Dalle Ong a Riace. La politica deve smettere di usare la Giustizia come bandiera.

Il ministro dell’interno Matteo Salvini ha concluso il suo mercoledì 2 ottobre con questo tweet:

Al di là delle discutibile scelta su come passare il proprio momento relax – non nutro alcun dubbio sull’immenso potere taumaturgico dei balletti in slip di Bettarini, capaci di far sentire intelligente chiunque – è interessante soffermarsi sulle “soddisfazioni” del ministro. Fra queste, c’è sicuramente l’ordinanza d’arresto emessa dalla Procura di Locri nei confronti di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e artefice del più riuscito modello di integrazione di tutto il Paese.

Dalla lettura dell’ordinanza si è appreso che il sindaco non è accusato di essersi arricchito grazie al cosiddetto “business dei migranti”, come specificato dal Gip stesso.  Lucano è invece accusato di aver architettato dei pericolosissimi “matrimoni di convenienza” tra cittadini italiani e stranieri, con lo scopo di consentire la permanenza in Italia di questi ultimi (non è specificato quanti siano questi casi, potrebbero dunque essere un paio, come centinaia). Il sindaco avrebbe affidato direttamente e senza gara di appalto la raccolta e il trasporto dei rifiuti del comune a due cooperative sociali per le quali lavorano principalmente migranti, ma che non avrebbero i requisiti di legge necessari. Lascio ai giuristi la riflessione sull’effettiva necessità di ricorrere all’arresto per capi d’accusa come questi – soprattutto a fronte di quei casi in cui un sindaco viene arrestato per mafia, ma capita che la Cassazione annulli il provvedimento.

Giuseppe Nicosia, ex sindaco di Vittoria (RG), accusato di scambio elettorale politico-mafioso

Ieri abbiamo assistito all’ennesimo episodio frutto di questo meccanismo, per cui una o più parti politiche, allo scopo di sostenere e giustificare le proprie azioni, si appropriano di una vicenda giudiziaria. Un meccanismo il cui unico risultato è quello di far danni.

Da Matteo Salvini a Carlo Sibilia, passando per Giorgia Meloni e Roberto Fiore, l’ordinanza d’arresto è stata elevata a dimostrazione matematica della bontà del “tutti a casa loro”.

Una prassi deleteria: innanzitutto perché diffonde un sentimento giustizialista ingiustificato, che non tiene conto di uno dei principi fondamentali di uno Stato di diritto, per cui un soggetto può dirsi colpevole sono dopo sentenza definitiva. Capisco che sia troppo aspettarsi pensieri più elaborati da parte di una persona che ha espresso più volte la propria convinzione che lo sbarco sulla Luna sia stato una farsa – anche se da un sottosegretario del ministro dell’Interno sarebbe lecito pretendere giusto qualche conoscenza in più.

Così, mentre il finale dell’inchiesta Xenia è tutto da definire, l’arresto del sindaco è servito a far passare il pericoloso messaggio che nessuna integrazione è possibile.

La politicizzazione delle vicende giudiziarie è un meccanismo che da sempre caratterizza il dibattito politico italiano, ma negli ultimi tempi ha interessato quasi esclusivamente il tema migranti, declinato come necessità di contrasto all’immigrazione clandestina. E conta poco l’appartenenza politica a un preciso schieramento: l’utilizzo dell’azione giudiziaria come bandiera politica è un fenomeno trasversale, che colpisce sia la destra, sia la sinistra.

Nella stessa giornata è stata diffusa anche la notizia dell’ennesima sentenza di assoluzione per i cosiddetti “scafisti per necessità”. Quattordici presunti scafisti africani sono stati assolti dalla terza sezione penale del tribunale di Palermo “perché il fatto non sussiste”, in quanto è stato loro riconosciuto lo “stato di necessità”. Il collegio ha deciso l’immediata scarcerazione dei quattordici che si trovavano in carcere da due anni e quattro mesi. Accusati di avere condotto sette gommoni e di avere tenuto la rotta, il 29 maggio 2016, in seguito allo sbarco a Palermo, vennero fermati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e ingresso illegale nel territorio dello Stato. Dopo più di due anni in carcere, è arrivata la sentenza di assoluzione in primo grado. E puntuale è arrivato anche il tweet del ministro Salvini, con la richiesta alla Giustizia di fare la sua parte – chiaramente il miglior modo per non mettere pressione all’indipendenza dei giudici e tenere separate politica e giustizia.

