Se devi tornare a casa dei tuoi non è a causa del Covid ma di un mercato del lavoro inceppato da anni

Molti dei bambini galvanizzati negli anni Novanta dalla promessa “tutto quello che è illuminato dal sole un giorno sarà tuo” del Re Leone sono i 30enni che dalla crisi del 2008 in poi sono stati costretti a ridimensionare e adattare anno dopo anno le loro prospettive e ambizioni di vita, in alcuni casi abbandonandole del tutto. Il lockdown degli ultimi mesi e le ripercussioni sull’economia mondiale hanno dato un altro colpo all’autonomia già scarsa di questa generazione, costringendo sempre più persone a tornare a vivere a casa dei genitori. Per passare dalle praterie di infinite prospettive alle quattro mura della stanza in cui si è cresciuti – sempre che questa non sia stata riconvertita in una lavanderia o in uno studio – sono bastati poco meno di trent’anni.

Anche se a tanti piacerebbe giustificare questa tendenza con le ripercussioni sull’economia del lockdown dovuto al COVID-19, la verità è che la pandemia l’ha solo aggravata. Già alla fine del 2018 per l’Istat erano più di sette milioni gli under 30 (il 70% del totale) che avevano deciso di tornare a vivere con i genitori, o ad attaccarsi alla “sottana di mamma”, come ha scritto il Corriere per commentare un dato che cresce in maniera esponenziale dal 2007, prima della crisi finanziaria globale. Se i trentenni italiani non riescono a raggiungere un’autonomia che permetta loro di vivere da soli da prima ancora della crisi del 2008, è evidente che la causa di questo problema non sia dovuta alla catastrofe mondiale di turno. Dopo una fine analisi sociologica, nel 2018 Magdi Cristiano Allam ha svelato ai suoi lettori che “Questi giovani sono come una pianta dalle radici sempre più secche e pertanto destinata a morire. Di fatto hanno scelto di limitare la propria vita a se stessi, auto-sterilizzandosi privandosi del dono naturale della rigenerazione della vita che ci da la grazia di perpetuarci attraverso i nostri figli. Ma è anche la morte interiore di chi rifugge dalla sfida edificante del dovere, della responsabilità, del sacrificio, e finirà per essere sconfitto e sostituito da chi è più forte dentro e da chi si sente investito di una missione di conquista. È una realtà che attesta il preoccupante livello di decadenza della nostra civiltà”.

Per i pasdaran di Allam e i cultori dell’evergreen “giovani bamboccioni che non hanno voglia di lavorare” i 30enni sono creature mitologiche che passano le giornate tra un baccanale e l’altro, troppo ubriachi di vino e piaceri per trovare finalmente un lavoro che permetta loro di prendere in affitto qualcosa di più che un posto letto in una doppia, considerati anche i prezzi sempre più alti, specie nelle grandi città. In realtà, i dati pubblicati da Eurostat nel 2019 possono dare una prima chiave di lettura del perché sempre più giovani adulti non lasciano o tornano a casa dai genitori mettendo in pausa o abbandonando i loro progetti di vita.

In Italia si lascia la casa dei genitori a circa 30,1 anni, contro la media europea di 26. Lo stacco di soli quattro anni potrebbe sembrare confortante, almeno fino a quando non si confronta il nostro Paese con gli altri Stati europei. Mentre ce la giochiamo quasi alla pari con Spagna (29,5), Grecia (29,3) e Portogallo (28,9), il divario diventa abissale con i Paesi del nord – Svezia (18,5 anni), Danimarca (21,1 anni) e Finlandia (22,0 anni) – e comunque grave con Germania, Francia e Paesi Bassi (tutti e tre 23,7 anni) e Regno Unito (24,7 anni). Se la media nazionale è pessima, nel campione di età 25-34 anni è ancora peggio: quasi uno su due non vive da solo, contro una media europea di uno su quattro. Peggio di noi fanno solo Grecia (56,3%) e Croazia (quasi 60%). In Scandinavia la media è del 10%. Aldilà di podi e percentuali, questi numeri raccontano una verità semplice: lasciare casa dei genitori non significa vincere la sindrome di Peter Pan, ma vivere in un Paese con un mercato del lavoro dinamico e in grado di favorire l’inserimento delle nuove generazioni, oltre a valorizzarne le competenze e qualificazioni. Non va mai dimenticato che l’Italia difende con orgoglio il doppio titolo europeo di Paese con la più bassa percentuale di laureati in rapporto alla popolazione – insidiato dalla Romania – e quello con il maggior tasso di sottoccupati (ossia lavoratori con contratti part time o a chiamata che vorrebbero posizioni più stabili e meglio remunerate, ma non riescono a trovarle).

