Opporsi al progresso non è fare la rivoluzione. È essere reazionari.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un sempre crescente utilizzo della parola “rivoluzionario” da parte di leader o esponenti politici della destra sovranista. La loro tesi parte dall’assunto che essere rivoluzionari significa opporsi alla diffusione di nuove tendenze per difendere usi e costumi del passato. Oppure, più semplicemente, a destra si è diffusa l’idea che opporsi al progresso in nome della tradizione sia un gesto rivoluzionario. Nella storia recente si è assistito di rado a un uso tanto improprio e distorto di un termine. Essere un rivoluzionario non ha mai significato opporsi al cambiamento sociale. La convinzione che il progresso sia una minaccia per le nostre radici, e che quindi vada combattuto imponendo le vecchie tradizioni, non solo è l’opposto dell’essere rivoluzionari, ma è la base dell’ideologia reazionaria.

Uno degli esempi più lampanti di questa distorsione di significato è la “rivoluzione del buon senso”, cardine della propaganda elettorale di Matteo Salvini. Eppure, nelle politiche di Salvini non solo non c’è nulla di rivoluzionario, ma è assente ogni tipo di discontinuità e rottura con il passato: la flat tax, presentata come la cura a tutti i mali della nostra economia, è una ricetta vecchia di 40 anni riciclata dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, mentre lo slogan “meno tasse per tutti” è uno dei cavalli di battaglia del ventennio berlusconiano. Per quanto riguarda la gestione del fenomeno migratorio, Salvini ha recuperato la struttura messa in piedi dal suo predecessore Minniti, integrandola con la tipica fede di destra nel sillogismo “sicurezza = blindare i confini e dare “mano libera” alle forze dell’ordine”.

Un ulteriore esempio arriva dalla posizione conservatrice, omofoba e misogina di Salvini in ambito sociale. È difficile parlare di “rivoluzione” quando si dice che “le femministe starebbero meglio con in burqa” o si incitano i sindaci del proprio partito a sabotare le unioni civili tra coppie omosessuali. Il mantra del “buon senso” è un trucco facile da replicare, ma molto redditizio in termini di consenso elettorale: si individua un nemico (per esempio la comunità LGBTQ+) e si amplificano alcune tendenze (come i matrimoni tra persone dello stesso sesso) dando loro un risalto negativo per poi opporsi in nome del “buon senso” e delle tradizioni, proclamandosi eroe della presunta rivoluzione. La realtà è che nessuna delle proposte di Salvini è rivoluzionaria, per il semplice fatto che queste non minacciano chi è al governo, né servono a dare potere e libertà al popolo che Salvini dice di amare.

Anche Giorgia Meloni e l’opinionista televisivo Diego Fusaro sono ottimi esempi della finta rivoluzione delle destre. Nel 2017 Meloni invitò gli italiani a sostenere la “rivoluzione del presepe”, tradizione abbandonata per non offendere le altre culture, almeno secondo la leader di Fratelli d’Italia. L’anno dopo Fusaro ha affermato che il matrimonio è diventato un gesto rivoluzionario, di contrasto all’oppressione che il capitalismo attua con strumenti come “l’ideologia gender” . Il meccanismo di fondo è lo stesso che ha portato alla Lega a trazione Salvini oltre il 30% di consensi: si individua un’istanza di progresso a cui contrapporsi, si teorizza una presunta forma di oppressione che minaccia le “nostre radici” e si afferma che la loro salvaguardia costituisce un atto rivoluzionario perché è “contro i potenti”. Karl Marx, che Fusaro ama citare a sproposito, sosteneva che ciò che noi oggi chiamiamo la “famiglia tradizionale”, ossia l’unione monogamica di un uomo e una donna, è uno dei capisaldi del sistema capitalista, che vuole il marito sfruttato e la moglie oppressa e rinchiusa tra le mura domestiche. Fusaro si contraddice chiaramente sul significato di una rivoluzione che difende un sistema spesso oppressivo e antiquato, soprattutto nell’incarnazione tradizionale tanto cara ai sovranisti.

