I brand hanno aiutato il Pride o se lo sono comprato?

E adesso il problema sono gli sponsor. Arrivati quasi alla fine dell’edizione più partecipata di sempre dell’Onda Pride, la catena di parate che da giugno a settembre percorre l’Italia, il movimento Lgbt+ si chiede se sia giusto o meno dare spazio alle aziende private ansiose di porre il loro marchio sulla manifestazione. Fino a qualche anno fa, non l’avrebbero fatto nemmeno se le avessero pagate. Oggi c’è la fila. Una novità inattesa, che ha riguardato soprattutto l’edizione di Milano supportata anche da Coca-Cola, Netflix, Amazon, Deliveroo, Google, Microsoft. Persino Unicredit ha dato il permesso di illuminare con i colori dell’arcobaleno la torre di Piazza Gae Aulenti. Sarebbe rimasta una discussione interna al movimento. Poi è arrivato il ministro degli Interni Matteo Salvini, che se l’è presa con le multinazionali come Coca-Cola “che vanno a sponsorizzare le parate dell’Orgoglio per vendere qualche lattina in più,” e allora la questione è esplosa.

Certo, nel migliore dei mondi possibili il movimento Lgbt+ potrebbe fare a meno degli sponsor. Il coinvolgimento di alcune aziende come Deliveroo – con le scarse tutele che garantisce ai propri riders – può non incontrare il consenso di tutti. I veri problemi però sono altri. Quella dei Pride è l’unica opposizione di piazza al governo giallo-verde attualmente in piedi. Mezzo milione di persone sono scese per le strade a Roma, 250mila a Milano. Decine di migliaia in molte delle altre 20 parate che stanno avendo successo soprattutto nelle città dove gli organizzatori si sono scontrati con le istituzioni locali: Genova, Perugia e Trento per nominarne alcune. Il movimento Lgbt+ si è allargato, e l’ha fatto molto in fretta. Abbiamo bisogno di soldi per organizzare incontri, strutturarci, diventare un punto di riferimento per un campo politico e sociale che oggi è orfano di moltissimi riferimenti. Gli sponsor ci possono aiutare a farlo. Siamo nelle condizioni di dire no grazie? Non credo. Gli sponsor possono aiutare. Usiamoli.

Bisogna ammettere una cosa. Chi si oppone ai finanziatori solleva obiezioni sensate. Enrico Gullo su Gaypost ha fatto un’ottima sintesi: le aziende non sono soggetti neutri, ma portatrici di senso, e valori. Delle rivendicazioni Lgbt+ prendono il pezzetto che più gli interessa, quello che ritengono più presentabile: la retorica dell’amore che vince su tutto, la famiglia, la libertà dell’individuo. Tutto il resto rischia di essere messo da parte. Non ho mai visto un’azienda mainstream che associ il suo nome alla relazioni poliamorose o al diritto di vivere una sessualità kinky liberamente. E non che credo che la vedrò a breve. Il pink-washing, poi, è una realtà. È facile per un’azienda che comprime i diritti sindacali, passa sopra al diritto di disconnessione del singolo, e costruisce profitti sulla precarizzazione, stendere una mano di rosa sulla sua immagine dando quattro soldi agli organizzatori della parata Lgbt. Semplice quanto dipingere il proprio logo con i colori dell’arcobaleno per una settimana. Ma l’ipocrisia di alcuni sponsor basta per dire no a tutti?

Consideriamo prima di tutto i lavoratori. Oggi molte persone in Italia lavorano in aziende dove reputano sia più prudente non dichiarare il proprio orientamento sessuale. Tanto che a Torino il Coordinamento arcobaleno ha creato insieme ai sindacati un vademecum per difendersi dalle discriminazioni sul lavoro. Se solo un’impresa di quelle che aderiscono al Pride iniziasse a promuovere una migliore inclusione dei suoi dipendenti Lgbt+, sarebbe già un passo avanti.

Secondo, si avvicinano ai Pride soprattutto le grandi multinazionali. Non ho mai visto i lavoratori di Fiat e Fincantieri portare il loro striscione in parata o Fs dipingere di arcobaleno il suo logo – Alitalia l’ha fatto. La strada per dipingere di arcobaleno le aziende è ancora lunga, qualche multinazionale è una rondine che forse annuncia primavera, forse no. Infine che piaccia o meno – a me non piace – oggi una buona fetta di welfare sociale è stato “appaltato” alla contrattazione aziendale. E questo welfare riguarda anche le specifiche richieste delle persone Lgbt+.

