La pandemia ha fatto perdere 400mila posti di lavoro. E a pagare sono sempre giovani e donne.

Lo scorso 11 marzo il governo ha presentato le prime misure per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In quella occasione, il ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri ha promesso che nessuno avrebbe perso il lavoro a causa del Coronavirus. I dati diffusi dall’Istat relativi all’occupazione nel mese di aprile hanno però smentito l’impegno assunto dall’esecutivo, dimostrando che il lockdown ha avuto un effetto disastroso sullo stato del mercato del lavoro italiano.

Rispetto al mese di marzo 2020, l’Istituto nazionale di statistica ha registrato una netta diminuzione dell’occupazione, con oltre 270mila lavoratori che avrebbero smesso di svolgere la loro attività. Durante l’intera durata delle misure di contenimento si è registrato una diminuzione complessiva di 400mila unità, dato destinato a crescere ancora e a colpire più le donne rispetto agli uomini e i lavoratori autonomi rispetto ai dipendenti. A pagare il prezzo più salato di questa crisi sono le persone che godono di minori tutele, ribadendo il fatto che non siamo tutti uguali davanti all’emergenza sanitaria.

Il dato più preoccupante rilevato dall’Istat riguarda però il numero di persone in cerca di un’occupazione. Oltre 300mila donne sono uscite fuori dal mercato del lavoro, quasi il doppio rispetto agli uomini. Il mantra del ricorso massiccio allo smart working che avrebbe consentito una migliore conciliazione dei tempi tra vita privata e impegni professionali non ha trovato riscontro nella realtà italiana, dove è ancora troppo radicata una visione che delega alle sole donne la gestione della casa e degli impegni familiari. Una delle conseguenze è che se il numero di posti di lavoro diminuisce sono le madri a doversi fare da parte per prime.

I dati di oggi presentano anche il paradosso di un drastico calo del tasso di disoccupazione dall’8% al 6,3%, dato più basso dall’inizio della crisi del 2008. Anche il tasso di disoccupazione giovanile è calato, passando dal 26,5% al 20,3%, il livello più basso degli ultimi 12 anni. È un dato che ha colto di sorpresa molti analisti, che avevano previsto un aumento del tasso di disoccupazione fino al 9,5%. Si tratta di un calo che deve preoccupare, e molto. Molte persone, infatti, hanno smesso di cercare lavoro a causa della crisi, creando un’ulteriore frattura nel mercato del lavoro italiano e allargando il già pesante divario tra gli inclusi e gli esclusi. Il forte aumento degli inattivi rilevato dall’Istat non fa altro che confermare una divisione sempre più marcata tra chi nel Paese ha un reddito da lavoro e chi ha addirittura smesso di cercarlo.

In questo scenario uno dei provvedimenti più discussi messi in campo dal governo italiano è stato il blocco dei licenziamenti per cui i datori di lavoro italiani non possono licenziare i propri dipendenti per ragioni economiche fino al 17 agosto 2020. Il limite è che la misura mira a tutelare soltanto i lavoratori assunti con contratti a tempo indeterminato, con il risultato che i lavoratori con forme contrattuali meno tutelanti hanno subito gli effetti più gravi del rallentamento dell’economia. I lavoratori stagionali e moltissimi collaboratori con partita Iva hanno visto annullate le proprie fonti di reddito, mentre i sussidi disposti dal governo – come i 600 euro una tantum per gli autonomi – non si possono certo considerare una soluzione strutturale alla precarietà di milioni di lavoratori nel Paese.

Il Decreto Rilancio ha anche cercato di tutelare i rapporti di lavoro a termine avviati prima dell’inizio della pandemia. Il Decreto Dignità, fiore all’occhiello del M5S, aveva limitato la possibilità di prorogare e rinnovare rapporti di lavoro a tempo determinato, introducendo specifiche causali senza le quali il rapporto si converte a tempo indeterminato. Queste causali sono state eliminate dal Decreto Rilancio per i lavoratori assunti alla data del 23 febbraio. Si tratta di un’eccezione limitata nel tempo che, al momento, avrà efficacia fino al prossimo 31 agosto. Inoltre, è un intervento tardivo che non tiene conto di tutti quei contratti scaduti sia prima che durante la pandemia. L’Istat ha infatti certificato che ad aprile sono cessati 129mila rapporti a termine, con un calo del 4,6% rispetto a marzo. Il magro risultato dell’esecutivo sembra quindi aver solo rimandato a settembre dei licenziamenti inevitabili. Si è cercato di limitare la risoluzione di alcuni rapporti di lavoro che con ogni probabilità avverrà comunque il prossimo 1 settembre.

