Anche per il Fmi il capitalismo è fuori controllo. O lo regoliamo o ci distruggerà.

Ida Minerva Tarbell è stata una delle prime donne a diventare un simbolo del giornalismo d’inchiesta, negli Stati Uniti dei primi anni del Novecento. In una delle poche foto che circolano di lei, è seduta alla scrivania, schiena diritta e penna alla mano. Muckrakers li chiamavano allora – o meglio in questo modo li chiamò Theodore Roosevelt, riferendosi a tutti quei giornalisti e scrittori che “scavavano nel fango” per raccontare la realtà. La sua inchiesta sugli abusi dell’allora uomo più ricco d’America John D. Rockefeller e della sua Standard Oil Company venne pubblicata su McClure’s Magazine in 19 episodi, per poi diventare un libro e, infine, un’inchiesta giudiziaria che portò la compagnia petrolifera a una condanna per violazione della legge sull’antitrust.

Ida Minerva Tund

Potrebbe essere una storia a lieto fine à la Davide contro Golia, se solo non sapessimo come si sono evolute le cose: la sentenza obbligò la Standard Oil a suddividersi in compagnie più piccole, le quali ebbero un enorme successo sul mercato azionario (due di queste diventarono la Exxon e la Mobil, ma ne discendono anche la Chevron e la ConocoPhilips) e Rockefeller rimase a lungo il monopolista più ricco d’America – probabilmente del mondo. Se non è la sconfitta dell’arroganza capitalista, quello che questa storia ci racconta è che i suoi meccanismi contorti li abbiamo sempre conosciuti. Eppure siamo andati avanti lo stesso, con pochi, quasi nessun correttivo, e oggi ci ritroviamo con un sistema economico che raramente viene messo in discussione – quanto meno non nella sua essenza – nonostante siamo costantemente posti di fronte all’evidenza della sua insostenibilità, prima di tutto quella sociale.

Secondo una ricerca del World inequality lab infatti, la disuguaglianza economica è aumentata in quasi tutte le aree del mondo dal 1980 al 2016, anche se a velocità diverse. In Paesi come la Cina, ad esempio, il boom economico ha fatto crescere di molto i guadagni della classe media, che prima era quasi inesistente, ma il dato non è comparabile con quello dei più ricchi: lo 0,001% più benestante ha visto il proprio portafoglio ingrossarsi di più del 3mila%, contro il 420% dei più poveri. Nel Vecchio continente, dove il divario è meno evidente, i più ricchi hanno comunque quasi raddoppiato i loro guadagni, mentre quelli della classe media sono aumentati del 34% e quelli dei più poveri solo del 26%. In generale, l’1% più ricco del mondo ha assorbito il 27% di tutta la crescita economica globale, mentre il 50% più povero solo il 12%: meno della metà. L’argomentazione più comune in difesa del capitalismo è che genera ricchezza, e che questa, a sua volta, crea benessere, ma per chi? È evidente che i benefici di questo sistema economico, specialmente nella sua versione non regolamentata, non sono per tutti e, anzi, che i suoi profitti vengono generati a spese di qualcun altro: i poveri del mondo e il pianeta.

Recentemente, persino il Fondo monetario internazionale si è accorto del fatto che qualcosa non va. Lo scorso aprile, durante la conferenza primaverile del Fmi e della Banca Mondiale sono state presentate le prospettive future della crescita globale. In quest’occasione, l’economista Wenjie Chen ha spiegato come il potere di poche, grandi aziende sia aumentato molto negli ultimi vent’anni – con buona pace di Adam Smith, della mano invisibile e del presunto potere autoregolatorio insito nella competizione. 

Per gli economisti, una delle conseguenze più evidenti di questo fenomeno è che, insieme al potere delle corporate, è aumentato anche il costo dei loro prodotti: non a fronte di un miglioramento nella qualità o di una volontà di investire nella ricerca, ma solo in quanto le aziende hanno aumentato il proprio margine di profitto. Chen e i suoi colleghi hanno infatti analizzato quasi un milione di prodotti in 27 Paesi e hanno riscontrato che le aziende leader di settore hanno accresciuto i loro guadagni del 30% in meno di vent’anni, l’8% tutte le altre. Questo non significa solo costi maggiori per i consumatori. In attesa che il mercato si regolasse da sé, questo si è concentrato nelle mani di pochissime aziende, per la precisione 4: Google, Amazon, Facebook e Apple. Guardare alla crescita dei loro profitti negli ultimi dieci anni è impressionante: lo stacco che hanno creato in termini di potere di mercato rispetto alle altre aziende le rende praticamente immuni alla competizione. Cosa stanno restituendo alla comunità? Sicuramente poco in tasse, visto che per la maggior parte ha sede in paradisi fiscali e non paga invece laddove ottiene profitto. In molti gioiscono nel sentire che alcune di queste investono nella sanità, ad esempio, ma un mondo in cui è un’azienda privata a decidere della salute delle popolazione non è un mondo auspicabile. Non si tratta di uno scenario solo ipotetico: già oggi i numeri mostrano che non esiste nessuna spinta naturalmente filantropica nel management di una multinazionale privata. Tornando infatti al rapporto del Fmi, si legge che se il margine di profitto delle grandi aziende fosse rimasto invariato dal 2000 ad oggi, il Prodotto interno lordo delle nazioni industrializzate sarebbe di almeno un punto percentuale più alto, ci sarebbero stati maggiori investimenti nell’innovazione, più benessere e minore disuguaglianza. Ergo, maggiore potere alle grandi aziende significa solo maggiori profitti per le grandi aziende. Peraltro, affidarsi alla benevolenza di qualche tycoon per i servizi minimi di base non solo è volutamente naïf, ma anche ingiusto: non è con la beneficenza che si restituisce alla comunità, ma con un’equa tassazione. 

