Senza diritti non c’è progresso. Anche la gig economy va regolamentata.

Il mondo del lavoro vive un periodo di profonde trasformazioni. L’avvento della gig economy ha comportato dei cambiamenti radicali nell’organizzazione del lavoro. Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche pubblicata a settembre del 2019, i lavoratori della gig economy – come i rider e gli autisti di Uber – in Italia sono circa 213mila, ma nel mese di marzo sono cresciuti del 60%. Degli oltre 200mila di pochi mesi fa, il 42% di loro non aveva alcun contratto di lavoro mentre il 19% lavorava con un contratto di collaborazione. Tutte queste professioni hanno una cosa in comune, si svolgono attraverso l’ausilio di piattaforme digitali. Si tratta di infrastrutture invisibili regolate da algoritmi più o meno complessi, costruiti su misura per ottimizzare i risultati dell’azienda di riferimento. Molto spesso, però, l’algoritmo non si limita a migliorare le performance aziendali ma controlla minuziosamente l’operato di chi si guadagna da vivere grazie alle istruzioni della piattaforma digitale.

A partire dall’adozione dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), l’Italia ha sempre adottato un approccio molto rigido rispetto ai controlli a distanza dell’attività lavorativa. Il divieto di monitorare i lavoratori tramite impianti audiovisivi si è indebolito dopo l’entrata in vigore del tanto vituperato Jobs Act, che ha introdotto eccezioni e casi particolari. Il lavoratore è prima di tutto una persona e controllare la sua attività lavorativa da remoto, attraverso l’ausilio di mezzi tecnologici, si pone in contrasto con la tutela di valori garantiti dalla Costituzione, quali la dignità, la libertà personale o la segretezza delle comunicazioni e della corrispondenza.

La rivoluzione digitale che stiamo attraversando impone un adeguamento delle leggi al nuovo contesto. Lo Statuto dei lavoratori non prevede la possibilità che degli algoritmi controllino le persone, le quali, fa sempre bene ricordarlo, spesso non rivestono neanche la qualifica di lavoratori subordinati. Il controllo al tempo della gig economy, inoltre, pone una serie di nuove criticità che spesso hanno un forte carattere discriminatorio.

A dicembre tre sigle sindacali appartenenti alla CGIL hanno depositato un ricorso contro “Frank”, così viene identificato l’algoritmo utilizzato da Deliveroo, sostenendo che l’azienda utilizzi questo strumento con modalità discriminatorie nei confronti dei lavoratori, con particolare riferimento alla salute e ai diritti sindacali. Nella ricostruzione del funzionamento di Frank, le organizzazioni sindacali contestano che Deliveroo abbia adottato un sistema di organizzazione del lavoro secondo cui i rider più “performanti” hanno diritto a lavorare nelle fasce orarie più redditizie, lasciando le briciole agli altri. Una vera e propria classifica sulla base della quale i ciclo-fattorini vengono incentivati dalla società a lavorare con ritmi sempre più frenetici. Si tratta di un ranking che serve a misurare la “reputazione” del rider sulla base di due criteri principali: la partecipazione e l’affidabilità. Se sei veloce, rapido nelle risposte e pronto a lunghi viaggi, “Frank” ti considera un lavoratore provetto. Se invece sei lento, sbagli strada, e magari hai la sfortuna di infortunarti, di ammalarti o di subire un’aggressione durante una consegna, la tua posizione in classifica scende inesorabilmente.

L’algoritmo penalizza tutte le forme lecite di astensione dal lavoro, quali possono essere le assenze per malattia o quelle relative all’esercizio di diritti sindacali. I contratti di lavoro dei rider prevedono pochissime tutele e questo lascia uno spazio di manovra eccessivo all’algoritmo che decide le persone da premiare e quelle da penalizzare sulla base di criteri a dir poco discutibili. Chi ha il ranking più elevato può scegliere la prenotazione delle sessioni di lavoro più vantaggiose a livello economico riducendo, di fatto, la scelta di altri rider che magari sono stati costretti ad assentarsi per un infortunio occorso mentre prestavano la loro attività lavorativa. L’organizzazione del lavoro si baserebbe interamente sulla concorrenza spietata tra rider e sui relativi tempi di consegna. I parametri utilizzati dall’algoritmo per controllare l’attività dei lavoratori finiscono per rappresentare un controllo piuttosto stringente sulla loro stessa attività lavorativa e il risultato sembra essere una discriminazione inaccettabile per il nostro ordinamento. Lo Stato non sembra essersi accorto dei controlli invasivi che gli algoritmi stanno progressivamente esercitando sull’attività lavorativa delle persone. Ma sarà necessario intervenire con misure efficaci, che regolamentino l’utilizzo degli algoritmi nella gestione dei rapporti di lavoro.

