bella ragazza con il trucco sbavato, i capelli arruffati, la sigaretta in una mano e il bicchiere nell’altra mentre si spinge al limite nel vivere la propria sofferenza fino a perdere il controllo l’abbiamo vista e rivista: non è una novità che il dolore femminile venga glamourizzato e sessualizzato a livello visivo. Quello della ragazza triste è infatti un topos che si ritrova in moltissimi film e telefilm, si pensi a Kirsten Dunst ne Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola, a Winona Ryder in Ragazze interrotte, Natalie Portman ne Il cigno nero o anche Rue di Euphoria e Anya Taylor-Joy che balla mentre fuma e beve a casa da sola in La regina degli scacchi. Difficile trovare altrettanti protagonisti maschili dipinti allo stesso modo. La tristezza femminile nella maggior parte dei casi continua a essere proposta come cool e sexy, e questo schema, con l’avvento di Internet, si è diffuso ben oltre il cinema. Su Instagram il selfie di Bella Hadid con gli occhi gonfi di lacrime è uno dei più condivisi e chiacchierati di sempre e su TikTok ultimamente è diventato virale il “Crying Makup” che riproduce proprio gli occhi irritati e il naso arrossato di quando si ha appena smesso di piangere.

Ragazze Interrotte (1999)
Blonde (2022)

Secondo Zoe Alderton, autrice di The Aesthetics of Self-Harm, la ragazza triste, intesa come fenomeno mediatico e pop, è “una giovane donna che non si vergogna della sua vita emotiva e che senza paura esprime il suo dolore affinché gli altri lo vedano”. Espressioni come “sad girl culture” o “sad girl aesthetic” hanno iniziato a diffondersi online dopo il primo decennio del 2000 quando molte ragazze hanno cominciato a fotografare la loro tristezza e a creare gruppi per ragazze tristi. Le prime a identificarsi espressamente con la dicitura sono state cinque donne latine che, nel 2014, hanno creato su Facebook il collettivo Sad Girls y Qué postando immagini volutamente iperfemminili sulla solitudine, la depressione e l’anti-machismo. È stato su Tumblr, però, che si è andata creando una vera e propria sottocultura delle ragazze tristi, principalmente portata avanti da giovani donne bianche, magre e in certa misura privilegiate. Esempi di contenuti erano foto di pillole color rosa pastello, di boccette di benzodiazepine e ragazze distese a letto con i capelli sul viso e in mano una rosa, GIF con scritte glitterate “100% sad” o “Self-destructive and unproductive”. Il lato estetico ha da subito assunto una certa importanza e, in questo, un grande impatto lo ha avuto Lana Del Rey con i suoi video onirici, le immagini femminili di ispirazione indie e soft grunge e, naturalmente, la sua musica. Attingendo all’immaginario estetico della Hollywood Golden Age e alla sua esperienza personale di depressione e dipendenza, Del Rey parla di morte, di amore doloroso, di solitudine. Nel video di Born to Die (2012) vediamo il suo corpo senza vita portato tra le braccia dal suo amato e in un’intervista al Guardian nel 2014 ha dichiarato “Preferirei essere già morta”. Nello stesso anno è uscita Pretty When You Cry e la canzone è diventata un hashtag estremamente popolare su Tumblr utilizzato dalle sad girl per postare foto dei loro visi in lacrime.

Lana Del Rey nel video di Born To Die (2011)

Passando per Instagram (pagine come @SadGirlsClub) e Twitter (account come @SoSadToday), le sad girl oggi si ritrovano anche su TikTok, tanto che l’hashtag #sadgirl ha attualmente più di 13 miliardi di visualizzazioni. Lo scorso febbraio sono diventati virali dei video in cui migliaia di ragazze si dichiaravano nella loro “Fleabag era” ispirandosi al telefilm di Phoebe Waller-Bridge dove la protagonista attraversa un periodo di lutto e crisi personale con sarcasmo, momenti di dissociazione e tendenze autodistruttive. Nei video, con la colonna sonora del telefilm in sottofondo, le ragazze dicono che “I ragazzi non capiranno mai” esperienze come presentarsi al lavoro con il trucco della sera prima, il bisogno ossessivo di sentirsi attraenti anche mentre si piange, il dolore mestruale e “non cambiare le proprie abitudini distruttive perché ti rendono interessante”. Molte riprendono l’immagine della locandina del telefilm dove Waller-Bridge appare con il trucco colato per il pianto, una foto che potrebbe adattarsi perfettamente all’hashtag #PrettyWhenYouCry su Tumblr. 