Pur ammettendo che l’attuale sistema neoliberista sia effettivamente coercitivo e ingiusto, non è certo allestendo il presepe a Natale o preferendo il matrimonio religioso tradizionale all’unione civile che ci libereremo dell’oppressione capitalista. Non c’è niente di male nell’amare una tradizione natalizia o nel volersi sposare con rito religioso. Il problema è l’assurdità del ragionamento di chi definisce un gesto rivoluzionario mettere un freno al progresso laico e inclusivo della società contemporanea. Anche in questo caso le pseudo battaglie non servono nessuna rivoluzione: le dinamiche di potere non cambieranno con o senza presepe e con o senza matrimonio religioso.

La logica sovranista potrebbe arrivare a sostenere che in un’epoca in cui tutti usano la messaggistica istantanea, utilizzare un piccione viaggiatore è un gesto rivoluzionario. Ma se nel 2019 utilizzassi un piccione viaggiatore per spedire i miei messaggi non sarei un rivoluzionario; nel migliore dei casi un ingenuo, nel peggiore un retrogrado superato dalla storia. Lo stesso ragionamento dovrebbe valere per quelli che spacciano come rivoluzionarie idee e ricette politiche che appartengono a una visione del mondo superata da decenni.

Affermare che la rivoluzione coincida con la sola difesa delle tradizioni e delle nostre non meglio identificate radici, significa propagandare un’idea astratta di identità, che la vede come  immutabile e da tramandare così come lo abbiamo ricevuto, fino alla fine dei tempi. La mentalità reazionaria intende le tradizioni, le radici e l’identità di un popolo come dei feticci, o idoli sacri da “guardare ma non toccare”. La verità è che ciò che noi chiamiamo “tradizione” e “identità” è il risultato di un processo secolare di cambiamento sociale e culturale. Invece nessuno pensa che chi scrive con la sinistra sia uno strumento del diavolo, così come i sostenitori del sistema geocentrico sono considerati alla stregua di gruppi folkloristici. 

L’uso distorto del termine va anche letto all’interno del più ampio progetto con il quale la destra si è appropriata delle icone e degli slogan della sinistra. In un contesto politico-sociale come quello attuale, in cui il fallimento della sinistra viene percepito in maniera molto forte dalle classi popolari, la destra ha gioco facile nel presentarsi come l’unica alternativa per il loro riscatto. Per questo la visione della destra secondo cui rivoluzione e reazione coincidono ha preso il sopravvento nell’immaginario collettivo, soprattutto tra le fasce di popolazione meno benestanti. Il risultato è che per la destra è diventato ancora più semplice conservare lo status quo da cui trae il suo potere, distogliendo l’attenzione degli elettori dalle reali forme di oppressione come il precariato, l’allargamento del divario tra ricchi e poveri e le discriminazioni territoriali, razziali e sessuali.

Se è vero, come diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein, che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, bisogna ristabilire l’autentico significato dell’essere rivoluzionari. Se sempre più persone pensano che per essere rivoluzionari basti fare il presepe, sposarsi in chiesa e cacciare gli immigrati dal proprio quartiere, le loro azioni e decisioni in sede elettorale diventeranno le fondamenta inattaccabili del potere, uccidendo sul nascere la vera rivoluzione. Bisogna capire che essere rivoluzionari non significa opporsi al progresso, ma sfruttarlo per abbattere meccanismi di potere obsoleti e vessatori. Non bisogna fidarsi di sedicenti rivoluzionari di destra che non fanno altro che tutelare gli interessi delle classi dominanti. Né Salvini, né Meloni, né tantomeno Fusaro hanno intenzione di guidare una rivoluzione. Se si trovassero nel mezzo di una vera, sarebbero i primi, con ogni probabilità, a chiederne la repressione.

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