C’è un solo modo per definire quello che accade in Palestina: apartheid

Con l’abolizione formale della segregazione razziale in Sudafrica nell’aprile del 1994, pensavamo di esserci lasciati alle spalle per sempre questo capitolo buio della storia umana. Nel Paese africano è durata per 46 anni, durante i quali il governo bianco degli Afrikaners ha ucciso migliaia di uomini e donne e costretto milioni di bantu (neri africani) e coloured (persone con discendenza mista) a soffrire umiliazioni e soprusi, segregati e discriminati nella loro stessa terra. Il mondo aveva dapprima taciuto per poi mobilitarsi sulla spinta degli attivisti sudafricani del movimento antiapartheid. Oggi solo immaginare che un uomo o una donna neri vengano discriminati per legge dovrebbe indignarci, eppure da anni la pratica dell’apartheid si sta ripetendo, in altre forme e in altri luoghi, ma con lo stesso obiettivo: dominare l’altro, la parte più debole. 

In Israele il governo di destra di Benjamin Netanyahu sta portando avanti la segregazione razziale dei palestinesi per rafforzare l’occupazione militare dei loro territori. Trattati come cittadini di serie B, ostacolati nella libertà di movimento, privati delle risorse economiche e di fatto segregati in ghetti, gli arabi palestinesi sono come i neri dei bantustan ai tempi in cui Nelson Mandela lottava dal carcere per la loro libertà. La denuncia arriva da diversi attivisti e docenti arabo-palestinesi e intellettuali ebrei come Uri Avneri e Ronnie Kasrlis. La politica israeliana basata su confisca delle terre, demolizione di case, occupazione militare, bombardamenti su Gaza e ripetute violazioni del diritto internazionale, ha portato l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu a dichiarare che il trattamento riservato ai palestinesi gli ricorda l’apartheid, “ma solo in peggio”, come riporta Kasrlis.

Salim Vally, attivista anti-apartheid, professore dell’Università di Johannesburg e leader del Palestine Solidarity Committee, afferma che “il modello israeliano è parte della ‘famiglia’ dei regimi di apartheid. Chi di noi ha visitato la Palestina ha immediatamente visto le similitudini nella discriminazione quotidiana: mancata libertà di movimento, regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza processo, divisione in bantustan”. Di recente il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto su Haaretz che il parlamento israeliano dopo il voto di aprile rischia di diventare un aperto sostenitore dell’apartheid. Ma la più assertiva nel denunciare il “metodo” israeliano di segregazione è Virginia Tilley, docente di Scienze politiche alla Southern Illinois University e coautrice con Richard Falk del report Pratiche israeliane nei confronti del popolo palestinese e questione dell’Apartheid. 

Durante la presentazione della traduzione italiana del documento nella chiesa Valdese di Roma la Tilley ha dichiarato che “sulla questione israelo-palestinese bisogna cambiare paradigma e passare da quello dell’occupazione a quello dell’apartheid”. La totale disparità di forze e potere tra Israele e Territori palestinesi, l’applicazione costante di tecniche di segregazione e discriminazione – il Muro tra Israele e Cisgiordania, la diffusione delle colonie ebraiche, la privazione delle risorse idriche, i check point sulle principali vie di comunicazione – costituiscono un unicum nella storia contemporanea, che trova un paragone adeguato solo nella segregazione in Sudafrica. Per Tilley “Israele è il solo sovrano: abbiamo da una parte un grande Stato potente e nuclearizzato, dall’altra una popolazione civile disarmata. È evidente che gli attori sono del tutto squilibrati”.

In base al diritto internazionale, affinché sia accertato il reato di apartheid vietato da tutte le convenzioni internazionali, uno Stato deve includere tra le proprie politiche la “discriminazione razziale” e comportamenti che abbiano lo scopo di dominare una parte della popolazione. Questo avviene ogni giorno a Gaza e in Cisgiordania. “Io posso affermare con certezza,” dice Tilley, “che, in base al diritto in Israele assistiamo a un conflitto razziale” nei confronti dei palestinesi. Partendo dalle stesse leggi e principi universali che condannano l’antisemitismo – tra cui la Carta delle Nazioni Unite (1945), la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965) – il rapporto Tilley dimostra che Israele è colpevole di aver stabilito un regime segregazionista. Le guerre, le annessioni e l’occupazione prolungata hanno “frammentato il popolo palestinese in più regioni geografiche”, amministrate da una serie di corpus di leggi tra loro distinte, che il documento definisce “regimi giuridici” (“domains”) nei quali i palestinesi vengono trattati diversamente, ma sono accomunati dall’oppressione razziale che subiscono. Questa politica viene portata avanti per minare la volontà e la capacità del popolo palestinese di organizzare una resistenza unitaria ed efficace. 