Fleabag (2016-2019)

Tra i personaggi a cui le ragazze tristi contemporanee si rifanno ci sono anche le protagoniste dei libri di Sally Rooney e quella del romanzo di Ottessa Moshfegh Il mio anno di riposo e oblio il cui hashtag su TikTok supera i 55 milioni di visualizzazioni. Tutte queste donne hanno qualcosa in comune: come scrive la giornalista Rebecca Liu, rappresentano l’archetipo della ragazza “carina, bianca, cisgender, abbastanza torturata da essere interessante ma non troppo da essere ripugnante”. Quello che viene da chiedersi, nell’approcciarsi a queste ragazze che languiscono nella loro tristezza facendola talvolta assurgere a forma d’arte, è quale sia il motivo reale del loro malessere esistenziale. Moshfegh nel suo romanzo gioca proprio su questo. La protagonista apparentemente gode di molti privilegi: è giovane, magra, colta, da poco laureata alla Columbia e vive, grazie a un’eredità, in un appartamento nell’Upper East Side di Manhattan. Ci sono dei traumi nel suo passato, ma il vuoto che la affligge va oltre, diventa assoluto e la spinge a scegliere di passare un anno della sua vita a dormire imbottita di barbiturici per smettere di provare emozioni.

Negli anni Dieci del Duemila le Sad Girl di Tumblr e delle canzoni di Del Rey reclamavano il loro diritto non solo alla tristezza, ma a vivere una femminilità delicata e sottomessa in contrasto con l’empowerment da “girl boss” e “donna in carriera”, che veniva proposto dal femminismo mainstream di quegli anni. Chiedevano la libertà di non prendere il controllo, non occuparsi di loro stesse, non provare a stare meglio, per contrasto a una femminilità necessariamente legata all’azione e al miglioramento di sé. Nel 2015 l’artista Audrey Wollen ha cristallizzato questo sentire nella sua “Sad girl theory” per cui la tristezza femminile, intesa come rifiuto del potere e degli schemi maschili, andrebbe vista come forma di resistenza femminista. “Il femminismo”, spiega Wallen, “deve riconoscere che essere una ragazza nel mondo in questo momento è una delle cose più difficili che esistano – è doloroso oltre ogni immaginazione – e che il nostro dolore non ha bisogno di essere scartato in nome dell’empowerment”. In modo simile, anche le sad girl contemporanee legano la loro tristezza e frustrazione ai problemi della società patriarcale (in questo rifacendosi ad autrici come Sylvia Plath e Virginia Woolf, morte suicide) oltre che alla crisi economica e ambientale che caratterizza l’esperienza di millennial e gen Z. È un malessere generazionale e di genere.

L’elemento che spesso risulta problematico delle sad girl, però, è la loro passività. Il loro dolore, qualunque ne sia la causa, non sembra infatti portare a una reazione o a un’attiva ricerca di cambiamento: viene celebrato come fine a sé stesso. Viene indubbiamente normalizzato con attenzione e sensibilità verso la salute mentale, ma così si arriva a farlo diventare un vero e proprio stile di vita, oltre che a una posa estetica. Si ricade, inoltre, in un tradizionale stereotipo sessista, quello che associa la femminilità stessa al dolore come suo elemento caratterizzante. Questo binomio ha radici profonde. Dal punto di vista corporeo c’è l’idea che le donne siano “naturalmente” più abituate a sopportare il dolore per via del ciclo mestruale e del parto. A livello mentale per secoli la tristezza femminile è stata patologizzata con la diagnosi di malattie psichiatriche inesatte, figlie di enormi pregiudizi come l’isteria o la nevrastenia e, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta, con la somministrazione di psicofarmaci come cura a ogni frustrazione che potesse portare a un cambiamento dello status quo. Tuttora, la depressione, al netto dei fattori genetici, è più facilmente diagnosticata nelle donne, anche per via di stereotipi che la identificano ancora come un problema femminile. I disturbi mentali, così come le emozioni, sono genderizzati: la tristezza è vista come un’emozione tipicamente femminile, mentre la rabbia è classificata come un tratto maschile, anche se in realtà tutti possiamo provare queste emozioni.

La rabbia, però, è un’emozione attiva, che stimola una reazione; la tristezza, invece, porta a un “ripiegamento”. L’esperienza delle sad girl è valida come lo dovrebbe essere quella delle donne arrabbiate, ma il rischio della glamourizzazione delle donne tristi è che continui a intrappolarle in un ennesimo cliché, lo stesso da cui Marilyn Monroe non è ancora riuscita a liberarsi.

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