La triste fine di Marco Travaglio

Dopo una vita passata a fare l’inquisitore dei potenti, Marco Travaglio si trova per la prima volta dalla parte del potere. Ma a questo punto si pone un nuovo problema: come farà il paladino del giornalismo di opposizione a diventare il paladino del giornalismo di governo?

La domanda stessa mette in luce la fragilità del sistema mediatico. Non è normale che ci siano giornalisti di opposizione e giornalisti di governo. Ma questa è la realtà. Lo vediamo soprattutto in televisione: ogni programma ospita un giornalista di centrodestra, uno di centrosinistra e uno grillino. Per il Movimento 5 Stelle c’è sempre Travaglio, titolare inamovibile. Gli altri fanno un po’ di turnover.

Se può consolarci, lo stesso fenomeno ha preso piede in tanti altri Paesi. Negli Stati Uniti hanno addirittura coniato un termine per descrivere queste figure: surrogates. I “surrogati sono persone che vanno in televisione a perorare la causa di un partito o di un personaggio politico, difendendolo da attacchi e spiegando la bontà delle sue azioni. Inizialmente erano soprattutto collaboratori o membri dello staff del politico di turno, ma sempre più giornalisti stanno accettando questo ruolo.

Quando parliamo di Travaglio facciamo riferimento a un fenomeno più ampio rispetto alla singola persona. Oggi, il giornalista è uno dei principali opinion leader in Italia. Non solo per quei lettori che condividono le sue idee. Sempre più giornalisti, sia in televisione che sulla carta stampata, sembrano muoversi sulle sue orme. Per questo usiamo il termine “travaglismo”.

Fin dall’inizio della sua carriera, negli anni Ottanta, Travaglio ha sempre fatto la stessa cosa: l’opposizione. Per quasi 25 anni il Berlusconismo ha costituito una miniera d’oro. In parte perché Travaglio ha mosso i primi passi professionali nell’impero editoriale del Cavaliere, ma soprattutto perché l’azione politica di Berlusconi ha fornito il carburante ideale per la sua fiamma giornalistica. Non è dunque un’esagerazione dire che Travaglio non esisterebbe senza Berlusconi. Il filo dei suoi ragionamenti porta quasi sempre ad Arcore. Persino il complesso “fenomeno Renzi” è stato totalmente interpretato come una derivazione del Berlusconismo, utilizzando l’efficace formula giornalistica del “Renzusconi”.

Il fatto che il Cavaliere sia sempre stato dentro (o molto vicino) alla stanza dei bottoni, ha garantito continuità nell’azione di molti giornalisti. Travaglio, da questo punto di vista, non è stato certamente solo, basta guardare l’esempio di Repubblica: con il declino di Berlusconi, il giornale di Scalfari sta faticando molto a trovare una nuova identità. D’altronde, il compito dei giornalisti è principalmente quello di controllare chi ha responsabilità di governo, analizzando ogni cosa con occhio critico. Utilizzando un’espressione molto comune nel mondo anglosassone, l’obiettivo si può riassumere così: keep them honest, manteniamoli onesti. E questo lavoro è un pilastro di ogni democrazia degna di questo nome.

In questa prospettiva, a Travaglio va riconosciuto il merito di aver combattuto tante battaglie importanti. Da Tangentopoli in poi, ha lavorato su molti casi di mafia e corruzione, come quelli relativi a Berlusconi e Dell’Utri. Tuttavia, la sacrosanta critica del potere ha gradualmente assunto le connotazioni di un’opposizione aprioristica e artificiosa. Si dipinge sempre il potere come marcio e corrotto, anche a costo di distorcere la realtà, per arrivare a un’unica conclusione: l’establishment fa schifo. Come è noto, la narrativa del “sono tutti ladri” tende a riscuotere grande successo. Il vero problema, si pone quando i giornalisti che partecipano a questo gioco iniziano di fatto a fare politica, trasformandosi in surrogati, e il tutto si fa ancora più complicato quando la loro forza politica vince e si trova a dover governare.

