Il reddito di cittadinanza non è davvero un reddito di cittadinanza - THE VISION

Per chi ruba per fame la condanna a morte non è un deterrente, lo è molto di più un aiuto economico da parte dello Stato, proporzionato in base alla condizione e alle necessità. È così che Raphael Hythlodaeus, protagonista della celebre Utopia di Thomas More, conversando con l’arcivescovo di Canterbury teorizza per la prima volta il reddito di cittadinanza.

Thomas More

È il 1516, l’Europa, che si avvia all’età moderna, e la necessità di abbattere la criminalità chiamano lo Stato a nuove responsabilità. Negli ultimi cinque secoli, l’idea del reddito universale garantito (universal basic income) ha appassionato filosofi, economisti e politici convinti fosse la strada più sicura per abbattere le disuguaglianze e garantire la crescita della società. Un’idea che è riuscita a mettere d’accordo neoliberisti come Milton Friedman e attivisti come Martin Luther King, ma che fin da subito ha incontrato ostacoli come la dubbia sostenibilità economica e, in tempi più recenti, la difficile attuazione della subalternità tra sussidio economico e inserimento nel mondo del lavoro. Anche il disegno di legge presentato nel 2013 al Senato dal Movimento Cinque Stelle (legge n. 1148/2013), benché concepito con le migliori intenzioni, a un’attenta analisi appare inattuabile. Da sempre cavallo di battaglia dei pentastellati, la proposta ha contribuito anche all’ampio consenso ottenuto alle ultime elezioni.

Milton Friedman
Martin Luther King

Anche se non ci sono stati “assalti ai Caf”, come riportato da qualche giornale, e si è trattato di episodi isolati, il caso dei cittadini che si sono rivolti ai Caf di alcune città del Sud, convinti di poter fare la domanda per il sussidio, dà l’idea dell’impatto emotivo che la promessa ha generato, soprattutto in aree del Paese dove il 46,9% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale.

Innanzitutto chiariamo che il ddl presentato dal Movimento non legifera sul reddito di cittadinanza ma sul reddito minimo garantito, che è un’altra cosa: il primo (in inglese basic income, o reddito di base, come concepito per la prima volta nella cultura anglosassone) indica una quota di denaro fissa distribuita a tutti i cittadini a prescindere dal reddito; mentre il secondo (guaranteed minimum income) è un contributo per garantire a disoccupati e lavoratori con redditi bassi un’entrata minima. Nello specifico del caso italiano 9.360 euro l’anno. Questa cifra, che rappresenta la soglia di rischio povertà secondo i parametri Eurostat, corrisponde a 6/10 di 15.514 euro, ovvero al reddito medio delle famiglie italiane.

Un single che non percepisce alcun reddito avrà 780€ al mese, chi invece guadagna tra 0 e 780€ avrà una quota integrativa, mentre a chi guadagna più di 780€ non spetterà nessun contributo. La cifra mensile cresce fino a un massimo di 1.638 € per una coppia con due figli minorenni. In cambio, il beneficiario ha l’obbligo di cercare lavoro, presentarsi ai colloqui fissati dai centri per l’impiego e svolgere lavori utili alla collettività per un massimo di otto ore settimanali. Per non perdere il sussidio, non può rifiutare più di tre proposte di lavoro considerate ”congrue”.

Sulla base dei dati del 2015, secondo l’Istat, le famiglie beneficiarie sarebbero 2 milioni e 759mila, cioè circa 8,3 milioni di persone, mentre la spesa pubblica necessaria sarebbe di 14,9 miliardi. E qui c’è il primo problema: sia per l’Inps, sia secondo alcuni studi, il costo dell’operazione è in realtà pari al doppio, circa 30 miliardi, senza considerare i costi di gestione.

