L’omosessualità non si cura. L’omofobia è la vera malattia.

Qualche settimana fa, un cartellone affisso per la città di Biella aveva fatto il giro del web. Pubblicizzava un evento organizzato dai Cristiani uniti per servire Biella dal titolo “Perché non sono più lesbica”, ospite d’onore la conduttrice televisiva e giornalista Nausica Della Valle. Dopo le polemiche, l’evento è stato annullato. Un’altra storia simile aveva suscitato molto più scalpore, ovvero quella di Alessandro, un ragazzo appartenente alla chiesa evangelica “Parola della Grazia” che in un video diventato virale sosteneva di essere guarito dall’omosessualità grazie alla fede. In moltissimi avevano deriso e insultato Alessandro, che aveva ribadito la sua testimonianza anche davanti alle telecamere de Le Iene

Due casi così simili a distanza di pochi mesi hanno suscitato reazioni a metà tra il bullismo, l’omofobia e la gogna mediatica. Ma non c’è molto da ridere: sebbene sia una pratica non riconosciuta e, anzi, dalla dannosità nota, ancora oggi milioni di membri della comunità LGBTQ+ vengono sottoposti, all’interno delle comunità religiose ma non solo, alle terapie di conversione o riparative, per “guarire” da quella che da più di 25 anni non è considerata una malattia, l’omosessualità. 

Per secoli, l’omosessualità è stata variamente giudicata, a seconda del periodo storico, come un peccato o come un crimine contro la morale. A partire dall’Ottocento, con la nascita del positivismo e della scienza medica, si diffuse invece l’idea che l’orientamento omosessuale non fosse un problema di teologia o di diritto, ma una malattia. Fiorirono trattati volti a definire quella che all’epoca veniva chiamata “attrazione sessuale inversa” o “inversione sessuale”, cercando di individuarne le cause fisiologiche, ma soprattutto i possibili rimedi. Nel 1886 il sessuologo Richard von Krafft-Ebing inserì l’omosessualità nel suo manuale Psychopathia Sexualis, assieme agli altri comportamenti sessuali deviati, sancendone definitivamente la natura patologica. 

Da quel momento e fino agli anni Sessanta del Novecento, cercare di “guarire” l’omosessualità è stata una pratica normale e accettata. Le possibili cure potevano essere di natura medico-chirurgica (castrazione, vasectomia, isterectomia), farmacologica (somministrazione di ormoni o tranquillanti), oppure psichiatrica (elettroshock – praticato tuttora illegalmente in alcuni Paesi del mondo, ad esempio in Ecuador – ipnosi, lobotomia). Con la nascita della psicanalisi, le cure virarono verso la psicoterapia, sebbene Freud sostenesse che “l’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta”. Uno dei metodi più usati era quello della terapia dell’avversione, per cui il paziente veniva esposto contemporaneamente allo stimolo che si voleva eliminare e a uno stimolo che provocava in lui disagio, disgusto o addirittura dolore. A partire dagli anni Ottanta, si diffuse un altro tipo di cura che oggi è ancora praticata, la terapia riparativa. La sua ideatrice, la fervente cristiana Elizabeth Moberly, credeva che l’omosessualità fosse causata da un mancato rapporto con la figura paterna, che andava “riparato” attraverso l’esposizione a nuovi modelli di mascolinità e attività virili. Accanto a tutti questi rimedi “laici”, c’erano e tuttora sopravvivono anche quelli più strettamente religiosi: castità, catechismo, gruppi di preghiera, espiazioni e penitenze varie. 

L’omosessualità dagli anni Settanta ha subito un lungo processo di de-patologizzazione, grazie anche all’attivismo LGBTQ+ che ha portato alla sua eliminazione dal Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali. Di conseguenza, si è riconosciuta l’inefficacia delle terapie che dicono di “guarirla”, che però continuano a essere praticamente. Negli Stati Uniti, si stima che più di 700mila persone ne abbiano seguita una, molto spesso all’interno di comunità religiose, ma a volte anche spinti da psicologi e psichiatri laici. In alcuni Paesi del mondo, le terapie riparative sono state addirittura vietate, come nel Quebec, in Brasile, in Argentina, in Uruguay, in Ecuador, in Svizzera, a Taiwan e in diversi Stati nordamericani. Altre nazioni, tra cui il Messico, la Germania, il Regno Unito e l’Australia, stanno discutendo in merito.