A partire dal dibattito sul referendum costituzionale del 2016, Travaglio è diventato, de facto, il portavoce del M5S: in parte perché è molto bravo a parlare in televisione, oltre che a scrivere, in parte perché il Movimento non è esattamente pieno di grandi oratori e letterati sopraffini. Visto il fervore con cui ne sostiene le posizioni, c’è addirittura chi sostiene che il direttore del Fatto sia sponsorizzato sotto traccia dalla Casaleggio Associati o da altre lobby del mondo grillino. A me sembrano solo illazioni: la mia impressione è che Travaglio ci creda davvero. E che ovviamente sfrutti una grande opportunità di visibilità e crescita.

Fino al 4 marzo 2018, il suo discorso a favore del Movimento è stato costruito in funzione della solita contrapposizione con le forze di governo. Poi è successo quello che forse neanche Travaglio si aspettava: dopo una lunga fase di consultazioni, il M5S ha preso la Bastiglia, e ci è riuscito grazie a un contratto con l’altro principale outsider, la Lega. Dopo tanti anni, un certo modo di fare opposizione diventa un modus operandi, un’abitudine di un certo tipo a ragionare, parlare e scrivere. Se una mattina ti svegli e improvvisamente ti trovi dall’altra parte del campo di battaglia, puoi trovarti disorientato. In questi giorni, stiamo assistendo a un difficile tentativo di ridefinizione del discorso Travagliano alla luce della vittoria grillina. Il primo dato interessante è che il fine di sostenere il M5S ha preso il sopravvento: per la prima volta, la principale attività del Fatto Quotidiano sembra essere giustificare l’operato del governo.

Visto che Travaglio è nuovo a questo gioco, sta sperimentando diverse tecniche. Facendo una sintesi possiamo individuare una strategia di breve, una di medio e una di lungo periodo. La prima è già stata esaurita – d’altronde si poteva utilizzare solo per un paio di settimane dopo la formazione del governo giallo-verde. Consisteva nel prendere tempo, invocando una sostanziale sospensione del giudizio. L’argomento si basava su una specie di garantismo politico: il governo è innocente fino a prova contraria o, in altre parole, non lo si può criticare perché non ha ancora fatto niente. Ma questa posizione è presto diventata impraticabile, soprattutto quando Salvini ha iniziato a rilasciare dichiarazioni incendiarie su base quotidiana. Di fronte a certe esternazioni è impossibile andare in televisione e dire: lasciamoli lavorare in pace.

Nel giro di qualche settimana è entrata così in gioco una strategia più sostenibile, in corso in questi giorni e che credo sarà portata avanti per diversi mesi: consiste nel lavorare sulla dicotomia tra grillini e leghisti. Secondo il nuovo schema, ogni cosa positiva fatta dal governo è merito del M5S, mentre ogni cosa negativa è colpa della Lega. A supporto di questa tesi, è già partita una narrazione secondo la quale i leghisti fanno solo tanto rumore, mentre i grillini lavorano in silenzio e portano a casa i veri risultati. Mentre Salvini fa annunci e si prende tutta l’attenzione, Conte e Di Maio sgobbano nell’ombra e difendono gli interessi degli italiani come grandi statisti.

D’altronde, Travaglio non si identifica nel governo tout-court. A lui sembra interessare solo il M5S e il fatto che sia al potere. Quindi ogni occasione è buona per bacchettare Salvini, stando attento a non compromettere la stabilità del governo. Perché Travaglio sa bene che, se si andasse a votare domani, la Lega sarebbe probabilmente il primo partito. Tuttavia, in queste prime battute, sembra che i crescenti attacchi alla Lega siano ancora piuttosto rudimentali e che ci vorrà un po’ di tempo per affilare i coltelli.

