Nel processo a Cappato hanno vinto i diritti. E ha perso il governo.

Ieri è finalmente arrivata la decisione della Consulta sull‘articolo 580 del codice penale che equipara l’aiuto al suicidio, all’istigazione, punendo entrambe le fattispecie con una pena da 5 a 12 anni di carcere. Una decisione che tecnicamente non è un giudizio. La Consulta ha scelto di non pronunciarsi: “Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte Costituzionale ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale, sull’aiuto al suicidio, all’udienza del 24 settembre 2019.”

Come detto da più parti, si tratta di uno spartiacque. Innanzitutto, perché è un intervento che sottolinea come le norme previste dall’articolo 580 – che risale al 19 ottobre 1930 – lascino “Prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti.” Ma l’eccezionalità di questa decisione va ricercata anche nell’iter stesso del procedimento a carico di Marco Cappato.

Marco Cappato

Tutto ha inizio nel gennaio del 2017, quando Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, rimasto cieco e tetraplegico a causa di un incidente, lancia un appello al Presidente della Repubblica chiedendo di poter morire, senza soffrire, con l’eutanasia legale. L’appello però cade nel vuoto: il Parlamento non discute neanche la legge sul Biotestamento. Lo farà mesi dopo, arrivando all’approvazione di un provvedimento che regolamenta le scelte di fine vita solo a dicembre del 2017, tropo tardi per Fabiano. Il 26 febbraio però, Marco Cappato dichiara di aver accompagnato Fabo in una struttura dove avrebbe ricevuto l’aiuto medico per la morte volontaria, come avviene poi il 27 febbraio 2017. Il giorno dopo, Cappato torna in Italia e si autodenuncia per aver aiutato il Dj a morire. Il primo marzo 2017, Cappato viene indagato con l’accusa di aiuto al suicidio. I pm richiedono l’archiviazione del caso, ma il gip respinge la richiesta. Il 10 luglio 2017, dopo il respingimento di una nuova richiesta di archiviazione, il gip di Milano, Luigi Gargiulo, dispone l’imputazione coatta per Marco Cappato. “Esprimo tutto il mio rispetto per la scelta del Giudice per le indagini preliminari. Il processo sarà un’occasione per processare una legge sbagliata dell’era fascista,” dichiara il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. Il 5 settembre, Cappato stesso chiede di “andare immediatamente a processo”, saltando la fase dell’udienza preliminare fissata per il 15 novembre. “Ho chiesto il giudizio immediato perché voglio che in Italia finalmente si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi di decidere fino alla fine,” afferma. Quello di Marco Cappato è stato infatti un atto di dichiarata disobbedienza civile.

La prima udienza del processo si è tenuta il 17 gennaio di quest’anno, e meno di un mese dopo, il 14 febbraio 2018, la Corte d’Assise di Milano ha deciso di chiedere alla Consulta la valutazione della legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio contestato a Cappato.

A distanza di sette mesi, la Consulta si è espressa, dimostrando che la disobbedienza civile dell’esponente dei Radicali aveva una base più che solida, non solo umana ma anche legale. Una disobbedienza che oggi porta l’Italia un po’ più vicino alla discussione di una legge di civiltà, ma che mette il governo in una posizione molto scomoda. E qui sta forse l’aspetto più importante dell’intera vicenda.

Ieri, il Governo ha perso, e nel senso più letterale del termine. Lo scorso aprile infatti, l’esecutivo aveva deciso di costituirsi parte civile davanti alla Corte costituzionale. Una chiara scelta politica: aspettare l’ultimo giorno utile per costituirsi nel procedimento davanti alla Consulta, in modo da evitare che le polemiche potessero protarsi troppo a lungo. In questo modo però, hanno anche dimostrato di fregarsene dei 15mila italiani che avevano sottoscritto l’appello lanciato dall’Associazione Coscioni per chiedere all’esecutivo di non intervenire in difesa del reato, e dunque di non dare mandato all’avvocatura di Stato di costituirsi nel procedimento. Cappato aveva commentato sorpreso questa decisione: “Avevo capito che tra gli obiettivi di questo governo ci fosse la rapida e certa trattazione delle leggi di iniziativa popolare. Noi, da 5 anni, attendiamo l’intervento del legislatore sulla nostra legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale.”