Il dossier di Tilley e Falk è stato pubblicato dalla Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (Escwa) il 15 marzo 2017, ma pochi giorni dopo il documento Israeli Practices towards the Palestinian People and the Question of Apartheid è stato ritirato dal sito delle Nazioni Unite su ordine del segretario generale dell’Onu, António Guterres. Da quel momento viene diffuso a voce durante incontri, conferenze e lezioni pubbliche in tutta Europa dagli stessi relatori e da altri attivisti come quelli del movimento internazionale Bds, Boicottaggio, sanzioni e disinvestimento, finito di recente sulla lista nera del governo Netanyahu. La sua sezione italiana, il Bds Italia, formata da associazioni e gruppi che hanno aderito all’appello della società civile palestinese del 2005, promuove campagne e iniziative, come il boicottaggio culturale, per dissuadere Israele dal portare avanti le sue politiche discriminatorie. Al Bds si affiancano i numerosi movimenti interni alla Palestina come Peace Nowo la Grande Marcia del Ritorno. Le ong, la cooperazione internazionale allo sviluppo e le stesse agenzie Onu sono consapevoli dell’obiettivo sempre meno velato del governo di Netanyahu e lottano per fare emergere le ingiustizie e le violazioni ai danni dei palestinesi, ma i governi del mondo faticano ad accettare la realtà dei fatti.

Si sta ripetendo esattamente quanto già visto in Sudafrica nel 1948, quando il partito dei bianchi afrikaners, i coloni di origine olandese, vinse le elezioni in Sudafrica e istituì quello che veniva definito “regime di sviluppo separato”. Inizialmente proposto come un “rapporto di buon vicinato tra bianchi e neri” per risolvere i problemi di “convivenza” fra le varie etnie, si rivelò essere una espropriazione indebita ai danni del popolo nero: 25 milioni di neri vennero privati del 90% del loro territorio, ricchezza, diritto all’istruzione e libertà a beneficio di 5 milioni di bianchi. I cittadini vennero anche suddivisi tra i tre principali gruppi razziali, bianco, bantu e coloured. Nel 1956 la politica di apartheid venne estesa a tutti i cittadini di colore e 3,5 milioni di bantu, vennero sfrattati con la forza dalle loro case e deportati nelle “homeland del Sud”. In Medio Oriente il nuovo sistema di apartheid israeliano è doppiamente destabilizzante perché funzionale al mancato processo di pace. Secondo Tilley e il suo collega Falk, la pace non potrà mai realizzarsi attraverso l’opzione negoziale dei “Due popoli per due Stati”, auspicata dalla comunità internazionale, dato che i due i Stati non esistono e mai esisteranno, come ha reso evidente una legge approvata nel maggio 2018 dalla Knesset, il parlamento di Israele. Nei territori palestinesi occupati lo Stato esiste già ed è quello israeliano.

Il rapporto Tilley lo spiega molto bene: “Chi costringerà Israele a smettere di costruire insediamenti? Il 60% della Cisgiordania è integrato in Israele e insistere con vane richieste perché si ritiri è moralmente insostenibile perché paradossalmente consente l’esclusione e l’oppressione razziale dei palestinesi”. L’unico modo per rimediarvi è la soluzione di “uno Stato per due popoli”, dove Israele sarebbe costretto a rivelare le sue reali intenzioni, smascherando l’apartheid in atto contro i palestinesi. Un solo Stato per entrambi, arabi palestinesi ed ebrei israeliani, renderebbe evidente la necessità di una democrazia reale e di diritti estesi a tutti i suoi cittadini, con un solo popolo di diverse fedi religiose, accomunato dai diritti politici e civili che spettano a ogni essere umano.  

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