Gli esempi sono moltissimi: paternità, maternità, copertura sanitaria e previdenziale allargata al coniuge. In alcuni casi le aziende hanno preceduto le previsioni di legge. Non è poco.

È così indifferente provare a portare dalla propria parte le imprese che, soprattutto in Italia, non sono poi così aperte al tema della diversità di genere e orientamento sessuale? A me pare di no.

Ultimo punto, i soldi.

C’è chi dice che le imprese, quando sono particolarmente coinvolte nell’organizzazione del Pride, possono ridurre la nostra libertà, darle il verso che più gli piace. È un ragionamento sensato, ma è anche vero che senza grandi risorse possiamo fare poco. In un’intervista a Lettera43, Franco Grillini si schierava contro Dolce e Gabbana, affermando che gli stilisti – al contrario di Elton John – non tirano mai fuori un soldo per il movimento Lgbt+, e che “noi andiamo avanti di volontariato non pagato, da sempre.”

Dimentichiamo per un attimo Stefano Dolce e Domenico Gabbana. Concentriamoci sui soldi. Il volontariato è una cosa buona e giusta. È bello poter dire “tutto questo è stato realizzato grazie all’impegno dei volontari.” Ma è anche un modo per fermarci al punto dove siamo arrivati. Non andare oltre, non fare altro. Arriva un momento in cui bisogna avere fondi per l’occupazione del suolo pubblico, risorse per organizzare piazze dove radunare e far incontrare le persone, stipendi da assicurare a chi decide di dedicarsi a tempo pieno all’organizzazione delle manifestazioni, alle relazioni politiche, al sostegno legale e tutto il resto.

Facciamo tutte le critiche che vogliamo al Pride di Milano. Poi però ricordiamo che sul palco della manifestazione è salita anche una giovane donna trans e rom, che ha rivendicato il diritto di non essere discriminata per il suo genere e la sua etnia. Oggi quale movimento è in grado di promuovere gli stessi temi davanti auna platea di 250mila persone? Ha risposto a questa domanda Simone Alliva sull’Espresso: oggi i Pride sono l’unica grande opposizione in campo contro lo strapotere politico e mediatico della Lega, gli unici eventi che riescono a coinvolgere una generazione che sindacati e partiti hanno perso per strada. Se c’è un modo per sfruttare le loro potenzialità al massimo, perché non farlo. Hanno una responsabilità, in questo senso, anche di fare le cose più in grande possibile, mettendo in campo forze che adesso non hanno e diventando un punto di riferimento (in parte lo sono già) anche per chi parla di immigrazione, diritto alla casa, disoccupazione giovanile, discriminazione di genere, fine vita, liberalizzazione delle droghe, laicità della scuola e molto altro ancora.

Sono abbastanza vecchio da ricordarmi quando la gay-street milanese era in Via Sammartini, stretta tra i binari della Stazione Centrale e i palazzi, una piccola sequenza di locali spesso poco frequentati. Ora Porta Venezia è diventato il quartiere rappresentativo della comunità Lgbt. Per celebrarlo, Netflix nei giorni del Pride ha colorato di arcobaleno tutta la stazione della metro. Forse se ne può fare a meno. Poi però penso ai miei diciotto anni. A cosa voleva dire affrettarsi per Via Sammartini nella speranza di non farsi vedere e infilarsi nel primo locale che capitava. Penso a cosa può dire adesso, per i ragazzi, scendere dalla metro di Porta Venezia ed essere accolti da una stazione arcobaleno. E penso a quanto sia importante che tutto ciò accada in questi giorni, gli stessi in cui un ministro gli racconta che la famiglia che hanno in mente per il loro futuro non esiste e non esisterà mai.

Il denaro non è lo sterco del diavolo. Non lo è sempre almeno. Serve per fare cose più grandi, migliori. Ci si sporca le mani? Sì, a volte ci si sporca le mani. Si può anche decidere di combattere a mani nude – ma immacolate – contro un ministro degli Interni che – lo dice da papà – combatterà finché ha sangue nelle vene per dare a ogni bambino un padre e una madre. La sua dichiarazione di impegno suona come un modo gentile per dire che combatterà fino alla fine perché i padri gay e le madri lesbiche e quindi i loro figli  abbiano, per quanto è in grado di intervenire lui, una vita il più di merda possibile. Lui problemi di soldi non ne ha. È segretario di un partito che, secondo i giudici, si è portato a casa senza averne diritto 49 milioni di euro di soldi pubblici.

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