6 italiani su 10 non leggono. E questa politica ne è una conseguenza.

Gli italiani hanno un problema: non leggono. Il teorema “con la cultura non si mangia” è diventato la madre di tutte le giustificazioni, quindi se gli italiani scappano dai libri nessuno lancia l’allarme. Ma in realtà il quadro è ben più ampio ed è strettamente collegato alla società e alla politica.

L’ultimo rilevamento dell’Istat delinea un quadro inquietante: 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Drastiche le percentuali al Sud, dove soltanto il 27,5% si annovera tra i lettori (mentre al Nord si sale al 48,7%). E stiamo analizzando i casi in cui viene letto anche solo un libro in 12 mesi. La classificazione indica come “lettori forti” i soggetti che leggono almeno un libro al mese, e sono soltanto il 14% della popolazione. E inoltre queste statistiche si basano sulla quantità, non sulla qualità della lettura. Per quanto possa essere soggettivo il valore di un libro, è giusto ricordare che in tali dati il libro di ricette di Benedetta Parodi e Delitto e Castigo hanno la stessa incidenza.

“Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri,” ha scritto Sebastiano Vassalli. La lettura dunque, lavorando sul singolo riverbera di conseguenza su tutta la popolazione. Non a caso, le nazioni europee più evolute e civilizzate, con una miglior qualità della vita e un’efficienza diffusa nei diversi settori, sono proprio quelle in cui la percentuale dei lettori è nettamente superiore. La Svezia è lo Stato europeo con più lettori, il 90% della popolazione ha letto almeno un libro nell’ultimo anno. In Danimarca la percentuale è l’82%. Rapportato a quel 27,5% del Sud Italia, traspare una netta discrepanza. Leggendo i dati europei, l’Italia è agli ultimi posti nella classifica dei lettori: soltanto Cipro, Romania, Grecia e Portogallo occupano posizioni più basse. Rientrare nel “Terzo mondo europeo” è svilente, soprattutto quando balzano all’occhio le statistiche dei lettori del Regno Unito (80%), della Germania (79%) e dei Paesi Bassi (86%). Tra tutte le riflessioni possibili, forse la più concreta e utile è un’indagine su come la lettura venga incentivata, e l’esempio più lampante riguarda la Spagna.

Gli spagnoli partivano da una situazione simile alla nostra, ovvero un netto ritardo rispetto alle tendenze di lettura delle più grandi nazioni europee, e di certo nell’ultimo decennio non si sono risparmiati neanche loro crisi politiche ed economiche. Hanno adottato però un progetto lungimirante, potenziando la rete costituita da editori, librerie e biblioteche, in una legge del 2007 chiamata “Plan de fomento de la lectura”. Da quel momento, riuscendo ad avvicinare i giovani ai libri, il numero dei lettori da percentuali simili alle nostre è salito al 60%, superandoci di circa 20 punti percentuali. Qui in Italia un progetto analogo – il disegno di legge dal nome già improbo “Disposizioni per la diffusione del libro su qualsiasi supporto e per la promozione della lettura” – è impantanato nel ping pong tra la Commissione Cultura e la Commissione Bilancio, senza arrivare mai alla discussione in Parlamento.

Tutto ciò non dovrebbe stupire, se si considera a chi vengono affidati certi ruoli di fondamentale importanza riguardo a questi temi. L’esempio più calzante è quello della leghista Lucia Borgonzoni, Sottosegretaria alla Cultura. Un ruolo delicato, che richiederebbe un minimo di competenza in materia. Eppure, intervistata dalla trasmissione di Radio1 Un giorno da pecora, ha confidato di non leggere un libro da tre anni. D’altronde Umberto Eco aveva sintetizzato i tratti del Carroccio dicendo: “Cos’è il leghismo, se non la storia di un movimento che non legge?”. Non sorprende quindi che il governo gialloverde demonizzi gli intellettuali, associandoli a loschi individui distanti dalla realtà del popolo – sì, i famigerati radical chic.

I partiti populisti hanno strutturato la loro strategia sul riflesso del popolo e quindi, dovendo passare il messaggio “noi siamo come voi”, invece di incentivare l’approccio alla cultura, marchiano a fuoco tutto ciò che si discosta dall’ignoranza. Un soggetto competente viene definito un “professorone”, con tono dispregiativo; un uomo di cultura viene additato come nemico del popolo perché non vive sulla propria pelle la difficoltà di arrivare alla fine del mese. Come se uno come Pier Paolo Pasolini non avesse avuto diritto di parlare dei “ragazzi di vita”, solo perché era benestante. Nel 2018, ai politici italiani non conviene mostrare un alto lignaggio culturale: è preferibile immedesimarsi con “la gente”, sbagliare qualche congiuntivo e riallacciarsi a una certa cultura popolare che preferisce citare Lino Banfi piuttosto che Dante.