È stato più volte dimostrato che le terapie di conversione hanno effetti molto pericolosi sulla salute mentale. In primis, perché se una persona viene sottoposta a queste “cure”, significa che il suo orientamento sessuale o la sua identità di genere non sono accettate e vengono stigmatizzati dalla sua famiglia o comunità. Le persone che subiscono questo tipo di avversione, sono 8 volte più inclini a commettere un suicidio. Secondo l’Apa, l’American Psychology Association, le terapie di conversione causano nei pazienti depressione, confusione, ansia, deterioramento delle relazioni sociali e famigliari, perdita della fede, bassa autostima, isolamento e difficoltà nelle relazioni sessuali. 

Per l’Italia, non esistono dati ufficiali, anche se secondo gli attivisti di Progetto Gionata si tratta di un fenomeno sommerso, di cui è difficile dare una stima precisa. Progetto Gionata è nato una decina di anni fa con lo scopo di riunire i cattolici appartenenti alla comunità LGBTQ+ con un approccio inclusivo e accogliente e da anni si batte anche per contrastare il ricorso alle terapie di conversione. Per questo raccoglie testimonianze e storie di persone che le hanno vissute in prima persona, come quella di uno dei volontari Gianni Geraci.

“Nel giugno 1983 ho iniziato il servizio militare e durante l’anno di leva mi sono innamorato di un mio commilitone,” ci racconta Geraci. “Quando sono rientrato a casa ero sconvolto e non sapevo a chi chiedere aiuto, mi sentivo fuori posto e, soprattutto, iniziavo a scoprire in me un’attrazione sessuale verso le persone del mio stesso sesso che, in base a quello che allora credevo, non poteva in alcun modo essere conciliata con la mia fede cristiana. Nell’aprile del 1984, ho incontrato nel duomo di Milano un confessore che mi ha indirizzato a una persona che avrebbe potuto aiutarmi a ‘guarire’ dalla mia omosessualità. Il tipo di terapia che lui mi proponeva si basava sulla psicanalisi junghiana, ovvero su un’esplorazione del mio subconscio dove, a suo dire, si trovavano le cause profonde del mio orientamento omosessuale. Si trattava quindi di un approccio molto diverso da quello che, attualmente, viene utilizzato dalle cosiddette ‘terapie riparative’ che si basano prevalentemente sulla psicologia motivazionale”.

Geraci, per pagarsi la terapia, ha rinunciato alle sue ambizioni: “Ho rinunciato alla borsa di studio di ricercatore che avevo vinto e ho iniziato a lavorare in una multinazionale di informatica. Questa scelta mi era costata molto, ma ero davvero convinto che diventando finalmente eterosessuale non avrei più corso il rischio di ritrovarmi in situazioni che consideravo moralmente inaccettabili. Le cose, però, non sono andate come speravo: dopo un paio di mesi di terapia io ho avuto il mio primo rapporto sessuale con un uomo. A quel primo rapporto ne sono seguiti altri e i miei sensi di colpa erano enormi. Stavo malissimo. Piangevo molto spesso e, anche se avevo voglia di parlare di queste cose con il mio psicologo, lui si rifiutava. Siamo andati avanti per quasi un anno: la mia omosessualità si andava affermando sempre più prepotentemente e lo psicologo mi diceva che, in realtà, io non guarivo perché non volevo guarire. Ho avuto poi modo di riflettere con calma su quel tentativo di modificare il mio orientamento sessuale e ho capito quanto fosse stato inopportuno e maldestro”.

Secondo il responsabile di Progetto Gionata Innocenzo Pontillo, le terapie di riparazione sono diffuse tra le frange più integraliste di cattolici ed evangelici. “Il tema dell’omosessualità negli ultimi anni è diventato divisivo nelle chiese,” ci spiega Pontillo. “Quando la società ha cominciato ad affrontarlo e a risolverlo con l’inclusione, in certi ambiti questa accoglienza ha sviluppato delle reazioni molto violente e alcuni movimenti integralisti hanno risposto con la ‘cura’ dell’omosessualità. Generalmente questo avviene in ambienti molto settari, sulla spinta dei genitori che non sanno nulla dell’orientamento sessuale. Purtroppo in certe chiese essere omosessuali implica l’allontanamento totale dalla comunità, e quindi si tenta questa strada per non rimanere completamente isolati”.  Secondo il responsabile di Progetto Gionata, si tratta però di un fenomeno in calo: “Quanto meno all’interno della Chiesa cattolica è cominciato un dibattito,” precisa Pontillo, “anche grazie all’apertura di papa Francesco, che non ha mai dato risposte chiare, ma che almeno ha parlato di un argomento che era sempre stato un tabù. A volte le chiese propongono soluzioni diverse, come la castità e la continenza, ma ormai è chiaro che non ci sia possibilità di ‘guarigione’, perché l’omosessualità non è una malattia”.

