Perché in Italia è così difficile accedere alla contraccezione?

In Italia abbiamo lo stesso livello di accesso alla contraccezione della Turchia. È quanto emerge dal Contraception Atlas, una ricerca condotta dall’Epf (European Parliamentary Forum for Sexual & Reproductive Rights) su 46 stati europei, che valuta sia la reperibilità dei contraccettivi sia la quantità di informazioni disponibili per la popolazione. In questa classifica l’Italia si trova al 26esimo posto, posizionandosi agli stessi livelli di Turchia, Croazia, Lituania e Svizzera. Quest’anno Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo) ha applicato la stessa metodologia di indagine sul territorio italiano, compilando il primo Atlas italiano sulla contraccezione, che analizza la situazione regione per regione. Il quadro che emerge è preoccupante: il nostro Paese ha le politiche di accesso agli anticoncezionali meno aggiornate dei Paesi dell’eurozona, con carenze molto gravi nel Sud Italia.

Il punteggio di ogni Paese nel Contraception Atlas viene calcolato facendo la media tra due percentuali che indicano l’accessibilità alla contraccezione e la comunicazione istituzionale sul tema. L’Italia, per quanto riguarda l’accessibilità, si attesta al 52,1% e per l’informazione al 68,4%, totalizzando un punteggio del 57,9%. Per fare un confronto con le medie dell’eurozona, la Francia e il Belgio sono i Paesi più virtuosi, entrambi con il 90,1%, mentre Regno Unito e Germania totalizzano rispettivamente l’87,9% e il 75,1%.

Il quadro che emerge è la presenza di una cultura contraccettiva italiana ancora molto arretrata. Secondo l’ultima rilevazione Istat sulla salute riproduttiva della donna (dati del 2017), il 62% dei nostri connazionali usa almeno un metodo anticoncezionale. Il più diffuso è il preservativo maschile, l’unico che protegge anche dalle infezioni sessualmente trasmissibili (assieme a quello femminile, che è però poco usato nel nostro Paese), ma il 18,7% delle coppie ricorre ancora al coito interrotto, che non è considerato un metodo affidabile e ha una bassissima efficacia secondo l’indice di Pearl. “Nonostante un maggior ricorso a metodi moderni (soprattutto pillola e preservativo), non si può ancora affermare che in Italia sia stata compiuta in modo definitivo la ‘rivoluzione’ contraccettiva, intesa come transizione verso una diffusione estesa di metodi moderni ed efficaci”, osserva il rapporto.

A pesare sui progressi di questa rivoluzione è anche l’assenza di informazioni aggiornate e di facile reperibilità, specialmente rivolte ai più giovani. Il basso punteggio assegnato all’Italia nella comunicazione sul tema (68,4%) è condizionato soprattutto dalla mancanza di un sito istituzionale, cosa che garantisce invece alla Francia un punteggio del 100%. Il sito Choisir sa contraception, curato dal ministero della Sanità francese, fornisce informazioni chiare su ogni metodo, indicandone anche i costi. La possibilità di accedere a informazioni veritiere e affidabili sui diritti riproduttivi è un tema molto sentito nel Paese, tanto che dal 2016 esiste una legge che impedisce ai siti di riportare informazioni false, mendaci o ingannevoli sull’aborto, estendendo anche a internet il reato di ostacolo all’interruzione volontaria di gravidanza.

La pagina del sito internet del ministero della Salute italiano dedicata alla contraccezione è invece un rapido elenco dei vari metodi, che non vengono nemmeno spiegati nel dettaglio. Eppure, secondo lo Studio Nazionale Fertilità promosso dal ministero e conclusosi nel 2018, condotto su oltre 16mila studenti delle classi terze superiori, nell’86,5% dei casi i ragazzi cercano informazioni sul sesso online. Gli italiani quindi devono orientarsi in una miriade di siti che spesso riportano informazioni incomplete e persino contrastanti, su cui non esiste alcun controllo da parte del ministero o degli altri enti sanitari. Scrivendo “contraccettivi” su Google i primi risultati ottenuti sono Wikipedia, un sito di divulgazione sulla medicina e il sito di una marca di assorbenti.

Ma al di là dell’informazione, ciò che determina il punteggio così basso nell’Atlas per il nostro Paese rispetto al resto dell’Europa è la mancanza di forme di distribuzione gratuita o rimborso di contraccettivi alla popolazione. Al momento, sono sei le regioni che prevedono questo servizio: Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Lombardia e Marche. Nell’Atlas regionale sono proprio queste regioni a posizionarsi ai primi posti della classifica (con in testa l’Emilia Romagna, con un indice complessivo dell’88%), mentre agli ultimi posti si trovano Abruzzo (41%), Molise (34%) e Sicilia (33%). Nel 2008, la Puglia è stata la prima in Italia a offrire la contraccezione ormonale per chi già usufruisce dell’esenzione della spesa sanitaria per reddito e, senza il vincolo del reddito, a tutte le ragazze con meno di 24 anni e alle donne senza permesso di soggiorno. Delibere simili sono state approvate anche nelle altre regioni citate, con effetti però non sempre immediati ed efficaci: secondo una ricerca dell’Istituto superiore della sanità presentata a dicembre 2019, solo l’11,6% dei consultori familiari eroga gratuitamente contraccettivi a tutte le donne. Nel Nord Italia solo il 3,3% delle strutture prevede questo servizio, nel Sud il 12,1% mentre il Centro, grazie alla presenza di Emilia Romagna, Toscana e Marche, è la zona più virtuosa con una disponibilità del 26,1%.