La gestione dei rapporti di lavoro tramite un algoritmo potrebbe sembrare futuristica ma trova la sua origine nel passato. Oltre cento anni fa, infatti, la “gestione scientifica” della produzione ha travolto le industrie statunitensi. Il figlio di una famiglia della borghesia di Filadelfia, Frederick Winslow Taylor, decise di abbandonare i preparativi per entrare ad Harvard e di diventare un apprendista in una fabbrica che produceva sistemi idraulici. Taylor rimase subito sconcertato dalla disorganizzazione dell’azienda. I dipendenti lavoravano il meno possibile e i superiori gerarchici li pagavano con uno stipendio da fame. Era necessario sostituire questo approccio dozzinale con l’istituzione di regole precise in grado di eliminare l’inefficienza, ponendo così le basi per la creazione di un sistema oggettivo di valutazione del personale. In questo scenario, il datore di lavoro era chiamato ad assegnare compiti specifici ai lavoratori, prevedendo altresì le relative modalità di esecuzione e i tempi di consegna.

Il sistema inventato da Taylor ebbe un enorme successo e cambiò radicalmente l’organizzazione del lavoro nelle aziende, non soltanto statunitensi. Il fordismo, le catene di montaggio, la produzione standardizzata derivano come logica conseguenza dell’approccio adottato per la prima volta da Taylor. La loro eredità si trova oggi nelle fabbriche, nei call center e nei magazzini di tutto il mondo, dove la nuova tecnologia ha preso il posto dei cronometri di tayloriana memoria. Molti magazzinieri oggi utilizzano dispostivi portatili che forniscono indicazioni sui singoli compiti da eseguire. In Italia abbiamo già assistito a violente polemiche relative al controllo che Amazon potrebbe esercitare sui suoi dipendenti attraverso un braccialetto elettronico in grado di controllare con precisione se le mani dei dipendenti si stanno muovendo correttamente per eseguire l’attività richiesta dall’azienda. Sorvegliare a distanza i lavoratori durante lo svolgimento delle loro attività porta alla lesione della loro dignità e dei loro diritti. Il controllo attraverso un algoritmo è ancora più subdolo perché si utilizzano gli strumenti informatici per ridurre le persone a meri numeri da verificare, svilendo qualsiasi concetto di dignità umana associato alla parola lavoro. E l’asettico controllo operato dagli algoritmi rischia di produrre effetti maggiormente discriminatori rispetto alle valutazioni operate dai datori di lavoro. Viene da chiedersi se questo sia davvero progresso. Il profitto non può essere perseguito ad ogni costo, arrivando a considerare la salute dei lavoratori come un parametro per giudicare il loro operato.

Dopo una lunghissima gestazione, il governo italiano ha concesso un impianto minimo di tutele ai rider, dalla copertura assicurativa contro gli infortuni sul lavoro fino alla previsione di una retribuzione di base. Inoltre, è stata formalmente estesa la disciplina contro le discriminazioni prevista per i lavoratori subordinati. Anche l’accesso alla piattaforma digitale predisposta dai datori di lavoro, quindi, deve essere garantito a tutti i rider senza alcuna discriminazione. Si tratta di un primo passo verso una gig economy più equa. Al momento si tratta quantomeno di buone intenzioni messe nero su bianco, vedremo se verranno rispettate. Inoltre, queste norme non si applicano a quei lavoratori diversi dai rider che però prestano le loro attività interfacciandosi allo stesso modo con piattaforme digitali.

Agli albori di questa nuova era del lavoro. Sarebbe bello se lo Stato e le aziende dimostrassero di aver imparato qualcosa da decenni di lotte e rivendicazioni sindacali. La storia ci ha insegnato che il progresso si persegue garantendo condizioni di lavoro dignitose e libere da ogni suggestione che equipari il lavoro a una merce da scambiare. È la nostra carta costituzionale a sancire il principio per cui il lavoro deve essere tutelato in tutte le sue forme e le sue applicazioni. Come dimostrano queste esperienze è facile che l’utilizzo di nuove tecnologie e di nuovi metodi di controllo conduca al tradimento dei valori fondanti della nostra Repubblica, per questo è ancora importante tutelare i lavoratori, soprattutto quelli che appartengono alle categorie più svantaggiate.

Segui Alessio su The Vision