Non è il governo del cambiamento, ma dell’isolamento

La crisi che da mesi attraversa il Venezuela è la conseguenza diretta delle elezioni presidenziali che, il 20 maggio 2018, hanno riconfermato Nicolas Maduro presidente, tra le proteste dell’opposizione e di numerose organizzazioni internazionali. Attraverso l’istituzione di una nuova assemblea costituente, Maduro ha progressivamente svuotato il parlamento dei suoi poteri originari con l’aiuto del potere giudiziario, totalmente controllato dal governo, e dell’esercito, da sempre rimasto fedele al presidente. Le elezioni che hanno visto la conferma di Maduro hanno registrato un’affluenza inferiore al 50%, spingendo diverse Ong a esprimere preoccupazione per le irregolarità registrate nel procedimento elettorale, tra le quali spicca la mancanza di competenza della stessa assemblea costituente nell’indire da sola le elezioni presidenziali. L’Onu, l’Unione europea e gli Stati Uniti non hanno riconosciuto il procedimento elettorale mentre Cina, Cuba, Iran, Corea del Nord, Russia, Siria eTurchia si sono schierate con Maduro. A intuito, mi fiderei più dell’Onu che della Corea del Nord, ma ognuno è libero di dissentire.

Il 23 gennaio, Juan Guaidò, presidente dell’assemblea nazionale esautorata da Maduro, ha dato una svolta a questo stallo proclamandosi Presidente del Venezuela, invocando una norma costituzionale che gli consente di guidare un governo provvisorio fino a nuove elezioni. Subito dopo l’annuncio, Donald Trump lo ha ufficialmente riconosciuto come presidente ad interim, seguito a ruota da Canada, Brasile, Paraguay, Colombia, Argentina, Perù, Ecuador, Cile, Guatemala e Costa Rica. L’Europa ha optato per una posizione più ambigua, per non dire grottesca. Nonostante il riconoscimento arrivato da un gran numero di Paesi occidentali, l’Ue non è riuscita a esprimere un fronte comune, anche per via delle posizioni contraddittorie del governo italiano.

Il M5S, capitanato per l’occasione da Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano, continua a parlare di neutralità nascondendosi dietro il rifiuto di assecondare la politica estera degli Stati Uniti, in una situazione nella quale è davvero impossibile rimanere neutrali. Se il dissenso verso la politica estera americana può considerarsi legittimo e comprensibile, la superficialità del M5S nel perdonare le violazioni delle libertà democratiche attuate dal regime di Maduro è preoccupante. Il sostegno indirettamente offerto in questi giorni dal governo italiano a quello venezuelano rappresenta poi un’ulteriore prova dell’inadeguatezza dell’approccio sovranista in politica internazionale.

Uno dei Paesi che confina con il Venezuela è il Brasile, guidato da alcuni mesi da Jair Bolsonaro. Dopo una carriera nell’esercito, dal 1991 Bolsonaro è stato deputato nel parlamento brasiliano, dove ha cambiato nove piccoli partiti che non hanno mai partecipato al governo del Paese. Grazie alla sua storia militare, si è costruito il personaggio di politico lontano dagli episodi di corruzione che hanno più volte coinvolto i governi brasiliani. La sua notorietà è soprattutto legata alla retorica aggressiva di estrema destra che ha spesso utilizzato in esternazioni di stampo omofobo, razzista e misogino. Il nostro ministro dell’Interno sembra avere una specie di infatuazione per il presidente brasiliano. Subito dopo la sua elezione, Matteo Salvini ha espresso tutta la sua felicità in un tweet, dichiarandosi certo che i rapporti tra Italia e Brasile ne sarebbero usciti rafforzati. L’estradizione di Cesare Battisti rappresenta un altro esempio eclatante del feeling nato tra il vicepresidente del Consiglio leghista e il presidente brasiliano, tanto che è stato lo stesso figlio di Bolsonaro a informare Salvini della cattura imminente dell’ex terrorista dei Proletari armati per il Comunismo. Ovviamente, la notizia è stata data con un altro tweet, con buona pace dei funzionari diplomatici e delle procedure di estradizione, accantonati per puro fine elettorale.