Il fenomeno degli scafisti per necessità è figlio di una delle bandiere politiche più in voga degli ultimi tempi, impugnata a turno dai vari partiti: la “guerra ai trafficanti”, di cui il governo Renzi, appoggiato dalle istituzioni europee, è stato il primo fautore. In questa guerra, tuttavia, si è spesso fatta confusione tra scafisti e trafficanti di esseri umani. Era l’aprile 2015 quando l’allora premier Renzi dichiarava alla Camera che “Combattere gli scafisti è una battaglia di civiltà,” mentre il ministro dell’Interno di quel governo, Angelino Alfano, fissava l’obiettivo: affondare i barconi degli scafisti prima che partissero. E quello era un governo di centro-sinistra.

Angelino Alfano

Da allora però, associazioni e inchieste giornalistiche – tra cui da quella del Guardian del 2014 – hanno dimostrato che gli scafisti spesso non sono trafficanti; che, da quando è stato istituito il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, i veri trafficanti non pilotano più i barconi o i gommoni, ma costringono i migranti stessi, spesso minorenni, a farlo. Oggi la situazione non è cambiata: dal 2013 a oggi l’Italia ha arrestato più di 1500 persone con l’accusa di essere scafisti. Nonostante sentenze come quella del Tribunale di Palermo, solo l’ennesima. Già a settembre 2016 il giudice Gigi Omar Modica, con una sentenza storica, aveva assolto due migranti accusati di avere pilotato un gommone carico di migranti, nel cui naufragio erano annegate 12 persone. “I trafficanti costringono con la forza i migranti a guidare la barca, a volte minacciandoli con una pistola,” aveva dichiarato il giudice, aggiungendo che “Esiste un preciso interesse a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni compagni di viaggio: gli extracomunitari che si offrono di fornire dichiarazioni accusatorie ricevono infatti il beneficio non secondario di ottenere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia.”

Insomma, la lotta agli scafisti si trasforma spesso in una caccia alle streghe il cui unico risultato è quello di riempire gli istituiti di detenzione di vittime dei trafficanti – e, per usare un argomento caro al ministro dell’Interno, un detenuto costa allo Stato più di 35 euro al giorno.

La definizione di “scafisti per necessità” è stata utilizzata anche dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Coincidenza vuole che l’abbia usata in occasione della ormai celeberrima relazione al Comitato Schengen del 22 marzo 2017: quella in cui il procuratore ha sostenuto che, anche se non aveva “elementi per aprire un fascicolo”, era sicuro che le Ong rappresentassero “Uno scacco all’attività di contrasto degli organizzatori del traffico di migranti,” paventando anche la possibilità di finanziamenti da parte dei trafficanti alle stesse Ong. Quelle dichiarazioni, che allora come oggi non trovavano riscontro in alcuna sentenza, sono diventate il pretesto perfetto per politici come Salvini per alimentare il sospetto nei confronti di chi soccorre i migranti in mare.

Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro

E così, prima il “Codice di condotta” dell’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni, Marco Minniti, e poi i porti chiusi e i migranti lasciati per giorni su una nave – che non era di una Ong straniera, ma della Guardia Costiera italiana – hanno sostanzialmente posto fine alla presenza delle Ong nel Mediterraneo. E dire che le inchieste avviate oltre un anno fa dalla procura di Catania su queste organizzazioni e i loro presunti legami con i trafficanti non hanno portato ad alcun risultato giudiziario. Delle quattro inchieste avviate sopravvivono due indagini, una delle quali a Catania, che si avvia verso l’archiviazione; a Trapani, invece, la procura ha derubricato l’associazione per delinquere all’ipotesi di “irregolarità allo scopo di commettere salvataggi”. Per quanto riguarda le inchieste di Palermo e Ragusa, l’archiviazione è già avvenuta, poiché si è concluso che non ci siano stati reati.

C’è da dire che, sul piano politico, le accuse alle Ong hanno fruttato un discreto consenso. Nella pratica, invece, l’unico effetto sortito per il momento è aver contribuito ad aumentare i morti in mare. Un grande risultato, non c’è che dire.

Ieri, 3 ottobre, è stato il triste anniversario della strage di Lampedusa. Quel giorno, nel 2013, 368 persone, quasi tutte di origine eritrea, sono morte in un naufragio a un chilometro e mezzo da Lampedusa. Il giorno dopo, mentre si accusava l’Europa di non avere una strategia comune né una reale intenzione di incentivare i Paesi membri a cooperare sulle politiche dell’accoglienza, la politica faceva partire la sua personale guerra ai trafficanti di esseri umani. Così, la procura di Palermo, ha deciso di aprire un’inchiesta e l’ha chiamata Glauco, come il figlio di Poseidone, dio greco del mare. Un’indagine dalle proporzioni mastodontiche, in cui sono state coinvolte le autorità svedesi, olandesi e i Servizi britannici.

