Abbiamo svenduto i diritti dei lavoratori per un'insalata in ufficio - THE VISION

Una delle prime startup italiane a sfruttare il campo del food delivery è stata PizzaBo, fondata nel 2009 a Bologna con l’obiettivo di sfamare i fuori sede, e chiusa poi da Just Eat nel 2016, generando diverse polemiche. Nel corso degli anni, poi, sempre sul modello che appariva molto all’avanguardia dell’azienda bolognese, sono sbarcate in città – e nel resto d’Italia – le più grosse compagnie del settore: Foodora, Glovo, Deliveroo, Just Eat. Non è più una novità veder sfrecciare per le strade ragazzi in bicicletta infagottati nelle casacche sgargianti delle aziende che hanno saputo sfruttare al meglio le possibilità dell’economia delle piattaforme. Ma dove sta la differenza tra un comune pony express che consegna pizza d’asporto e un rider di Deliveroo? Non si tratta, infatti, di semplici fattorini ma – a detta delle aziende – di lavoratori autonomi che si inseriscono nel settore della gig economy. Il giro d’affari nel mercato italiano si attesta sui due miliardi di euro, ed è in costante crescita.

Gli elementi su cui si basa questo modello sono principalmente due: l’esigenza di trovarsi un lavoro saltuario e la possibilità di mettere in condivisione i propri mezzi. La sharing e la gig economy, dunque, si basano sulla retorica della flessibilità a tutti costi ma, come abbiamo visto, generano un fatturato tutt’altro che irrisorio. Per capire bene la portata del food delivery – di cui i fattorini sono la componente logistica – bisogna analizzare innanzitutto il sistema in cui è inserito. Ci sono infatti alcune differenze fondamentali fra sharing economy e gig economy – la cosiddetta “economia del lavoretto”. Nella dinamica dello share si condivide un bene non utilizzato o sottoutilizzato, dunque si mette a profitto il proprio patrimonio privato. L’affittuario di Airbnb non utilizza la camera messa in affitto, l’autista di Blablacar farebbe comunque il viaggio progettato, anche senza eventuali passeggeri. Al contrario, il tassista di Uber mette a disposizione il proprio tempo e il proprio mezzo per lo spostamento di altri: nella gig economy il lavoratore aliena una parte della propria vita per eseguire l’attività, fornendo lui stesso le attrezzature. Nel caso dei rider, poi, è obbligatorio indossare la divisa dell’azienda durante le consegne, dunque di fatto si fa pubblicità alla piattaforma.

Secondo Carlo Formenti, autore de La variante populista: “Il modello ideale dell’indipendent contractor è il modello dell’imprenditore di se stesso, di quello che è capitalista di se stesso, che investe il suo capitale sociale e relazionale, di reti di relazioni per tirare a campare, in realtà. C’è l’elevamento a massimo valore della sua capacità di reggere il mercato sul piano della competizione e della cooperazione competitiva.” La gig economy, dunque, punta tutto sull’individualismo e sul richiamo alla produzione, mediata però da una piattaforma, un ente terzo con la quale si negozia un contratto. Nominalmente si è lavoratori autonomi, ma di fatto si è dipendenti, continua Formenti: “Cooperazione ma competitiva, dentro una dimensione in cui vince non solo chi è più bravo (come vuole la narrazione più generale), ma chi si vende a un prezzo più basso rispetto agli altri, anche perché il tasso di creatività di questi lavori è infinitamente più basso di quello che normalmente ‘si vende’ ”.

La realtà della gig economy poi – in particolare del food delivery – volge verso il precariato cronico, e di fatto, il metodo di guadagno principale su cui si basa la paga dei lavoratori è quello del cottimo. Portare le pizze ad annoiati clienti diventa una sfida, una gara per la sopravvivenza, considerato che è dalla velocità e dai buoni feedback che l’azienda riceve che dipende il proprio compenso. Quando vediamo arrivare il fattorino trafelato, ansimante, che sbaglia a contare i soldi, non immaginiamo che nella sua testa sta cronometrando il tempo di consegna, i secondi persi a cercare il resto nelle tasche, i gradini che dovrà scendere a due a due per inforcare la bici e dirigersi verso i prossimi clienti. Non sorprende dunque che questi presunti lavoratori autonomi si siano organizzati per avanzare rivendicazioni che migliorino il loro status di subordinati.