Tuttavia, non sembra essere così chiaro a tutti. Da anni la psicoterapeuta Silvana De Mari, ospite del World Congress of Families di Verona e già condannata per diffamazione dopo aver affermato che il movimento LGBTQ+ diffonde la pedofilia, predica l’efficacia delle terapie riparative. Dello stesso avviso sono Gilberto Gobbi, negazionista dell’omofobia, vicino alla galassia pro life di CitizenGo; Tiziano Tubertini, radiato dall’ordine (l’Ordine degli Psicologi è contrario alle terapie che promettono di modificare l’orientamento sessuale, che giudica incompatibili con il proprio codice deontologico); Luca di Tolve, che ha svoltato la carriera portando in tour i suoi seminari “di guarigione”, passando dalle darkroom del Muccassassina agli altrettanto oscuri backstage dei concerti di Povia. Da qualche tempo, su app come Grindr e Romeo circola il profilo di una sedicente psicologa spagnola, Elena Lorenzo, che invita gli utenti a seguire le sue terapie di riparazione.  

Nel 2016, il senatore e presidente onorario di Arcigay Sergio Lo Giudice aveva presentato, insieme allo psichiatra Vittorio Lingiardi, un ddl per vietare la somministrazione di queste terapie sui minori, mai diventato legge. Per gli attivisti di Progetto Gionata, però, la vera sfida è quella culturale. Su suggerimento del sacerdote ormai scomparso David Esposito, hanno fondato “La tenda di Gionata”, una serie di iniziative volte ad accogliere la comunità LGBTQ+ nella Chiesa. Il primo passo è coinvolgere i genitori, educarli all’accoglienza e, soprattutto, all’idea che fede e orientamento omosessuale o identità transessuale non siano incompatibili. Per questo, i volontari distribuiscono gratuitamente il libro Genitori fortunati. Vivere da credenti l’omosessualità dei figli e gestiscono un forum per confrontarsi e creare una rete di supporto. Il loro impegno si concentra poi sulla creazione di una pastorale LGBTQ+, dove le persone possano sentirsi accolte e al sicuro: alcuni progetti sono già attivi nella diocesi di Torino, Milano, Lucca, Civitavecchia-Tarquinia, e presso alcune comunità di vita consacrata femminile, come le Suore Domenicane dell’Unione S. Tommaso D’Aquino di Firenze. 

Sembra quindi che le terapie di conversione siano, almeno nel nostro Paese, un dramma sommerso, ma c’è anche chi, come i volontari di Progetto Gionata, in assenza di un intervento dello Stato cercano di contrastare e prevenire questo fenomeno dall’interno della stessa Chiesa. Quando il tema arriva all’attenzione pubblica, che sia per una canzone dal gusto discutibile o per una testimonianza resa virale da un programma Tv che non si eleva di certo per la sua sensibilità, la prima reazione è quella del pubblico ludibrio. Oggi pensare che una persona gay improvvisamente si riscopra eterosessuale ci fa sorridere. Ma non bisogna dimenticare che dietro ogni storia di sedicenti “ex gay” – inclusi quelli che lasciano che le loro storie vengano strumentalizzate da chi fa più propaganda politica che proselitismo religioso – si nascondono spesso disagi psicologici devastanti, vicende dolorose, se non addirittura casi di abusi sessuali come quelli imputati al “guru” delle guarigioni Tony Anatrella. 

Per questo la società civile dovrebbe occuparsi anche di una realtà che spesso non viene raccontata e che è il retaggio di una cultura che ormai dovrebbe essere superata. Quest’anno sono usciti al cinema due film sull’argomento, La diseducazione di Cameron Post, di Desiree Akhavan, che ha cercato di affrontare l’argomento con ironia, e uno dai toni più cupi, Boy Erased di Joel Edgerton. Ma questo non basta, se le istituzioni stanno a guardare.

Almeno in Italia, finché il ministro della Famiglia patrocina eventi anti-LGBTQ+ organizzati da quegli stessi integralisti che usano lo spauracchio della sedicente “dittatura gender”come giustificazione delle loro sparate omofobe, centinaia di giovani continueranno a essere costretti a subire queste terapie. 

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