Giorgio Alleva. Presidente ISTAT

“Il divario tra le due stime è dovuto al fatto che l’Istat include nel reddito familiare il valore teorico dell’affitto della casa di proprietà,” spiega Massimo Baldini, professore di Scienza delle finanze e membro del Centro di analisi delle politiche pubbliche all’Università di Modena e Reggio Emilia, “E siccome il 60% delle famiglie in povertà relativa ha una casa di proprietà, i loro redditi mensili risultano falsati e fanno diminuire il numero di famiglie che avrebbe diritto al reddito di cittadinanza. Inoltre è un parametro sbagliato per una misura di contrasto alla povertà, anche perché chi paga l’affitto e chi non lo paga non può essere considerato allo stesso modo”.

Nella migliore delle ipotesi, dunque, il reddito di cittadinanza costerebbe quanto una corposa manovra finanziaria. Il ddl individua le risorse per coprire i costi in almeno una ventina di voci, che vanno dalla tassazione sui giochi e sui patrimoni superiori ai 2,5 milioni, alla revoca dei contributi all’editoria, fino al taglio delle auto blu, dello stipendio dei parlamentari e di 3,5 miliardi dal bilancio del ministero della Difesa, e all’aumento delle imposte sulle imprese produttrici di idrocarburi ed energia elettrica (come se poi questa scelta non ricadesse sui consumatori in termini di rialzo dei prezzi). Tutte queste, però, “Sono per lo più voci marginali, ascrivibili alla classica spending review e che non basteranno a coprire la spesa,” precisa Baldini.

Nell’incertezza dei conti, il Movimento Cinque Stelle è anche l’unico partito che non ha comunicato gli obiettivi di deficit del debito pubblico – dato necessario per elaborare una stima della spesa annuale – all’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano. Lo ha detto al Corriere della Sera Carlo Cottarelli, direttore dell’istituto che ha vagliato i programmi elettorali di tutti i partiti.

Carlo Cottarelli

Un altro rischio concreto riguarda gli effetti distorsivi che l’introduzione del reddito minimo porterebbe nel mercato del lavoro, come il ricorso al lavoro nero o l’abbandono di posti di lavoro non soddisfacenti. “La legge istituisce un importo del salario minimo piuttosto alto, se comparato alla retribuzione di quei lavori usuranti o poco appetibili che molti cittadini potrebbero non essere più interessati a fare,” spiega Francesco Giubileo, sociologo del lavoro e consulente in politiche attive del lavoro per la Regione Friuli Venezia-Giulia. Chi lavora ad esempio 40 ore a settimana, magari per 1.700 euro o meno, è facile che preferisca rinunciare al lavoro per incassarne 1.638 (nel caso di una coppia senza reddito con due figli minori). C’è poi l’incognita della quantità e della qualità delle offerte di lavoro, non scontate in un mercato come quello italiano. “È facile dire ‘chi è disoccupato accetta qualsiasi lavoro’, ma la realtà è diversa,” continua Giubileo, “l’esperienza ci insegna che la ricollocazione è facile solo per i più giovani, bravi e istruiti, mentre è molto difficile, oltre che onerosa, nel caso di disoccupati cronici, con più di 40 anni e un basso livello di istruzione.”

Uno studio di Isfol sulle politiche attive del lavoro in Germania, Gran Bretagna e Svezia, ha rivelato che i candidati fingevano di cercare un impiego, si facevano scartare ai colloqui e addirittura insultavano il datore di lavoro per farsi licenziare (e non dimettersi) e così mantenere il reddito minimo garantito dallo Stato. “In Germania la job creation è stata una strage,” conclude Giubileo, “Creando un gap, a volte insanabile tra i neolaureati avviati alla carriera e quelli costretti a fare lavori diversi perché connessi al sussidio del reddito minimo. Il risultato è stato un esercito di lavoratori socialmente utili, che forse tappa un buco ma non fa bene all’economia, né alla società.” E la riforma dei centri per l’impiego prevista dal programma M5S, per quanto auspicabile, sembra non essere in grado di garantire un numero così elevato di progetti di reinserimento.