Le proteste in Italia sono cominciate a Torino nell’inverno del 2016. Fino a settembre i rider di Foodora venivano pagati 5,60 euro lordi l’ora poi – con l’introduzione di un nuovo contratto – la paga fissa è stata sostituita. Il nuovo accordo prevede a detta di Foodora 4 euro a consegna, e si tratta di un contratto di collaborazione (un co.co.co.) che non contempla coperture sanitarie idonee e rimborsi per l’uso della propria attrezzatura, come ad esempio una eventuale riparazione della propria bici, dei motocicli e dello smartphone con cui prendono le consegne. Già nel giugno dello stesso anno, a questo proposito, i lavoratori avevano mandato una lettera all’azienda in cui chiedevano di adeguare le assicurazioni sanitarie e manutenzione dell’attrezzatura. I lavoratori di Torino, inoltre, ricevevano paghe minori rispetto a quelli di Milano, per questo hanno chiesto un aumento, oltre che un accordo per rendere obbligatorio un monte minimo di ore lavorative. Molti fattorini, infatti, vengono impiegati solo quando lo richiede l’azienda: stipulando per contratto un monte ore minimo, l’azienda avrebbe dovuto impiegare a turno tutti i fattorini, e si sarebbe evitato così il lavoro a chiamata. La risposta di Foodora è stata abbassare la paga, e per i rider torinesi non c’è stata scelta: a ottobre 2016 hanno proclamato lo sciopero. Successivamente, sei di loro hanno lamentato di essere stati licenziati da Foodora e hanno deciso di fare ricorso in tribunale. L’azienda ha aumentato le paghe – dai 2,70 ai 4 euro – ma non ha abolito il cottimo.

Le proteste non hanno accennato a fermarsi e quello di Torino è stato il primo atto di un focolaio che si è espanso in altre città, come Milano e Bologna. Fra novembre del 2017 e febbraio 2018 i rider bolognesi hanno scioperato tre volte, l’ultima delle quali a causa di una nevicata abbondante che aveva reso le condizioni di lavoro particolarmente difficili e pericolose. Il culmine delle proteste però, si è raggiunto il 13 aprile scorso, quando una trentina di fattorini ha occupato la sede milanese di Deliveroo, chiedendo di incontrare il manager dell’azienda, anche se la manifestazione è stata poi scongiurata dall’intervento della polizia. Deliveroo, in realtà, era già stata al centro delle polemiche a febbraio, quando si era scoperto che i caschi dati in dotazione non rispettavano le norme di sicurezza della Comunità Europea – per questo l’azienda ha dovuto cambiare tutto l’equipaggiamento. Stavolta, invece, a far montare le sollevazioni è stata la sentenza del tribunale di Torino, che non ha riconosciuto lo status di lavoratore dipendente a chi era stato licenziato dopo le proteste del 2016. Per il tribunale si tratta di lavoratori autonomi (ed è per questo che ha respinto il ricorso), decisione che per i rider appare come un chiaro segno dell’arretratezza del diritto italiano in materia del lavoro.

L’ultimo atto della vicenda si consuma proprio a Bologna: domenica 15 aprile è stata indetta dalla Riders Union – la rete dei fattorini italiani, ormai organizzatasi come sindacato autonomo – la prima assemblea nazionale, dove hanno partecipato circa in trecento da diverse città (Milano, Torino, Bologna, Genova, Roma). Lo scopo è presentare una “carta dei diritti” nella quale si rivendicano le succitate coperture assicurative e indennità per maltempo, oltre ovviamente a paghe più dignitose. La carta è stata sottoposta all’amministrazione comunale, e l’intento è aprire un tavolo di discussione con le aziende, nella speranza di far valere le proprie ragioni attraverso l’organizzazione sindacale.

La sindacalizzazione dei rider, infatti, è un avvenimento importante perché rappresenta uno dei primi tentativi del genere all’interno dell’economia delle piattaforme. Questo contrasta la base la retorica che sostiene la gig economy, ovvero la convinzione che si tratti di lavoratori autonomi, disposti a impegnarsi in lavoro saltuari per “arrotondare”, e soprattutto in cerca di flessibilità totale. La composizione dei lavoratori del food delivery è più variegata di quanto vuole lo stereotipo dell’universitario che si imbarca in qualche ora di consegne settimanali per avere soldi da spendere in qualche attività ricreativa. Chiaramente i giovani che arrotondano ci sono, ma rappresentano solo una piccola categoria. Tra chi sceglie questa prospettiva lavorativa troviamo per esempio un numero piuttosto nutrito di cittadini extracomunitari o anche cinquantenni/sessantenni che si ritrovano a rimediare un lavoro da fattorino dopo essere stati scaricati nel baratro della disoccupazione. L’economia delle piattaforme, in sostanza, intercetta una fetta di società abbastanza variegata, spinta in molti casi dal precariato a tentare l’ultima accidentata avventura, una realtà in cui c’è ben poco di smart.