Una ragazza ha raccontato a Non Una Di Meno Bologna la sua esperienza di accesso alla contraccezione gratuita e le molte difficoltà incontrate, dai lunghissimi tempi di attesa alla mancata coordinazione tra il consultorio e le farmacie (che non accettavano la ricetta erogata dal consultorio). Dopo quasi due anni, gli ordini del giorno approvati dalle regioni nell’estate del 2018 non hanno praticamente dato seguito a una vera e propria distribuzione. Veneto e Lombardia, dopo aver approvato le delibere, sembrano aver fatto marcia indietro e già pochi giorni dopo la firma l’assessore lombardo al welfare Giulio Gallera diceva che “francamente se dare gratuitamente o meno preservativi che costano pochi euro, mi sembra l’ultimo dei temi da cogliere”.

Giulio Gallera Assessore Welfare Regione Lombardia

Quindi, nella stragrande maggioranza dei casi non resta che acquistare autonomamente i contraccettivi. Se i preservativi, come dice Gallera, “costano pochi euro”, diverso è il prezzo della pillola, che in Italia costa tra i 100 e i 200 euro l’anno. Tra l’altro nel 2017 l’Aifa ha riclassificato quelle poche pillole che erano ancora in fascia A (considerate farmaci essenziali, e quindi rimborsabili), spostandole nella fascia C a carico del cittadino. La decisione ha suscitato molte polemiche: molte donne infatti ricorrono alla pillola non per scelta contraccettiva, ma come terapia ormonale. Terapia che a volte richiede una continuità di anni e che può essere paragonata in tutto e per tutto a una cura per una malattia cronica. Inoltre, le pillole di fascia A venivano prescritte ai gruppi vulnerabili, per esempio alle donne con redditi molto bassi, alle minorenni o alle migranti.

A dire il vero, anche nella maggior parte dell’Europa la situazione non sembra molto all’avanguardia su questo fronte: 28 dei 46 stati presi in considerazione dal Contraception Atlas non prevedono alcun tipo di gratuità. In Francia la pillola è rimborsabile per tutte le adolescenti dai 15 ai 18 anni, mentre in Belgio è la contraccezione di emergenza a essere gratuita per tutte le donne. In Germania qualsiasi contraccettivo ormonale è rimborsato per le donne sotto i 18 anni e per chi li assume per ragioni terapeutiche (come per la dismenorrea). In Spagna parte dei costi di tre tipologie di pillole sono coperti dal sistema sanitario, abbassando il prezzo a circa 6-7 euro a confezione, mentre in Galles, Irlanda del Nord e Scozia si può chiedere il rimborso integrale.

Se anche le delibere cominciassero a funzionare dall’oggi al domani o se si approvasse una legge nazionale, resterebbe comunque il problema della capillarità dei consultori, gli unici in grado di fornire un servizio del genere. Istituiti nel 1975 con la legge 405 e rafforzati con la 194 del 1978, i consultori familiari pubblici sono un servizio essenziale del sistema sanitario italiano che, come tanti altri, è stato progressivamente smantellato nel corso degli anni. La prima (e ultima) indagine del ministero della Salute sull’articolazione dei consultori pubblici, risalente ormai a più di 10 anni fa, mostrava come il numero dei presidi si stesse riducendo di anno in anno: dai 2.097 del 2007 si è scesi ai 1.911 del 2009. Il decreto legge n. 509 dell’1 dicembre 1995, convertito in legge l’anno successivo, prevedeva un consultorio ogni 20mila abitanti, ma già nel 2009 si era raggiunta la quota di uno ogni 30mila.

L’8 aprile 2011 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione sulla riduzione delle disuguaglianze sanitarie nell’Unione europea, ribadendo l’importanza di garantire alle donne un accesso agevole ai metodi contraccettivi nonché il diritto all’aborto sicuro. Il 13 febbraio 2020 è stata approvata una seconda risoluzione in vista della 64esima sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile, in cui si sottolinea che “ogni Paese esaminato dall’Atlante della contraccezione del 2019 deve adoperarsi maggiormente per migliorare l’accesso all’informazione e alle forniture di contraccettivi onde garantire la possibilità di scelta riguardo alla propria vita riproduttiva”. Come illustrano anche questi due testi, per compiere la “rivoluzione contraccettiva” di cui parla il rapporto Istat sulla salute riproduttiva della donna non basta distribuire pillole o preservativi: serve una cultura della libera scelta a tutto tondo, che valorizzi l’autodeterminazione delle donne, l’educazione sessuale e l’accesso a tutte le cure riproduttive, maschili e femminili, che sono alla base di una vita sessuale sana e consapevole.

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