Avere tante possibilità di scelta non ci rende più liberi, ma paradossalmente più infelici - THE VISION

Ovunque posiamo lo sguardo, che si tratti di piccole o grandi questioni, la nostra esistenza è costellata dalla necessità di compiere delle scelte. È proprio la crescita esponenziale delle opzioni a disposizione uno dei fenomeni che maggiormente differenzia la nostra vita da quella della generazione dei nostri nonni. Il neoliberismo, contribuendo ad assoggettare ogni sfera della vita alle logiche del mercato, ha imposto un modello – tanto economico quanto ideologico – che penalizza tutto ciò che non è frutto di una scelta individuale. La rete di istituzioni, enti pubblici e forze collettive che regolava la vita delle generazioni passate è stata progressivamente smantellata in nome di una presunta libertà di scelta, le cui conseguenze non sembrano essere così vantaggiose come alcuni teorici del liberismo avevano profetizzato.

Tra i first world problems c’è infatti proprio quello che riguarda la difficoltà di scegliere fra le pressoché infinite opzioni che abbiamo a disposizione. Potremmo considerare questo particolare tipo di malessere nient’altro che il capriccio dell’individuo occidentale medio, abbastanza benestante da potersi lamentare per un diritto per cui, altrove, si fanno le rivoluzioni. Eppure, l’insoddisfazione che deriva dall’eccesso di opzioni a disposizione dovrebbe essere, secondo Barry Schwartz, professore di psicologia allo Swarthmore College e autore di The Paradox of Choice: Why More is Less, stimolo per una seria riflessione che induca a un ripensamento del modello economico attuale.

Barry Schwartz, 2010

Se dovessimo individuare il denominatore comune dello sviluppo economico e politico dell’occidente negli ultimi settant’anni  –  dal secondo dopoguerra a oggi  –  potremmo senza dubbio affermare, anche senza scomodare la Rivoluzione francese o la costituzione americana, che la più trasversalmente condivisa fra le convinzioni è quella per cui un essere umano più libero è un essere umano più felice. Di conseguenza, uno Stato interessato a massimizzare il benessere dei cittadini dovrebbe operare per massimizzare la libertà individuale, compito che all’interno del sistema economico capitalista equivale a massimizzare le opzioni fra cui scegliere. Ma, dopo decenni di neoliberismo e consumismo sfrenati, è arrivato il momento di mettere in dubbio l’idea per cui si è liberi quando si ha la possibilità di scegliere fra innumerevoli opzioni (che spesso si riducono a essere varianti della stessa cosa), riducendo la vita a una ripetitiva parodia del mercato e chiedersi se invece essere liberi non significhi piuttosto qualcos’altro.

Per definire quale tipo di libertà faccia davvero la differenza in termini di benessere, dovremmo partire dal dato che emerge dai recenti studi nel campo della psicologia dell’economia, che dimostrano che un numero eccessivo di opzioni ha conseguenze  deleterie sul benessere psicologico delle persone. Infatti, il primo effetto di questo fenomeno, paradossalmente, è la paralisi: un maggior numero di opzioni equivale a una maggiore difficoltà nel compiere una scelta, come fossimo colpiti da una sorta di confusione cronica causata dai troppi stimoli che ci vengono costantemente proposti. Non c’è alcun entusiasmo liberatorio, ma un vero e proprio spaesamento, che determina grande affaticamento mentale. Uno studio di neuroscienza pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Nature Human Behaviour dimostra che, nonostante il cervello umano sia attratto dal concetto di scelta, un numero troppo alto di opzioni a disposizione rende il processo della scelta troppo costoso in termini di energia, a fronte dei benefici che l’individuo ne ricava.

Il secondo effetto emerge invece in seguito al superamento della paralisi e risponde alla domanda: “Quanto del valore che attribuiamo alle cose dipende da ciò con cui le confrontiamo?”. Una volta compiuta la propria scelta, infatti, è molto probabile che l’individuo si senta insoddisfatto del risultato e rimpianga le opzioni che ha lasciato indietro, idealizzandole. Questo rammarico per l’ignoto che non si è scelto  –  e che avrebbe potuto portare ad un esito migliore  –  tradisce la promessa, illusoria, che a più opzioni corrisponda più soddisfazione, sempre e necessariamente.

