A Milano ci sono sempre più famiglie che non hanno nulla da mangiare - THE VISION
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Negli ultimi anni, la narrazione sulla Milano “locomotiva d’Italia” è stata una costante del dibattito pubblico. Inclusiva, vivibile, operosa, questa città non è stata piegata nemmeno dalla pandemia, ma al di là degli orti urbani e dei grattacieli con il verde verticale Milano nasconde una realtà ben diversa. Nel suo report La fame non raccontata, ActionAid ha raccontato le conseguenze del Covid-19 sulla povertà alimentare in Italia e in particolare nel territorio metropolitano di Milano. In tutto il Paese, le richieste di aiuti alimentari nell’ambito del programma “Fondo di aiuti europei agli indigenti” sono aumentate quasi del 30% rispetto allo scorso anno. In alcune mense, a Milano, si è raggiunto un picco del +75%, cosa che dimostra quanto la povertà alimentare sia un problema sempre più diffuso.

Con il concetto di povertà alimentare non ci si riferisce soltanto alla scarsità o alla mancanza di cibo da mettere in tavola, ma a una più ampia condizione che riguarda anche la possibilità di scelta, la qualità del cibo, l’accesso a una dieta sana e le conseguenze emotive e sociali legate allo stigma che ne deriva. Negli ultimi anni, si è finalmente capito che una cattiva dieta non riguarda tanto la pigrizia o la golosità delle singole persone, quanto le condizioni materiali in cui vivono. I cibi sani sono infatti sempre più costosi, mentre scendono i prezzi di cibi che danno un senso di sazietà perché molto processati, ma questi non sono salutari. Anche i sistemi di conservazione e di cottura del cibo influiscono negativamente sulla qualità dell’alimentazione, così come la quantità di tempo che si ha a disposizione per curare la propria dieta.

La povertà o insicurezza alimentare è un indicatore molto affidabile per misurare la povertà degli italiani, considerando che la spesa per il cibo è più flessibile rispetto ad altre spese fisse – come rate, bollette o mutui. Nella sua indagine, ActionAid ha deciso di concentrarsi su Milano per due motivi: il primo è il preoccupante aumento del numero di persone in stato di povertà assoluta nelle aree periferiche metropolitane, che è passato dal 4,8% al 7% nel giro di un anno; il secondo è che più della metà del totale degli assistiti dal Banco alimentare nel 2020, in Lombardia, sono concentrati proprio a Milano e provincia.

Negli ultimi dieci anni, nel capoluogo lombardo sono state aperte numerose mense per i poveri, come il Refettorio ambrosiano della Caritas, aperto in concomitanza dell’Expo nel 2015 e una nuova sala dell’Opera San Francesco, inaugurata nel 2017. Nel 2015, a Cinisello Balsamo è stato aperto il Social Market, un supermercato in cui persone in difficoltà possono acquistare alimentari e prodotti per l’igiene a prezzo di costo. Nello stesso anno, un progetto simile è stato intrapreso dalla Caritas Ambrosiana, che nel frattempo ha aperto altri dieci punti vendita in tutta Milano. Lo stesso ha fatto il Progetto Arca a Rozzano, nel 2018. Si sono moltiplicate anche le iniziative di mutualismo che si occupano anche della distribuzione di pasti e dell’organizzazione di pranzi popolari, come Ri-Make nato nel 2014 a Bruzzano, o le Brigate di solidarietà per l’emergenza, organizzate durante la pandemia ma ancora funzionanti. Nell’indagine di ActionAid – che ha coinvolto la mensa “La Speranza” di Corsico e i supermercati solidali Social Market, Emporio della Solidarietà di Baranzate e Bottega Solidale di Rozzano – si è visto come queste quattro associazioni siano passate dall’aiutare 671 famiglie nel 2019, a 1151 nel 2020. Il 63% dei richiedenti si era rivolto ai servizi già prima della pandemia e l’81% è poi costituito da donne.

Un così alto numero di donne ha diverse ragioni: la prima è che la donna è solitamente la figura preposta a occuparsi della spesa e della gestione del cibo in famiglia. Come è emerso dalle interviste riportate anche dai giornali, molte donne mettono al primo posto l’alimentazione degli altri membri della famiglia, arrivando così a privarsi del cibo per far sì che i figli o il marito mangino. Questo fenomeno di femminilizzazione della povertà è stato osservato in molti altri contesti e rende le donne le principali responsabili della gestione delle risorse familiari. Pur essendo molto difficile quantificare quante siano le donne in stato di povertà – dal momento che le analisi prendono spesso in considerazione il nucleo familiare e non i suoi singoli componenti – molti indicatori suggeriscono che le donne stiano diventando sempre più povere, Paesi ricchi compresi. Un secondo motivo è che le donne che si rivolgono a questi centri nella maggior parte dei casi non lavorano e procurarsi comunque il cibo, sottolinea il rapporto, è un modo per sentirsi utili ai bisogni della famiglia.