C’è poi un aspetto ancora più pericoloso da tenere in considerazione quando si parla dei pericoli del monopolio: l’accentramento del potere economico genera potere politico. Questo significa lobbying, ma anche rischio di condivisione di informazioni confidenziali rilevanti, trasformate in armi per la censura delle opposizioni. Ne sono un esempio lampante Jair Bolsonaro – eletto grazie al sostegno delle grandi aziende dell’agroalimentare, ha subito promesso di cedere buona parte del territorio della foresta amazzonica alla coltivazione – o la Cina di Xijinping – un regime comunista che ha molto più in comune con il capitalismo di quanto molti vogliano ammettere. Il rischio che piattaforme così pervasive e senza alcun controllo vengano utilizze per fini politici, poi, è stato reso piuttosto evidente anche in Occidente da scandali recenti come Cambridge Analytica o il Russia Gate.

L’insostenibilità del capitalismo neoliberista non riguarda solo l’aspetto sociale e politico, ma anche quello ambientale. L’ultimo rapporto dell’Onu sulla biodiversità è eloquente: il cambiamento climatico sta progressivamente distruggendo la vita sul pianeta. Circa un milione di specie sono a rischio estinzione, i coralli stanno morendo, le foreste pluviali si stanno trasformando in savane e, solo nel 2016, 24 milioni di persone hanno dovuto lasciare la propria casa a causa dei disastri ambientali. Seppure variazioni nel clima si siano sempre presentate nella storia del nostro pianeta, il ritmo a cui si stanno verificando oggi toglie ogni dubbio sul fatto che le attività umane ne siano le principali responsabili: per gli scienziati l’intero ecosistema sta infatti collassando a una velocità decine di centinaia di volte maggiore rispetto agli ultimi 10 milioni di anni.

Come ha fatto notare Anna Pigot su The Conversation, nella narrazione di questo fenomeno esiste però una distorsione che ci fa perdere di vista il nocciolo del problema: tendenzialmente, sulla stampa e nei report scientifici, la colpa del cambiamento climatico viene imputata a una generica “umanità”, un concetto tanto inclusivo quanto ingiusto. Non tiene infatti in conto che non tutti i componenti di questa massa umana hanno le stesse possibilità di scelta, né le stesse responsabilità; banalmente, un capo di Stato, o il ceo di una multinazionale altamente inquinante hanno molto più potere di un cittadino medio e un cittadino medio della campagna indiana ha decisamente meno possibilità di scelta nell’acquisto e nei consumi di un cittadino medio della Silicon Valley.  Se però il primo genere di divario è insito in qualsiasi forma di governo, rappresentativa e non, e potrebbe inoltre essere superato se pensiamo che anche le piccole azioni contano moltissimo, il secondo è molto più difficile da scardinare, specialmente se non siamo disposti a mettere in discussione il sistema produttivo in cui viviamo.

È scontato che il capitalismo è un’invenzione umana, ed è chiaro che la logica predatoria dello sfruttamento delle risorse per il profitto non è una prerogativa delle democrazie liberali e liberiste: l’industrializzazione forzata a cui sono stati sottoposti Paesi come la Cina e la Russia non è stata certo a costo zero, né per l’ambiente, né per gli esseri umani. Non è passando da un regime assolutista e disumanizzante a un altro, altrettanto assolutista e disumanizzante, che potremo uscire da questa spirale negativa, ma è accettando l’evidenza: l’accentramento del potere di mercato e delle ricchezze non è sostenibile così come lo sfruttamento predatorio delle risorse – umane e ambientali – e la sovrapproduzione per l’aumento del margine di profitto. Riconoscere questi problemi, e individuare nell’assenza di regolamentazione del capitalismo il filo rosso che li lega tutti, è fondamentale per la loro risoluzione.   

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