Nel suo libro del 2018 Empowered. Popular Feminism and Popular Misoginy, la professoressa di comunicazione della University of Southern California Sarah Banet-Weiser avanzò una teoria audace: l’autrice vedeva nell’ascesa del femminismo pop e nell’ascesa della misoginia organizzata online, chiamata anche “maschiosfera”, due movimenti paralleli, all’apparenza opposti, ma motivati da ragioni e istanze speculari. Oggi, diverse ricerche sembrano confermare l’ipotesi di Banet-Weiser: l’Economist ha comparato dati provenienti da 20 nazioni ricche, tra cui l’Italia, osservando come i giovani uomini stiano diventando sempre più conservatori, mentre le giovani donne sempre più progressiste.
Negli ultimi vent’anni, il divario tra le opinioni politiche di maschi e femmine è aumentato a livello globale: se negli anni ’90 non c’era molta differenza tra uomini e donne di età compresa tra 18 e 29 anni nell’autodefinirsi su una scala da 1 a 10 da molto liberali a molto conservatori, oggi il 27% in più di donne si colloca a sinistra rispetto a vent’anni fa. Tra gli uomini, si è registrato un aumento solo del 2%.
L’analisi dell’Economist va ad aggiungersi ad altre ricerche che riguardano l’attitudine dei giovani sulle questioni di genere: secondo un sondaggio del Survey Center on American Life, gli uomini della Generazione Z si sentono meno femministi dei Millennial (43% contro il 52%), una tendenza opposta a quella femminile. Metà degli uomini statunitensi concorda che “Oggi la società sembra punire gli uomini per il solo fatto di essere uomini” e crede che il proprio genere subisca discriminazioni. Uno studio del King’s College di Londra citato dal Guardian ha rilevato come un giovane su quattro sotto i trent’anni pensa che la vita sia più difficile per un uomo che per una donna. Il 16% dei maschi della Generazione Z pensa che il femminismo abbia causato più danni che benefici, una percentuale che supera quella dei Boomer.
Ci sono diverse ipotesi sulle ragioni di questo divario. La più diffusa riguarda il livello di istruzione: in generale, le donne sono più istruite degli uomini e la frequenza di un’università è stata collegata a idee politiche più liberali ed egualitarie. Oltre che sulle opinioni politiche, il gap nell’istruzione si farebbe però sentire anche nelle scelte di vita, di carriera e di relazione, portando le donne a essere più indipendenti e a sentire meno l’esigenza di accompagnarsi a un uomo. Questo scenario porterebbe gli uomini a considerare le donne come avversarie anziché come compagne, generando fenomeni di risentimento e la percezione di essere un gruppo discriminato.
Secondo Banet-Weiser, il collegamento tra queste disposizioni e l’ascesa del femminismo fra le giovani donne è diretto. Femminismo e misoginia, secondo lei, sono egualmente “popolari”, cioè non solo massificati, ma anche sempre disponibili attraverso la cultura pop e l’economia della visibilità. Nel femminismo pop, la questione della visibilità è centrale: oltre ad aver occupato l’immaginario attraverso le celebrity, la pubblicità e i media visuali, le femministe contemporanee hanno a cuore la questione della rappresentazione in ogni ambito della società, esigendo di vedere corpi e identità sempre più diversificate nei luoghi che contano. Di contro, gli uomini si sentirebbero accerchiati dalla visibilità delle istanze delle donne, elaborando una strategia di reazione che il professore di Giornalismo Jack Bratich ha chiamato “volontà di umiliazione culturale”, che si manifesta nell’apologia della violenza e dell’intimidazione come pratiche politiche ammesse e nella popolarità di veri e propri bulli, come l’influencer misogino Andrew Tate o lo stesso Donald Trump.
Femminismo e misoginia popolari sono speculari perché partono da un’istanza simile, ovvero l’idea di una crisi dei rispettivi generi. Le giovani donne si sentono oppresse dalla violenza e dalla discriminazione, mentre i giovani uomini pensano di essere sempre più irrilevanti nel contesto sociale e si sentono minacciati dall’ascesa economica e culturale delle loro coetanee. La lotta fra questi due movimenti si consuma però quasi esclusivamente nell’economia della visibilità, in un continuo alternarsi fra le due fazioni – prima Beyoncé femminista, poi il successo del film Joker, poi la pubblica umiliazione di Amber Heard durante il processo per diffamazione intentato dall’ex marito Johnny Depp, poi Barbie che sbanca il botteghino – in una continua lotta per l’egemonia dove ciascuno di questi eventi viene interpretato come una sconfitta per l’altra fazione.
