Condividere post di Pillon per ridicolizzarlo è controproducente, gli regala solo visibilità - THE VISION

Prendersi una pausa dai social è un desiderio sempre più diffuso e sentito. Specialmente ora che la rete è una delle poche occasioni di socialità permesse, sono in molti a sviluppare un senso di ansia verso Facebook o Instagram, sia per l’ormai famosa fomo (fear of missing out), la paura di perdersi qualcosa di importante, sia perché la quantità di contenuti che ci possono fare stare male o arrabbiare è diventata troppo difficile da gestire. Chi non riesce a prendersi una pausa vera e propria, disattivando per un po’ o per sempre i propri profili, cerca di rimediare riducendo al minimo le possibilità di incontrare contenuti triggeranti. Da persona che si occupa per lavoro di questioni di genere, sui social ho cercato di trovare un compromesso tra la necessità di informarmi e l’evitare di leggere in continuazione post o notizie a carattere misogino. Eppure, puntualmente li ritrovo sulla mia bacheca Facebook perché qualcuno li condivide per lamentarsene.

È successo qualcosa di analogo di recente con i post di Simone Pillon. Per settimane, sono stata informata mio malgrado di tutto ciò che il senatore leghista pensa a proposito di Fedez, dei cartoni animati che promuovono l’ideologia gender o dei super-etero. Tutto questo è successo perché molte persone hanno ripreso e commentato i suoi post, in una specie di gara al dileggio che nel giro di qualche settimana ha dato i suoi frutti: i post di Pillon hanno raggiunto migliaia di reazioni (anche se per la maggior parte di risata), mentre altrettante persone che non seguono la sua pagina li hanno visti e, soprattutto, tra le battute brillanti sono arrivati anche diversi insulti che hanno permesso al senatore di mostrarsi come “la vera vittima di questo gioco”

Simone Pillon

La ragione più ovvia per cui la condivisione compulsiva di questi contenuti è sbagliata è proprio ciò di cui Pillon e prima di lui molti altri hanno fruito: l’indignazione. Quando si condividono le dichiarazioni di un personaggio palesemente e volutamente ultra conservatore, non si sta facendo un servizio di pubblica utilità né tantomeno di sensibilizzazione specialmente se questa condivisione è frutto di una reazione istintiva in cui non si ha neanche avuto modo di riflettere su perché siamo indignati. Il rischio principale del call out è che, senza alcun contesto, si rischia di trasformare chi si fa portatore d’odio in vittima di attacchi, che vanno da giuste contestazioni a insulti personali che possono essere facilmente strumentalizzati. Il panorama italiano è pieno di personaggi (e persino di giornali) che hanno costruito la propria fortuna sullo “sparare opinioni sempre più provocatorie”, con l’obiettivo di scatenare una reazione negativa per avere un pretesto per lamentarsi del “fascismo degli antifascisti”, della mancanza di rispetto di chi è ossessionato dal rispetto, della dittatura del pensiero unico, e così via.

Vittorio Feltri

Come insegna il filosofo Byung Chul-Han, tutto ciò che è volto a suscitare un’emozione immediata che deve essere subito scaricata addosso a un obiettivo, tornerà utile a qualcuno. La fortuna dei populismi negli ultimi anni è stata spiegata proprio dalla capacità dei leader di generare emozioni negative contro un determinato gruppo sociale e capitalizzarle in voti e consensi. Questo accade anche nelle nostre interazioni su internet: il call out, anche quando viene fatto con le migliori intenzioni, è una risposta al bisogno di prendere le distanze da affermazioni che sono state scritte per ottenere precisamente quella reazione. La nostra indignazione diventa lo strumento più potente con cui possiamo diffondere i messaggi d’odio che, rielaborati nell’isteria collettiva, arriveranno anche a chi è pronto ad accoglierli. Perché tra un’interrogazione parlamentare sulla stregoneria e un commento sugli outfit di Achille Lauro a Sanremo, Pillon parla anche di alienazione parentale e ideologia gender, argomenti su cui è meno facile fare battute sagaci e che, soprattutto, incontrano il favore di buona parte degli italiani, anche dei più moderati.