Alla questione di genere si aggiunge poi quella migratoria: più della metà delle famiglie intervistate da ActionAid è originaria di altri Paesi ma vive in Italia da almeno cinque anni. Spesso al problema del cibo si aggiunge quello della casa: se Milano ha raggiunto prezzi proibitivi per gli affitti, trovare un alloggio è ancora più complicato per una persona straniera, che spesso deve confrontarsi pure con il razzismo dei proprietari. Tuttavia, la situazione economica è peggiorata anche per gli italiani: in questo caso si tratta più spesso di singoli individui piuttosto che di interi nuclei familiari, spesso non originari di Milano, anziani, disabili o con figli disabili. Queste persone, spesso già in condizioni di ristrettezza economica prima della pandemia, con il Covid-19 sono state messe definitivamente in ginocchio: molte hanno infatti perso il lavoro o hanno dovuto rinunciarvi per l’impossibilità di badare ai figli nel periodo di didattica a distanza.

“Durante il periodo di pandemia più duro, da febbraio a maggio 2020, avevamo un circuito ampio, a cui si rivolgevano singole persone di tutta la zona. Si trattava soprattutto di persone che in quel momento non riuscivano a lavorare e non erano abituate a chiedere aiuto”, mi racconta Piero Maestri, volontario di Ri-Make. Il suo racconto rispecchia ciò che emerge da report come quello di ActionAid o della Caritas. “Da ottobre dell’anno scorso abbiamo scelto una modalità più legata al quartiere. Siamo entrati in contatto con un gruppo di 80-100 famiglie delle case popolari di Bruzzano e, nel momento più intenso, abbiamo portato un aiuto alimentare a 25 nuclei. La maggior parte arrivava da situazioni preesistenti rese più difficili dalla pandemia, soprattutto per quanto riguarda le famiglie straniere e quelle numerose”. Per Ri-Make, l’aiuto alimentare resta fondamentale, ma il vero obiettivo è quello di creare un’opportunità di reddito. “Vorremmo cominciare a organizzare cene e catering con alcune donne magrebine che frequentano lo spazio per costruire una forma di alternativa. Gli aiuti sono importantissimi, ma non bastano”.

È difficile accorgersi di queste situazioni in una città come Milano, intrappolata in un racconto che si scontra con una realtà spesso molto più difficile di come la si descrive. Il disagio economico è una realtà molto diffusa in un territorio che ha il costo della vita più alto in Italia e dove i prezzi degli affitti rendono il suo capoluogo la tredicesima città più cara al mondo e la quinta in Europa. Alle effettive difficoltà materiali, si aggiunge poi lo stigma legato alla povertà in un luogo che ha fatto della retorica lavorista una specie di brand. Tutte le parole sulla “Milano che lavora” finiscono con l’escludere chi un lavoro non lo ha, perché non lo riesce a trovare in alcun modo o ne resta escluso a causa del razzismo istituzionale o dell’abilismo: il 37% delle persone intervistate da ActionAid riceve il reddito di cittadinanza, il 19% la disoccupazione, il 7% è in cassa integrazione, il 4% un sussidio di disoccupazione, il 4% assegni o indennità di accompagnamento, l’11% invalidità civile. Senza contare i cosiddetti working poor, persone che pur avendo uno o più lavori non riescono a superare la soglia della povertà. Ritrovarsi senza soldi in fila a una mensa dei poveri, o per ricevere un pacco alimentare, viene visto come una vergogna difficile da sopportare. Il senso di umiliazione e imbarazzo aumenta l’esclusione sociale e di conseguenza rende ancora più difficile uscire dalle situazioni di marginalizzazione.

Milano sarà pure una città che può vantare la sua eccellenza rispetto al resto d’Italia, ma è un posto dove questa stessa eccellenza diventa sempre più inaccessibile. Pochi anni fa, il capoluogo lombardo era stato nominato come la città più vivibile d’Italia. Diventa sempre più chiaro, però, che questo vale forse solo per chi se lo può permettere.

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