Un’altra delle conseguenze dello smisurato spettro di varianti possibili, riguarda l’aumento delle aspettative. Sempre Schwartz, racconta, in un TED talk del 2005, un aneddoto significativo. Essendo cresciuto indossando l’unico modello di jeans esistente, il docente racconta di essersi trovato piuttosto spaesato quando, recatosi in un negozio di abbigliamento per sostituire i suoi jeans ormai consumati, il commesso l’ha inondato di domande riguardo al modello di jeans che cercava. Dal tipo di fit  – slim, skinny, regular, lungo fino alle caviglie, corto, a vita alta, media o bassa – al tessuto  – più o meno trattato, più o meno elasticizzato, più o meno scolorito o strappato – le opzioni disponibili erano pressoché inesauribili. Dopo un’ora passata a provare decine di modelli diversi di jeans, Schwartz dice di essere uscito dal negozio con il miglior paio di jeans che avesse mai posseduto. Eppure, la sensazione che ne aveva ricavato era peggiore. Se infatti l’ampia scelta ha come conseguenza, nella maggior parte dei casi, un esito migliore in termini strettamente oggettivi o materiali, la sensazione soggettiva è di gran lunga più deludente a causa dell’innalzamento delle aspettative, che vengono dunque presto deluse. “Avevamo aspettative molto basse quando esisteva un solo modello di jeans ma, ora che ne esistono almeno cento, desideriamo legittimamente quello perfetto. Confrontando ciò che avevo ottenuto con ciò che ormai mi aspettavo ho avuto la sensazione che i jeans che avevo acquistato fossero belli e comodi  –  più belli e più comodi di quelli che ho sempre indossato  – ma che, non essendo perfetti, avrei potuto compiere una scelta migliore”.

La domanda che sorge ora spontanea e che tocca un punto fondamentale della questione riguarda la colpa. Continuando a tenere buono l’esempio dei jeans, possiamo dire che quando ne esiste un solo modello, se ci riteniamo insoddisfatti e ci interroghiamo sul motivo della nostra insoddisfazione, cercando un responsabile, possiamo senza forzature rispondere che la colpa è del brand produttore di jeans. Ciò equivale, per così dire, a dare la colpa al “mondo in generale”. Quando invece il mercato pullula non solo di molteplici opzioni  – modelli di jeans  – ma anche di molteplici fonti di opzioni  – marchi diversi di jeans  – l’unico responsabile possibile della scelta insoddisfacente è l’individuo stesso che ha compiuto la scelta sbagliata pur avendo a disposizione un’infinità di opzioni.

Lo stesso principio viene applicato al campo dell’istruzione o a quello del lavoro, dove ciascuno può modellare sempre di più la sua carriera scegliendo fra un un’infinità di università, corsi, master, manuali, assicurazioni, fondi di risparmio, fondi pensionistici e chi più ne ha più ne metta, con la sensazione che a volte le diverse varianti non rappresentino nemmeno vere e proprie alternative sostanziali. Neanche il campo della sanità può definirsi immune da questo meccanismo: che si tratti di rivolgersi a un bravo specialista, l’approccio al parto da seguire o di trovare la struttura ospedaliera migliore per le proprie esigenze, siamo chiamati incessantemente a scegliere fra innumerevoli opzioni. Lo stesso vale per ciò che riguarda il nostro benessere: il numero di discipline, corsi, palestre, pratiche più o meno innovative, prodotti di cura del corpo, integratori, diete, approcci psicologici e figure professionali specializzate con minuscole varianti sembra moltiplicarsi all’infinito rendendo la scelta disorientante, anche perché spesso non abbiamo abbastanza conoscenze per operare una decisione consapevole.

Non stupisce che in fondo, questa esponenziale moltiplicazione delle possibilità frutto del benessere di cui l’occidente è il primo detentore ormai da decenni, confluisca nella responsabilizzazione e colpevolizzazione dell’individuo  –  che viene trattato come “libero consumatore” anche laddove dovrebbe essere trattato come paziente, studente, lavoratore  – e la cui insoddisfazione viene necessariamente ricondotta a una sua incapacità di farsi largo fra le infinite “opportunità” che la società, o per meglio dire il mercato, offre.