Ora il Brasile sta attraversando una complicata fase di transizione. Durante la campagna elettorale, Bolsonaro aveva proposto la reintroduzione delle leggi sull’ordine pubblico in vigore negli anni della dittatura militare, dal 1964 al 1985. Non esattamente un custode delle libertà e della democrazia, diciamo. Nonostante sia in carica da pochi mesi, il presidente carioca ha già firmato un decreto che facilita l’acquisto e la detenzione delle armi da fuoco, malgrado i giustificati timori che questa misura possa far aumentare ulteriormente il tasso di criminalità. A quanto pare, “La difesa è sempre legittima” è uno slogan valido anche oltreoceano.

Nessun Paese normale è mai riuscito a conservare la sua credibilità internazionale sostenendo da un lato un regime comunista e dall’altro uno fascista e reazionario. Lo stesso Maduro ha definito Bolsonaro come un “Hitler dei tempi moderni“, rendendo palese la frizione tra i due governi – ancora più grave se si tiene conto della loro vicinanza geografica. Ma l’Italia del cambiamento può tutto e crea una situazione paradossale nella quale il governo appoggia, a livello internazionale, estrema destra ed estrema sinistra, mentre critica apertamente le democrazie europee e incontra i gilet gialli in Francia. Sembra che la condizione necessaria per ottenere la simpatia del nostro Paese sia quella di far parte di un regime dove sono negati i diritti umani e la democrazia.

I parametri di scelta dei nostri alleati in sede europea sono molto simili: è ormai noto a tutti che Paesi come l’Austria, l’Ungheria e la Polonia rappresentano l’ostacolo principale ad una riforma efficace del Trattato di Dublino, in grado di consentire un’equa ripartizione dei migranti tra i diversi paesi dell’Unione. Nonostante ciò, il governo dell’isolamento cerca da un lato di rafforzare i rapporti con i Paesi del blocco di Visegràd mentre dall’altro attacca quotidianamente la Francia per puro tornaconto elettorale. I risultati di questa strategia sono sorprendenti: pochi mesi fa, il ministro delle Finanze austriaco, Hartwig Löger, ha chiesto alla Commissione europea di avviare una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la legge di bilancio. Viktor Orban, primo ministro ungherese e grande amico di Matteo Salvini, ha più volte chiarito che l’Ungheria non accoglierà mai i migranti. Vogliamo fare deficit e ci alleiamo con i promotori dell’austerity. Chiediamo la redistribuzione dei migranti e ci alleiamo con Paesi illiberali e xenofobi. Parigi ha addirittura richiamato in patria l’ambasciatore francese in Italia a causa dei ripetuti attacchi degli ultimi mesi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe stata l’incontro tra Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e il leader dei gilet gialli Christophe Chalencon, famoso alle cronache per aver sostenuto la necessità di una guerra civile in Francia. Se a questo episodio aggiungiamo le provocazioni relative al Franco CFA e i continui attacchi al presidente Macron si riesce a comprendere la reazione di chi governa un popolo come quello francese, vagamente orgoglioso, egocentrico e suscettibile. I rapporti tra Italia e Francia non sono mai stati così tesi dalla fine della seconda guerra mondiale. Essere sovranisti e fare i veri interessi dell’Italia è molto più difficile di quanto dicano i proclami giornalieri del governo.

Un adagio popolare ci ricorda che si sta meglio soli piuttosto che male accompagnati. Noi siamo riusciti nell’impresa di essere contemporaneamente soli e male accompagnati. L’interesse diretto e immediato dei cittadini non sempre corrisponde all’interesse nazionale. Questo aspetto sembra sfuggire ai populisti di oggi che elevano il sentimento popolare ad argomento da utilizzare nelle relazioni internazionali. La democrazia rappresentativa nasce dall’esigenza di delegare problematiche complesse a rappresentanti capaci di risolverle, dalla consapevolezza che non tutti i cittadini hanno gli strumenti – o il tempo – per poter decidere su ogni aspetto della vita pubblica. Una consapevolezza che determinate forze politiche stanno cancellando pezzo per pezzo, a colpi di slogan, hashtag e soluzioni semplici a problemi estremamente complessi. Così da non doverli risolvere mai.

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