Il governo Conte ha solo cercato di limitare i danni, guardando soprattutto a chi ha già un lavoro stabile, perpetrando un’antica abitudine della politica italiana. Nonostante i ritardi con cui è erogata la cassa integrazione, infatti, assicurare per legge la stabilità dei posti di lavoro a tempo indeterminato rappresenta una garanzia per quasi 15 milioni di italiani. Le stesse tutele non possono essere applicate ai 3 milioni di dipendenti a termine e agli oltre 5 milioni di lavoratori autonomi. Per queste persone lo Stato deve necessariamente trovare e mettere in moto il prima possibile una strategia di lungo periodo. I soggetti meno tutelati del mercato del lavoro hanno ancora più bisogno degli altri di una solida rete di welfare pubblico in grado di fornire servizi di assistenza e formazione, evitando di trascurare i centri per l’impiego pubblici e di favorire i canali privati per la gestione della domanda e dell’offerta di lavoro.

Chi pensa di mettere in campo un Reddito di cittadinanza bis o di estenderlo è però stato smentito dalla Corte dei Conti, che nel suo rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica ha espresso un giudizio molto severo sugli effetti che la misura ha avuto nel mercato del lavoro. Le politiche attive collegate all’erogazione dello strumento di sostegno al reddito si sono rivelate insufficienti, tanto che soltanto il 23,5% delle persone che hanno beneficiato del reddito ha cercato poi lavoro tramite i centri per l’impiego e solo il 2% ha effettivamente trovato lavoro tramite i canali pubblici. Questo dato racconta meglio degli altri il fallimento di chi immaginava un incontro immediato tra domanda e offerta di lavoro a seguito della riforma.

Anche sul fronte dell’assistenza agli indigenti il reddito di cittadinanza ha mostrato più di un limite. La Corte dei Conti ha fatto notare che il sussidio è stato destinato soprattutto a singoli individui, a discapito delle famiglie numerose che si trovano sotto la soglia di povertà. Inoltre, il requisito dei dieci anni di residenza richiesto agli immigrati regolarmente presenti in Italia ha molto ridotto l’utilizzo di questo strumento da parte degli stranieri. A fronte di questi limiti, i giudici raccomandano un maggiore coinvolgimento dei servizi sociali gestiti dai comuni e la cooperazione con le realtà del cosiddetto terzo settore che operano in Italia. L’appello dei giudici è di aiutare chi si trova realmente in condizioni di indigenza senza cadere nella tentazione di semplificare una realtà sociale complessa.

Nelle misure varate finora dal governo per fronteggiare la crisi pesa la mancanza di progetti di largo respiro in grado di includere le donne e i giovani nel mercato del lavoro. Lo smart working rimane ancorato a una logica emergenziale costringendo i lavoratori a controllare ossessivamente gli strumenti aziendali in attesa di una email o di una comunicazione, smentendo di fatto il diritto alla disconnessione. Il lavoro agile doveva essere lo strumento del futuro, ma il cumulo di attività domestiche e professionali sulle spalle di molte lavoratrici lo rende decisamente un tuffo nel passato. Anche il percorso di inserimento dei giovani rimane ancorato al passato con l’instaurazione di tirocini con rimborsi spese minimi o all’apertura di una partita Iva di comodo. Secondo Bankitalia la crisi che sta attraversando l’occupazione in Italia comporterà la perdita di quasi 900mila posti di lavoro ed è facile immaginare che le aziende chiederanno ancora maggiore flessibilità alle persone disposte a tutto pur di trovare un’occupazione.

La crisi economica che stiamo attraversando rischia di lacerare un tessuto sociale già compromesso, con effetti gravi sulle condizioni dei lavoratori meno tutelati. Non possiamo permetterci di dimenticare le condizioni del mercato del lavoro di quattro mesi fa e fingere che l’epidemia ci abbia danneggiato tutti allo stesso modo. Non lasciare indietro nessuno significa dare un’opportunità a chi è stato escluso fino a oggi, come ha ribadito la realtà tratteggiata dall’Istat. Il nostro compito è pretendere un futuro migliore, dove sia garantito un mercato del lavoro più inclusivo e, di conseguenza, una società più equa. Non dobbiamo rinunciare a chiedere una strategia politica che trovi davvero una soluzione alla povertà, e non si limiti ad annunciare da un balcone di averla sconfitta.

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