Achille Lauro sul palco di Sanremo, 2021

Nel suo ormai classico saggio sulla comunicazione politica Non pensare all’elefante!, il linguista George Lakoff ha dimostrato come la ripetizione di messaggi conservatori riesca, nel tempo, a fare breccia persino nei progressisti. Prendendo a esempio la politica statunitense, Lakoff spiega come solo il 25% degli elettori possa essere considerato “conservatore estremo”, ma ciò non impedisce al partito repubblicano di monopolizzare il discorso pubblico proprio intorno agli argomenti più estremisti. Nel caso dell’aborto, per esempio, c’è una spasmodica e ingiustificata attenzione nei confronti dell’aborto nel terzo trimestre, un evento rarissimo ma che si è ormai imposto nell’immaginario comune quando pensiamo a come avviene un’interruzione di gravidanza. Continuando ad amplificare la voce di chi descrive l’aborto come una procedura scioccante e violenta, molte persone progressiste si sono convinte che sia così. Un’operazione simile è quello che sta accadendo nei confronti della legge Zan contro l’omolesbobitransfobia, ostaggio dell’ostruzionismo di un altro senatore leghista, Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia al Senato, che da settimane rimanda la calendarizzazione della discussione. I giornali sembrano interessati solo a quello che dice Pillon, alle sue polemiche e alle sue affermazioni. E questo perché glielo abbiamo permesso noi. 

George Lakoff

Ovviamente, anche il giornalismo ha le sue responsabilità nell’amplificare i messaggi d’odio. Ogni volta che qualcuno dice in pubblico qualcosa di razzista, sessista e omofobo, le sue esatte parole vengono riportate in un virgolettato che viene usato come titolo dell’articolo, accompagnato da parole come “gaffe”, “scivolone”, “bufera”. La diffusione della notizia decontestualizzata, senza che si evidenzi come certi episodi siano frutto di un contesto culturale discriminatorio, serve solo a normalizzare il linguaggio d’odio e a favorire la percezione del ben già consolidato frame “non si può più dire niente”. Gli altri Paesi si guardano bene dal bollare come “papera” l’uso della n-word sulla tv nazionale. Quando la parola è stata usata in un servizio di radiogiornale, il direttore della Bbc si è scusato per aver permesso l’utilizzo di un “racial slur”: un insulto razzista, non una gaffe. 

Tale e quale show

È chiaro che evitare di riportare parola per parola l’hate speech non significa ignorare queste notizie, così come smettere di correre dietro a ogni dichiarazione problematica sui social non vuole dire aver risolto il problema delle discriminazioni in Italia. La strategia che la sinistra ha adottato contro la famosa “bestia” di Salvini – fare finta che non esista – non ha dato grandi risultati. Questo, però, perché al disinteresse verso il trend topic salviniano del giorno non si è accompagnato nulla.

Secondo il Center for Journalism Ethics, parlare di hate speech è necessario, ma farlo male rischia di avere più conseguenze negative che positive. Siccome il ruolo del giornalismo, e dell’informazione in generale, non è quello di farsi mero megafono di ciò che dicono gli altri, bisognerebbe sempre chiedersi se valga la pena elevare a notizia ogni frase d’odio, anche quella che senza la nostra attenzione sarebbe passata sottotraccia. È importante non solo analizzare ogni episodio in un contesto politico, sociale e culturale più ampio, ma anche dare voce a chi di quell’odio è vittima, e non limitarsi solo alla denuncia di chi odia. 

Matteo Salvini

Un altro aspetto importante, e forse ancor più ignorato degli altri, è che per qualcuno leggere o sentire in continuazione i discorsi d’odio di cui è vittima può essere un’esperienza difficile. Bisognerebbe prestare particolare attenzione nella diffusione delle parole, e ancor più delle immagini, che riguardano gli episodi di discriminazione. Una vittima di omofobia non ha bisogno di vedere a ripetizione il video di un’aggressione come quella della metro di Roma per sapere che l’omofobia è un problema reale. Al contrario, immagini del genere potrebbero risvegliare sintomi di disturbi post-traumatici, di cui la popolazione LGBTQ+ soffre in percentuale maggiore rispetto a quella eterosessuale. E proprio perché in qualsiasi tipo di discriminazione la violenza fisica è solo la punta dell’iceberg, la diffusione di immagini che la mostrano esplicitamente serve ben poco a sensibilizzare. Difatti, gli stessi politici che avevano commentato con condanna il video dell’aggressione di Roma, oggi ostacolano la legge Zan o addirittura usano l’accaduto per dimostrarne la presunta inutilità

Per eradicare la cultura dell’odio c’è bisogno di leggi, ma soprattutto di uno sforzo educativo comune, che significa anche non trasformarsi in megafoni di quella stessa cultura che, come abbiamo modo di constatare ogni giorno guardando la tv, leggendo i giornali o seguendo i social, ha già abbastanza occasioni per diffondersi senza il nostro aiuto.

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