Se il M5S avesse fatto il governo col Pd sarebbe stato molto più facile portare avanti questa tecnica di guerriglia intestina: forse Travaglio era tra i principali sostenitori dell’accordo M5S-Pd proprio per questo motivo. Quando si tratta di attaccare quel che resta del Partito democratico, nessuno è più allenato di lui. Il problema è che su molti temi importanti, come la lotta all’evasione fiscale – ora i grillini sembrano sposare in pieno l’idea di un condono in stile Berlusconiano – il Movimento si è appiattito sulle posizioni della Lega. E così ha fatto anche Travaglio. Il tema dell’immigrazione è l’esempio più lampante di come Travaglio riesca a sostenere  qualsiasi cosa, pur di non mettere i bastoni tra le ruote all’attuale governo. Come ad esempio che ci siano dati acclarati sui rapporti tra le Ong e i trafficanti libici. Accuse che non hanno portato a nessun rinvio a giudizio, anzi. La procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su due specifiche Ong, Sea Watch e Open Arms.

Luca Lanzalone

Alla luce di questa complessiva sintonia, è sempre più difficile dire che i grillini sono buoni e i leghisti cattivi. Tra l’altro, il recente scandalo legato a Lanzalone ha reso, insieme ad altri episodi, questa costruzione dialettica ancora più traballante. Sempre più osservatori stanno accusando i grillini di essere diventati il supporting cast della Lega. Per uscire da questo dilemma, nel lungo periodo, Travaglio ha due alternative. La prima è appiattirsi a sua volta sulle posizioni della Lega, in una metamorfosi da surrogato giallo a surrogato giallo-verde – tra l’altro, la tipologia del giornalista penta-leghista è in grande ascesa da quando si è formato il nuovo governo. Se è vero che Travaglio viene da un mondo di destra (pre-Berlusconiana), e quindi potrebbe anche arrivare a sposare la cultura della Lega, sarebbe comunque un passaggio complicato, che lo costringerebbe a mettere in discussione tutto il lavoro svolto in questi anni. La seconda, più plausibile, è approfittare della divisione interna al M5S, tra grillini di lotta e grillini di governo.

In ogni caso, la condicio sine qua non per l’azione di Travaglio è l’esistenza di una divisione, una frattura, un conflitto. Nel caso Di Maio dovesse diventare indifendibile, si potrebbe fare leva sull’altro Movimento: tutti coloro che sono stati alla larga dai palazzi romani e possono ancora presentarsi come duri e puri. In questi giorni si è parlato molto di Fico come possibile leader di una fronda interna al Movimento. Francamente, non vedo che interesse avrebbe a mettere in discussione questo governo; quando mai gli ricapita, a uno come Fico, di fare il Presidente della Camera?

Il vero paladino del grillismo di lotta è un altro: si chiama Alessandro Di Battista, che ha avuto tra l’altro la lungimirante idea di non candidarsi in questa legislatura, cosa che lo rende il personaggio ideale per scalzare Di Maio al prossimo giro. Potrà dire che, a differenza degli altri leader del M5S, non è stato macchiato dalla fangosa azione di governo. Se i pentastellati dovessero superare il limite, proprio questa potrebbe essere la prossima carta di Travaglio e tutti i suoi discepoli: invocare la discesa in campo di un secondo M5S, rappresentato da Di Battista e altre anime nobili con la fedina penale pulita, che di fatto farebbe opposizione al primo M5S, quello che governa il Paese con la Lega. Da questo punto di vista, è significativo il fatto che, dopo le elezioni, Di Battista abbia iniziato a collaborare con il Fatto Quotidiano.

Questo scenario avrebbe anche l’innegabile vantaggio di consentire a Travaglio di fare ciò che sa fare meglio. Pur restando fedele al M5S, potrebbe guidare una forza che si oppone al governo. E il bello di questo gioco è che si può ripetere all’infinito. Se un domani Di Battista dovesse arrivare a Palazzo Chigi, basterebbe trovare un altro Masaniello all’interno del Movimento e ripetere la stessa operazione. Parafrasando una famosa espressione di Lyndon Johnson, la posizione ideale è stare all’esterno e fare pipì sulla tenda, piuttosto che stare nella tenda e fare pipì fuori.

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