Uno svedese lascia casa a 18 anni non perché ha fatto pace con l’idea di non “andare a mangiare gli spaghetti con la nonna e la mamma tutte le domeniche”, ma per la consapevolezza di vivere in un Paese dove l’85% dei laureati trova un impiego a tre anni dalla laurea, contro il 60% scarso di quelli italiani. Impiego che per i 25-34enni svedesi garantisce uno stipendio medio di 29mila euro, mentre in Italia si ferma a meno di 26mila. In questo quadro già di per sé non roseo, l’epidemia da COVID-19 ha solo reso ancora più cupa la visione che i giovani adulti italiani hanno del loro futuro. Se nel mondo un giovane su sei ha già perso il lavoro durante il periodo di lockdown e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha lanciato l’allarme sulla vulnerabilità degli under 35 per la crisi che ci aspetta nei prossimi mesi, non dovrebbe stupire che il 55% dei 18-34enni del nostro Paese abbia dichiarato di ritenere più a rischio il proprio posto di lavoro rispetto a pochi mesi fa. Sempre secondo un sondaggio dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo questo significa anche che il 60% dei duemila intervistati ha messo in standby i suoi piani per il futuro.

Andare a vivere da soli o convivere, sposarsi, avere un figlio sono tutte scelte di vita che diversi avevano ancora il coraggio di fare, nonostante la precarietà e le diverse convinzioni di chi li considera refrattari alla “sfida edificante del dovere”. Prima del febbraio 2020 il 30% dei 18-34enni italiani si preparava a una convivenza, il 35% ad andare a vivere da soli, il 23% pensava di sposarsi e il 26% di avere un figlio. L’epidemia ha travolto questi piani, soprattutto per le donne, i lavoratori a tempo determinato e le partite Iva. Ad aprile quattro su cinque avevano posticipato o abbandonato del tutto l’idea di andare a vivere da soli o a convivere con il partner, il 40% ha rinunciato ai piani di matrimonio e un terzo ha deciso che per il momento sia meglio non avere figli. Scelta che andrà a pesare sulle previsioni pre pandemia dell’Istat di 10mila nascite in meno nel 2021, che nello scenario peggiore possono scendere a meno 39mila.

Tornare a vivere dai genitori e le altre rinunce dovute alla crisi post Covid non sono solo una temporanea marcia indietro per milioni di giovani, ma rischiano di avere risvolti molto più gravi e di lungo periodo per l’intero Paese. Questa continua frustrazione delle proprie ambizioni rischia di travolgere un’intera generazione con disturbi psicologici di varia natura: già al termine delle settimane di lockdown uno studio di Eurofond ha evidenziato che la fascia di età più predisposta alla depressione e ai disturbi legati all’ansia è proprio quella degli under 35. Inoltre, per i professori Alessandro Rosina e Francesca Luppi dell’Università Cattolica di Milano “Emerge l’evidenza di un impatto potenzialmente molto negativo sulla possibilità delle nuove generazioni di mettere in atto i propri progetti, con alto rischio di trasformarsi non solo in ulteriore rinvio (che si somma a rinvio precedente), ma ormai anche in rinuncia. Ciò con conseguenze particolarmente penalizzanti su chi ha superato i 30 anni, coloro cioè che già hanno subito gli effetti della recessione precedente e si trovano con situazione occupazionale incerta”. I due professori concludono dicendo che l’indipendenza sempre più ridotta dei 18-34enni significa mettere del tutto in crisi un Paese con uno degli “squilibri demografici già tra i più gravi al mondo”.

Intanto, i trentenni di oggi si sono aggiudicati di recente il titolo di generazione più povera della storia d’Italia, con uno stipendio che è in media del 10% più basso di quella nazionale. Saltuari aiuti distribuiti a pioggia e bonus estemporanei non sono la strategia di lungo periodo che serve all’Italia per affrancare il suo “futuro” da più di un due decenni di stagnazione, economica e delle prospettive. Ignorare l’urgenza di questa situazione trincerandosi dietro all’auto assoluzione di parte della classe dirigente che vede i giovani come fannulloni parcheggiati sul divano di mamma e papà significa, senza tanti giri di parole, condannare il Paese a una spirale autodistruttiva.

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