Nel 1987, durante il suo discorso per il premio Nobel, Iosif Brodskij disse: “Per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla Terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal”. Sono passati 31 anni da quel discorso, eppure è ancora attuale. La lettura da molti viene ancora vista come un mero esercizio cerebrale o un hobby per perditempo che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti o necessarie, e invece, per dirla con Woody Allen e coi gadget per “lettori forti” che ormai sostengono i business plan delle librerie, bisognerebbe leggere per “legittima difesa”, dunque per ampliare i propri orizzonti e formare uno spirito critico in grado di permetterci di comprendere il mondo e agire con cognizione di causa, seguendo i nostri imperativi interiori – che devono essere costruiti in qualche modo e non ci possono essere dati, perché quando ci vengono calati dall’alto rischiano di degenerare in fretta, sollevandoci dalla responsabilità di scegliere secondo coscienza e togliendoci la libertà.

La storia ci insegna che i libri hanno sempre rappresentato un pericolo per le dittature. Il popolo doveva restare ignorante per essere tenuto a bada, e la cultura veniva vista come il nemico principale. Basti pensare ai Bücherverbrennungen durante il nazismo, ovvero i roghi nei quali venivano bruciati tutti i libri distanti dall’ideologia totalitaria, oppure ai libri bruciati in Cile sotto ordine di Pinochet, o ancora a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Per non parlare della Santa Inquisizione. La stessa letteratura distopica ha creato allegorie che si riallacciano a questo contesto. Tra queste spicca Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, con Guy Montag e gli altri pompieri che bruciano i libri in una società dove leggere è considerato un reato. Adesso, per lo meno in Italia, non è più necessario bruciare i libri però, semplicemente perché nessuno li compra.

L’allontanamento dai libri comporta diversi effetti collaterali, e tra questi rientra l’aumento costante degli analfabeti funzionali nel nostro Paese, che in Italia rappresentano il 28% della popolazione. Non bisogna confondere il fenomeno con l’analfabetismo: in questo caso si parla infatti di persone in grado sì di leggere e scrivere, che però non sono in grado di analizzare un testo e di comprenderne l’effettivo messaggio, le informazioni più basilari. Tutto ciò riverbera ovviamente in diversi frangenti del nostro ambiente socio-politico e in primis sulle scelte elettorali. Dato che queste persone non sono in grado di discernere le informazioni con cui vengono bombardate, sono più soggette a farsi confondere da determinati artifici retorici e a prendere decisioni semplicemente in base al loro istinto, a quello che pensano di aver capito, andando di conseguenza a seguire chi sbraita di più riempendo le fila del populismo. Basti pensare alla Brexit e all’elezione di Trump: i grandi centri hanno votato per il “remain” e contro l’attuale presidente americano, mentre le zone più retrograde e con meno fermento culturale hanno determinato i risultati che poi si sono concretizzati. Da noi, al Sud, quel 27,5% di lettori si è tramutato in un plebiscito per il M5S. Lo stesso Sud che prima votava in massa per Berlusconi.

Occorre dunque chiedersi quali siano i motivi di questo rapporto debole tra gli italiani e la lettura, considerando anche che l’indice è in calo costante: negli ultimi sei anni si sono persi tre milioni e mezzo di lettori. L’Istat ha coinvolto gli editori in questa analisi, e secondo la loro opinione il principale fattore è da ricondursi al basso livello culturale della popolazione (39,7% delle risposte) e alla mancanza di efficaci proposte politiche e scolastiche per la lettura (37,7%). Altri motivi elencati sono l’assenza di tempo e la situazione economica. In entrambi i casi però si tratta di fattori che non incidono, o non dovrebbero incidere, sull’approccio alla lettura: razionare il tempo è una scelta, e prediligere le ore passate a guardare una serie televisiva o scrollando Instagram piuttosto che quelle davanti alla pagina di un libro è una decisione consapevole; e poi se non si vogliono spendere soldi ci sono sempre le biblioteche, che ormai prestano anche gli ebook. I libri non vanno per forza acquistati, e il sapere che ne possiamo trarre è forse tra le cose più democratiche del mondo in questo senso. È la mentalità a dover cambiare, ma è difficile anche solo sperarlo in un Paese dove chi occupa posizioni di rilievo nell’ambito della cultura ammette con fierezza di non leggere.

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