Come si gestisce dunque una situazione inedita e che si espande tanto rapidamente? L’operato delle aziende del food delivery sul suolo italiano è relativamente giovane, in un terreno evidentemente non regolamentato a sufficienza. Starebbe alla politica cercare di scongiurare lo sfruttamento del lavoratore, visto che l’unica conseguenza è quella di inficiare le possibilità di guadagno – non solo per i privati ma per la comunità – date da questo tipo di economie, e dalla sviluppo tecnologico su cui si basano. Non è possibile che in un settore così tecnologizzato si opti per un’economia balcanizzata, in cui ogni azienda fa il bello e il cattivo tempo, tenendo in scacco il lavoratore con il cottimo, come se il diritto in materia di lavoro fosse fermo agli anni Settanta. Ci si trova di fronte a paradossi di ogni sorta: metodi diversi di pagamento che variano da azienda ad azienda, così come differenti parametri che monitorano l’efficienza dei propri dipendenti. Forse occorrerebbe negoziare un contratto collettivo, in modo che si livellino le variegate – e spesso contraddittorie – condizioni lavorative di tutte le aziende. Per farlo, però, si dovrebbe accantonare una volta per tutte la concezione che quella dei rider sia una galassia slegata, un conglomerato di persone che pensa solo per sé. Si tratta invece di una categoria vera e propria, che si sta mobilitando nella dimensione collettiva, e le ultime rivendicazioni non lasciano più spazio ai dubbi.

La sentenza del tribunale di Torino è la spia del ritardo italiano rispetto alle nuove forme del lavoro, figlio di una mentalità che dà pedissequamente ragione al privato, a dispetto di un lavoratore tollerato solo quando china il capo, anche alle ingiustizie più palesi – come quella di non avere un’assicurazione sanitaria in un lavoro in cui si trascorre tutto il tempo per strada, su una bici. Non si va molto lontani coltivando un terreno che spinge il lavoratore ad “arrabattarsi”, le istituzioni dovrebbero mutare atteggiamento, o se non altro aggiornarsi in materia di diritto del lavoro. D’altronde, le mobilitazioni dei rider si accomunano a quelle dei facchini nel recente passato: è il settore della logistica a essere cruciale nell’economia di oggi. Proprio questi segmenti occorre prendere in considerazione e analizzare, perché da un territorio così ibrido si levano segnali della mutazione del mondo del lavoro, e si indicano le direzioni che questo processo prenderà in futuro.


Integrazione di lunedì 23 aprile 2018 ore 17.30

*Con riferimento all’articolo “Abbiamo svenduto i diritti dei lavoratori per un’insalata in ufficio” pubblicato il 23/04/18, riportiamo di seguito le precisazioni richieste da Foodora, per come pervenute alla Redazione:

“Nell’articolo viene scritto: “Il nuovo accordo prevede a detta di Foodora 4 euro a consegna…che non contempla coperture sanitarie idonee” – I contratti, che sono documenti scritti per cui sono dati di fatto, prevedono importanti tutele come i contributi Inps e l’assicurazione Inail in caso di infortuni sul lavoro, oltre ad una polizza assicurativa in caso di danni contro terzi che la società tiene a suo carico;

“Successivamente, sei di loro hanno lamentato di essere stati licenziati da Foodora e hanno deciso di fare ricorso in tribunale” il Tribunale si è espresso non accogliendo le richieste dei 6 ex rider. Restiamo in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, ribadendo come fossero i rider a decidere quando e in che misura dare la loro disponibilità e come nessun rider sia stato licenziato e a tutti fosse stata data la possibilità di rinnovare il contratto in scadenza;

 “Le proteste non hanno accennato a fermarsi e quello di Torino è stato il primo atto di un focolaio che si è espanso in altre città, come Milano e Bologna. Fra novembre del 2017 e febbraio 2018 i rider bolognesi hanno scioperato tre volte” – a Novembre foodora non era ancora presente a Bologna per cui sicuramente non vi erano rider bolognesi di foodora coinvolti negli scioperi.”

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A riguardo, riteniamo a nostra volta opportuno specificare quanto segue:

Per quanto riguarda l’osservazione relativa alla copertura sanitaria, precisiamo che l’articolo intendeva evidenziare come in assenza di un contratto di lavoro subordinato i rider non possano dirsi adeguatamente tutelati dai rischi e dalle malattie a cui li espone la specifica attività lavorativa, atteso che il concetto di copertura sanitaria non si riduce esclusivamente all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. A ciò si aggiunga la connessa problematica del mantenimento del rapporto di lavoro in caso di malattia;

Con riguardo alla sentenza del Tribunale di Torino, va osservato come l’articolo dia conto, nel corpo del testo, del rigetto delle istanze dei rider ricorrenti, ma ciò non preclude che vengano riportate le motivazioni che li hanno determinati a ricorrere in tribunale. Inoltre il termine licenziamento non è stato utilizzato in senso tecnico, ma riportando la percezione che i rider avevano della condizione di fatto in cui si sono venuti a trovare e che hanno lamentato;

Da ultimo, in merito al riferimento alle proteste di novembre a Bologna, si osserva come il paragrafo in parola non si riferisca specificamente a Foodora ma alle iniziative assunte in generale dai lavoratori del food delivery.

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