Non a caso Internet viene considerato come un’altra causa della polarizzazione politica tra i generi. “Gli algoritmi ci catturano con contenuti che ci fanno paura o ci fanno arrabbiare, facendo sembrare il mondo più spaventoso e ingiusto di quanto sia realmente”, si legge nell’analisi dell’Economist. “Le donne che cliccano sulle storie del #MeToo ne vedranno sempre di più; idem per gli uomini che cliccano su storie di false accuse di stupro. Entrambi possono farsi un’idea esagerata dei rischi che possono incontrare di persona”.
Secondo Lilia Giugni, ricercatrice specializzata in questioni di genere e autrice del libro La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere), però, la questione è più complessa di così: “Al di là di ‘Internet’, bisogna individuare due specifici responsabili di questo stato di cose. Per prime, le grandi piattaforme social mainstream, che a causa del loro business model basato sull’estrazione dei nostri dati, facilitano la circolazione di contenuti classificati come ‘divisivi’ (tra cui, appunto, discorsi sessisti e reazionari). Poi, gli attori politici, da Trump a Bolsonaro, senza dimenticare alcuni omologhi di casa nostra, che negli ultimi anni hanno fatto leva sulle opportunità offerte sia dal malessere sociale che dal capitalismo di piattaforma per costruire una narrazione che ha fatto breccia in milioni di uomini, che si sono sentiti raccontare che le cause delle loro difficoltà vere e materiali sarebbero invece da imputare alle femministe”.
Da ormai trent’anni si parla di una “crisi della mascolinità”, che è stata associata al turbamento nei ruoli di genere apportato dal femminismo, ma soprattutto alla caduta del modello economico del breadwinner, cioè dell’uomo che “porta il pane a casa” e provvede ai bisogni della famiglia. Oggi questo tipo di organizzazione sociale è entrato in crisi non solo perché le donne sono arrivate nel mercato del lavoro entrando in competizione con gli uomini, ma anche perché il modello della famiglia monoreddito è diventato di fatto insostenibile. Il problema, aggiunge Giugni, è che “molti uomini sembrano considerare i problemi molto reali di cui fanno, anzi tutti facciamo, esperienza – come il precariato giovanile, la distribuzione ineguale della ricchezza o la commercializzazione dell’istruzione universitaria – una questione esclusivamente maschile, laddove invece dati attendibili ci mostrano che, se possibile, le donne se la passano pure peggio”.
È chiaro quindi capire perché gli uomini intrappolati in questa crisi rivolgano lo sguardo ai politici conservatori molto più di quanto non faccia la generazione dei Boomer. Questi partiti e i loro leader tratteggiano un mondo ideale in cui i ruoli di genere tradizionali vengono religiosamente rispettati e in cui la famiglia nucleare è la pietra angolare della società, ripristinando un’egemonia maschile che è messa in discussione. Non importa se questi partiti non abbiano alcuna soluzione concreta ai loro problemi materiali, ma anzi si facciano garanti del sistema capitalistico e degli interessi dei più ricchi e privilegiati. L’importante è offrire una visione alternativa e nostalgica dei rapporti tra i generi. In Corea del Sud, per esempio, dove negli ultimi anni si è sviluppato un maschilismo molto radicato, uno dei problemi più sentiti dagli uomini è la leva obbligatoria. Ma anziché lottare per l’abolizione della leva militare, i giovani uomini guardano con favore i partiti conservatori che vogliono estenderla anche alle donne.
La frattura ideologica tra i generi non è però un destino irreversibile e, soprattutto, tra i conservatori Boomer e i neoconservatori della Generazione Z ci sono in mezzo altre generazioni che possono avere un peso politico piuttosto rilevante. Starà proprio ai leader politici che stanno nel mezzo il compito di ricucire questa frattura: un mondo più equo e giusto, in cui tutte le persone possano vivere soddisfacendo i loro bisogni e i loro desideri, non è un’utopia per un particolare gruppo sociale, ma un progetto politico che si deve costruire a beneficio di tutti.