Quando dunque gli anziani borbottano che si stava meglio quando si stava peggio esprimono, da un punto di vista psicologico, la soddisfazione che genera la possibilità di essere piacevolmente sorpresi. Se infatti le opzioni a disposizione sono poche e in parte inadeguate al più alto grado di autodeterminazione e auto-affermazione dell’individuo, la gioia che deriva da una scelta soddisfacente non viene affossata da aspettative irrealistiche e confronti illogici con le innumerevoli altre opzioni “perse”. Nessuno vuole negare che l’arricchimento materiale degli ultimi settant’anni abbia migliorato sensibilmente le nostre vite sotto molti punti di vista, eppure, la generazione a cui apparteniamo, cresciuta credendo di avere il mondo nelle sue mani a suon di “se vuoi puoi” – augurio e monito che permea ideologicamente e catastroficamente ogni ambito della nostra vita  –  sviluppa la convinzione, illusoria, che tutto ciò che non si riesce a ottenere non è che il frutto di un’inadeguatezza e di una incapacità individuale di compiere le scelte giuste.

D’altronde già Marx, ben prima dell’affermazione del neoliberismo capitalista per come noi lo conosciamo, aveva teorizzato che la libertà individuale sarebbe venuta al prezzo di una nuova forma di assoggettamento alle leggi impersonali e incontrollabili del mercato. L’individuo liberale – e liberista – può credere di godere di tutte le sue facoltà naturali, del libero esercizio della propria ragione e volontà; può credere che “se vuole può”, definendosi soggetto autonomo e in ultima istanza libero, ma deve ricordare e ammettere di essere la cellula base di una società sempre che è sempre più simile a un mercato e di una vita che ormai in molte occasioni si riduce esclusivamente al consumo.

La costante necessità di valutare infinite varianti della stessa cosa e la totale mancanza di punti di riferimento genera nelle generazioni più giovani un grande senso di sconforto e di ansia da prestazione. La precarietà dei loro modelli e la quantità inesauribile di scelte che devono compiere e di domande che devono porsi sono fonte di maggiore stanchezza “esistenziale”. Come teorizza il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ne La società della stanchezza,  il disagio dell’individuo tardo-moderno nell’attuale società della prestazione e della competizione produce una sensazione di impotenza che può culminare in disturbi di natura nevrotica e depressiva. Questa fatica deriva dalla difficoltà sempre maggiore di adattarsi a un mondo caratterizzato dall’eccesso produttivo e dalla disponibilità illimitata di merci e persone.

Byung-Chul Han

Alla luce di queste dinamiche possiamo riconoscere senza troppe difficoltà quanto la sofferenza causata dall’eccessiva scelta sia a tutti gli effetti un first world problem. L’aspetto interessante è che questo problema del primo mondo è esattamente speculare al problema che attanaglia il terzo mondo: la mancanza di scelta. Secondo gli studiosi, la soddisfazione che deriva da una scelta, valutata secondo il numero di opzioni, può essere descritta con un modello a “U” invertita: non avere scelta è causa di grande insoddisfazione e quindi, inizialmente, un numero maggiore di scelte accresce significativamente la soddisfazione, quando però le opzioni crescono eccessivamente, la soddisfazione nuovamente decade.

Prendere coscienza di questo paradosso implica riconoscere che il sistema attuale, che ha innalzato il benessere materiale dell’occidente, ha portato al tempo stesso a una maggiore infelicità – o per l’eccesso di scelta, o per la sua scarsità (mancanza di potenziale d’acquisto). Dobbiamo quindi riconoscere che è un sistema profondamente ingiusto, distorto e in ultima analisi inadeguato al benessere della società: non solo perché ha frainteso la felicità con il consumismo, ma anche perché la libertà su cui si basano le sue premesse e le sue promesse si riduce alla libertà di sentirsi impotenti. Non abbiamo bisogno delle infinite opzioni che ci offre il capitalismo per realizzarci o definire la nostra identità, abbiamo bisogno del coraggio di sfilarci da queste dinamiche e di mettere in discussione un sistema che rischia di condannarci all’insoddisfazione, riscoprendo strumenti in grado di farci diventare padroni della nostra vita e non succubi delle scelte di mercato e dei consumi.

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