Effettivamente basta prendere quello stravagante papello chiamato Contratto di governo – che, dal punto di vista legale, è bene ricordarlo, non ha più valore di un buon proposito annunciato al centesimo brindisi di Capodanno – per accorgersi che a pagina 36, nel capitolo intitolato “Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta” c’è proprio scritto: “È poi necessario rendere obbligatoria la pronuncia del Parlamento sui disegni di legge di iniziativa popolare, con puntuale calendarizzazione.” Evidentemente però, questa necessità dipende, non si sa bene da cosa, ma dipende.

E dire che i Cinque Stelle sono stati da sempre in prima linea nella lotta per una normativa sulle scelte di fine vita. Per esempio, nel settembre 2016, con una votazione sulla piattaforma Rousseau – sì, quella che è stata hackerata per l’ennesima volta non più di un mese fa e per cui il Garante della Privacy ha più volte bacchettato l’associazione omonima –  gli iscritti al M5S avevano votato sì alle proposte di legge su testamento biologico ed eutanasia – sì, anche sull’eutanasia. La consultazione era stata annunciata da Beppe Grillo, che parlava di un tema estremamente delicato rispetto al quale era “doverosa una presa in carico da parte delle istituzioni.” E ancora, un anno dopo, in occasione dell’approvazione della legge sul testamento biologico – che aveva visto il M5S schierarsi insieme al Pd – sul Blog delle stelle compariva un post a firma di tutto il Movimento in cui si parlava di “Giornata storica per la nostra Repubblica, che ha fatto un balzo in avanti dal punto di vista culturale e sociale.” Con i soliti toni epici, il post continuava: “Con il ‘sì’ pronunciato oggi abbiamo rimesso al centro la dignità della persona, il suo diritto di scegliere, evitando che rispetto a momenti così drammatici dell’esistenza umana vi possano essere disparità di trattamento. Questa giornata, e questa legge, vogliamo dedicarla a tutti coloro i quali, con il loro impegno, il loro esempio e il loro sacrificio, hanno reso tutto questo possibile.” Insomma, si ringraziavano anche Marco Cappato e tutta l’Associazione Luca Coscioni, principali protagonisti della battaglia per quella legge.

Solo due anni dopo però, il M5S, in veste governativa, ha cambiato idea. Ovviamente nessuno ha pensato di indire una nuova votazione sulla piattaforma Rousseau, con buona pace per la democrazia diretta. D’altronde la coerenza non è esattamente la caratteristica principale dei pentastellati. Devo ammettere poi che questo netto cambio di rotta è anche comprensibile: come si fa a sostenere una posizione favorevole al suicidio assistito quando si governa con la Lega guidata da quel Salvini, che meno di un anno fa, a chi gli chiedeva un parere sul fine vita, rispondeva “Più che di fine vita io mi preoccupo della vita”? Ma c’è dell’altro: guarda caso, chi insieme al governo si è costituito in giudizio a difesa della legge? Accompagnato dal Centro Studi “Rosario Livatino”, formato da giuristi che si occupano di diritto alla vita, e il Movimento per la vita, c’era anche un’altra associazione pro-life: Vita, rappresentata da Simone Pillon, senatore della Lega e organizzatore del Family Day. Quello stesso Pillon della “caccia alle streghe”.

Il governo del cambiamento quindi non voleva cambiare, evidentemente affezionato a una norma che porta con sé quell’inconfondibile allure del ventennio fascista. Gli è andata male questa volta. Ecco perché la decisione della Consulta è davvero storica: per una volta infatti hanno vinto i diritti, e ha perso il governo.

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