Angela Merkel

Negli ultimi anni, l’attenzione a un reddito di base è cresciuta in molti Paesi, in parte alimentata dai timori sull’impatto che l’automazione e le nuove tecnologie avranno sui posti di lavoro. La stessa Commissione europea, nell’indagine Employment and social development in Europe 2016, nel capitolo dedicato alle implicazioni delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro scrive che l’impatto sarà “paragonabile a quello del motore a vapore durante la prima rivoluzione industriale”. La Commissione aveva già ammonito l’Italia, sottolineando l’urgenza di dotarsi di un sistema di reddito minimo garantito come la maggior parte dei Paesi europei: una prima, parziale risposta è arrivata a fine 2017 con il reddito di inclusione, un contributo massimo di 539 euro mensili per le famiglie con un Isee inferiore a 6.000 euro.

Tuttavia anche questo provvedimento è lontano dal reddito di cittadinanza propriamente detto, che nel mondo, ad oggi, esiste solo in Alaska: grazie a un fondo permanente composto da parte dei proventi delle estrazioni petrolifere, dal 1982 lo stato americano dona a ogni residente 2.000 dollari all’anno, cumulabili per i nuclei familiari. Un reddito di base sicuro che però, negli ultimi anni, ha avuto tra gli effetti – dato non trascurabile – anche l’aumento del 17% delle richieste di contratti part-time.

Nel mondo, il reddito di cittadinanza è al centro di alcuni progetti pilota, dove nel corso delle sperimentazioni non stanno mancando incertezze e criticità. Con l’obiettivo di valutare l’impatto sulla salute e la produttività, nello stato canadese di Ontario 4.000 cittadini disoccupati o con bassi redditi riceveranno nel 2018 fino a 10.700 euro annui. Tuttavia, molte persone, temendo di restare escluse dal mercato dal lavoro, hanno rifiutato di aderire al progetto. Anche in Finlandia, Paese in cima alle graduatorie per spesa sociale e qualità del welfare, il governo ha selezionato 2.000 cittadini disoccupati da almeno un anno o con meno di sei mesi di esperienza lavorativa, ai quali destinare 560 € al mese nel biennio 2017-2018. Prima ancora di concludersi, però, il progetto “si è rivelato una trovata pubblicitaria”, scrive il New York Times, perché i cittadini beneficiari sono stati ridotti a un quinto, un campione troppo piccolo perché l’esperimento avesse validità scientifica.

In questo primo anno di sperimentazione, secondo il giornalista Antti Jauhainen, “Il progetto ha incentivato le persone ad accettare lavori a basso reddito e con bassa produttività”.

Antti Jauhainen

Più interessante il test avviato a Utrecht, in Olanda, dove 960€ al mese saranno distribuiti a 250 cittadini divisi in sei diversi gruppi, ognuno con una formula diversa. In uno di questi, chi rifiuta di dedicarsi al volontariato dovrà restituire i soldi a fine mese. La questione del reddito di cittadinanza è arrivata anche al Parlamento europeo, dove la maggioranza dei deputati ha respinto la proposta della deputata socialista Maddy Delvaux, che invitava a discutere della possibile introduzione di un reddito di base universale. “In questa fase, invece di discutere di tasse controverse come il basic income,riporta Euractiv.com, “I deputati hanno preferito sostenere programmi per facilitare la transizione verso nuovi lavori.”

Maddy Delvaux

Con forti dubbi sulla sua sostenibilità economica e con evidenti rischi di parassitismo da parte dei cittadini, la proposta del Movimento Cinque Stelle potrebbe anche scatenare una nuova conflittualità sociale di cui il Paese non ha certo bisogno: rispetto al vero reddito di cittadinanza, a cui avrebbe accesso solo chi ha la cittadinanza italiana, nel provvedimento proposto dei Cinque Stelle ogni cittadino residente in Italia – compresi i comunitari e gli extracomunitari con permesso di soggiorno – avrebbe diritto al minimo di 780 euro.

Dato che il reddito medio dei cittadini italiani è nettamente più alto di quello degli stranieri, è facile immaginare che proprio a questi ultimi andrà la maggior parte dei sussidi, creando malcontento in quella parte della popolazione che guarda all’immigrazione con sospetto e ostilità. E per il movimento di Grillo, che sull’immigrazione continua ad avere posizioni ambigue, potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol.

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