Come ha raccontato per primo (e quasi unico) Lorenzo Tondo, che per il Guardian ha seguito, e continua a farlo, tutta la storia, in pochi mesi il procuratore Calogero Ferrara ha identificato il ricercato numero uno, il capo dei capi dell’organizzazione: Medhanie Yehdego Mered, accusato di essere a capo di un’organizzazione criminale capace di “gestire” fino a 200mila migranti, che in un’intercettazione ride dei morti del 3 ottobre e si vanta: “Io ho lo stile di Gheddafi, non potrà esserci mai nessuno più forte di me.” Tutti lo chiamano il Generale, e di lui i magistrati hanno anche una foto, che forniscono ai media. Ai primi di giugno del 2016, Ferrara, annuncia l’arresto del Generale in conferenza stampa. Mered è il primo trafficante di esseri umani finito in manette in Africa. E subito il politico di turno fa propria quella che sembra una grande vittoria: Angelino Alfano, ancora ministro dell’Interno del governo Renzi, dichiara al mondo: “L’arresto e l’estradizione in Italia di Mered Yehdego Medhanie è un risultato straordinario.”

Peccato che già poche ore dopo i proclami risulti evidente che qualcosa è andato storto.

In tanti sollevano dubbi sull’identità della persona arrestata; in particolare, una donna di trent’anni che vive a Khartoum, tale Seghen Tesfamariam Berhe. La donna sostiene che quell’uomo che in tv ha visto scendere da un aereo a Fiumicino, scortato da due agenti, quello che dovrebbe essere il pericoloso Generale, non è lui, bensì suo fratello. Si chiama Medhanie Tesfamariam Berhe, non Medhanie Yehdego Mered. I dubbi si moltiplicano – anche perché Medhanie è nome piuttosto comune in Eritrea, un po’ come Salvatore o Michele in Italia. Insomma, la straordinarietà del risultato non risiederebbe nella riuscita dell’operazione, quanto nell’assurdo e clamoroso scambio di persona.

Medhanie Tesfamariam Berhe processato a Palermo, 7 novembre 2017

Non sono bastate, finora, le prove prodotte dall’avvocato di Berhe, Michele Calantropo; non sono bastati i documenti recapitati all’avvocato dall’Eritrea che indicano che l’imputato è nato nel 1987, sei anni dopo il vero Mered; i certificati scolastici, il documento d’identità, lo stato di famiglia; non sono bastati nemmeno i testimoni, fra cui anche collaboratori di giustizia, che non hanno riconosciuto nell’uomo arrestato il criminale con cui avevano avuto contatti diretti; non è bastata un’inchiesta del giornale olandese De Groene Amsterdammer, che mettendo sotto gli occhi di Mehrawi, fratello del vero Mered, la foto del ragazzo detenuto a Palermo si è sentito rispondere “Non è mio fratello.” Non è bastato che il vero Generale venisse localizzato in Uganda. Non è bastata la prova del Dna, fatta tramite la signora Meaza Zerai Weldai, al 99,9999999998% la madre biologica di Medhanie Tesfamariam Behre, l’uomo che è in carcere. E neanche il Dna del figlio di Berhe è servito a scagionarlo.

E così il ragazzo resta carcere, e a mio parere, per un unico motivo: il caso Mered riveste un’importanza che va ben oltre le sorti della persona incarcerata. Oltre all’operazione Sophia, messa in piedi nel 2015 con lo scopo di smantellare le reti di trafficanti, c’è in gioco l’intera guerra ai trafficanti, portata avanti con strategie e mezzi che sembrano sempre più inadeguati. Riconoscere che l’uomo fermato in Sudan, estradato in Italia, tenuto in carcere e sotto processo per quasi due anni, non è il Generale sarebbe un’epocale figuraccia per tutti, nonché l’ennesima prova che il fenomeno migratorio non andrebbe gestito nei tribunali, ma attraverso politiche sensate.

Avvocati durante il processo a Medhanie Tesfamariam Berhe, Palermo, 7 novembre 2017

Oggi però la politica può godere per aver liberato il Mediterraneo dalle navi delle Ong che soccorrevano i migranti, e per l’aumento dei morti in mare. Può gioire degli arresti domiciliari a Mimmo Lucano, e può vantarsi di tenere un innocente come Medhanie Tesfamariam Behre in carcere, mentre il Generale, vero responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, può godersi la vita e la libertà. E, per il primo anno, nessun membro del governo si è degnato di presenziare alla commemorazione della strage. Come direbbe Salvini, un’altra vittoria contro i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati!

Tutti gli altri possono continuare a guardare Temptation Island Vip.

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