Dopo aver inquinato il nostro futuro, ha senso fare figli e condannare anche loro?

Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata democratica americana, qualche mese fa in una diretta Instagram ha posto una questione che ha sollevato tante polemiche e che ha indubbiamente scosso le coscienze di molti: “I giovani hanno una domanda legittima: è ancora giusto voler avere dei figli?”. 

L’interrogativo non si riferisce soltanto alle crescenti difficoltà economiche che i giovani affrontano in tutto il mondo occidentale, ma nasce soprattutto per i cambiamenti climatici causati dall’uomo che stanno rendendo il pianeta sempre più inospitale. Ocasio-Cortez la ritiene una questione etica: anche chi non ha figli o non vuole averne è comunque investito da un obbligo morale nei confronti dei bambini già nati: il dovere di lasciargli un mondo migliore. 

Alexandria Ocasio-Cortez

“È necessario che tutti percepiscano l’urgenza del problema climatico,” ha aggiunto la deputata, “i politici che propongono di promulgare leggi annacquate, ci stanno uccidendo […] oggi la domanda non è più se le persone riconoscono il disastro dei cambiamenti climatici, la questione è quanto urgentemente vogliamo agire per trovare delle reali soluzioni”. I detrattori di Ocasio-Cortez hanno riportato la notizia con titoli semplicistici come “La deputata democratica afferma che le persone dovrebbero smetterla di procreare”.

A volte, la nascita di gruppi radicali come quelli del “Birthstrike” animato da giovani che dichiarano di non volere figli a causa delle implicazioni di un  “armageddon ecologico”, creano molto folklore ma pochi dibattiti costruttivi. Eppure, questo tema è uno spunto da cui partire per analizzare e comprendere la crescente sfiducia che, anche in Italia, coinvolge le persone della fascia di età tra i 24 e i 35 anni inibendole nel compiere scelte importanti per il loro futuro. 

L’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che tra il 2030 e il 2050 circa 250mila persone moriranno ogni anno per cause legate ai disastri climatici. Un milione di bambini nel mondo hanno già problemi respiratori legati all’inquinamento atmosferico, che sono la causa del 12% dei ricoveri pediatrici in Italia. Lo scorso dicembre, il presidente dell’Istituto superiore della Sanità, Walter Ricciardi, in un’intervista rilasciata al magazine di settore Sanità informazione ha detto chiaramente che “Il cambiamento climatico sta uccidendo le persone, soprattutto i bambini”. 

Un recente studio intitolato L’impatto del cambiamento climatico sulla fertilità pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters ha arricchito il discorso con un dato ancora più preoccupante: è stato provato che gli sconvolgimenti ambientali influenzano i modelli di fertilità in maniera diversa tra Paesi poveri e Paesi ricchi. Negli Stati in via di sviluppo, tendenzialmente la fertilità aumenta per rispondere al bisogno di manodopera che possa lavorare la terra, ma si riduce l’accesso all’istruzione a causa delle scarse possibilità economiche dei genitori. In quelli più sviluppati la fertilità diminuisce, ma per i bambini nati aumentano le possibilità di accesso all’istruzione e la sua qualità. Secondo lo studio “I danni climatici che aumentano il ritorno al lavoro agricolo ridurranno anche il rendimento relativo all’istruzione. La teoria economica e i risultati della ricerca, quindi, suggeriscono che i genitori si adatteranno all’aumento del prezzo relativo [della crescita di un figlio] spendendo meno risorse per educare i bambini e più risorse per aumentare la fertilità”.

I ricercatori hanno poi affrontato un ulteriore problema generato dai disastri ambientali, ossia l’aggravarsi del divario salariale di genere. In molte società è sulle donne che ricade la maggior parte della responsabilità nel crescere i figli: lo studio afferma che nelle società sviluppate, dove in media è richiesta un’istruzione più elevata, le donne risultano maggiormente coinvolte nel mercato del lavoro, guadagnano più di quanto viene offerto loro nelle economie arretrate e di conseguenza, aumentando per loro il costo-opportunità della gestione dei figli, diminuiscono le nascite. Al contrario, siccome gli uomini hanno un vantaggio rispetto alla popolazione femminile nei lavori manuali, nelle economie legate all’agricoltura “il costo-opportunità per le donne di crescere i figli può diminuire, portando ad un aumento della fertilità”, scrivono i ricercatori. 

Gli ultimi dati spiegano anche il livello di gravità del problema nei Paesi occidentali, dove il calo delle nascite – che fino a pochi anni fa era imputabile principalmente alla crisi economica – ora soffre un’ulteriore complicazione: la paura di generare figli in un mondo malato e inospitale. In un Paese come l’Italia, la notizia ha dei risvolti ancora più gravi perché va a sommarsi alle poco rassicuranti tendenze dal punto di vista demografico. I dati Istat sulla natalità, pubblicati a febbraio 2019, confermano il calo costante delle nascite: nel 2018 si sono contate 449mila nascite, 9mila in meno del record negativo registrato nel 2017. Rispetto a dieci anni fa risultano 128mila nati in meno. Allo stesso tempo la popolazione invecchia progressivamente: al primo gennaio 2019, le persone con più di 65 anni in Italia sono quasi 14 milioni, il 22,8% della popolazione totale, mentre i giovani con meno di 14 anni sono circa 8 milioni. In Italia manca il ricambio generazionale perché non si fanno figli, spesso per i timori legati alla precarietà o all’assenza del lavoro, ai cambiamenti climatici, alla politica nazionale e internazionale. 

Una parte della società fa sentire in colpa i giovani per i cambiamenti climatici a un punto tale che, in casi estremi, li spinge a chiedersi se sia giusto o meno procreare, e offusca la natura sistemica della crisi. Inoltre assolve i principali colpevoli – le corporazioni del combustibile fossile e l’immobilismo in materia dei governi globali – dalle loro responsabilità. A livello internazionale i Paesi si incontrano annualmente per tracciare linee guida per attuare l’accordo globale sul clima adottato a Parigi nel 2015: l’ultima volta è stata a dicembre 2018 in occasione del COP24 di Katowice in Polonia. Questi summit, anche se mossi dalle migliori intenzioni, agiscono troppo lentamente rispetto all’evolversi dell’emergenza climatica, soprattutto perché non riescono a smuovere la coscienza dei governi che guidano i Paesi più inquinanti al mondo. 

Negli Stati Uniti Trump ha negato per anni l’esistenza del riscaldamento globale e da presidente ha formalmente dichiarato di non voler applicare l’accordo di Parigi. Solo durante la sua visita in Inghilterra questo giugno ha ammesso che i cambiamenti climatici sono in corso per poi attribuirne la responsabilità a Cina e Russia. 

Dall’opposizione americana è arrivata una risoluzione congressuale denominata Green new deal, che ha tra i più accaniti sostenitori proprio Alexandria Ocasio-Cortez: un programma socioeconomico ambizioso che si prefissa di interrompere l’uso dei combustibili fossili per poi traghettare il sistema produttivo statunitense verso l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili al 100%, creando contemporaneamente posti di lavoro e stimolando l’economia. Pochi giorni fa la deputata democratica ha dichiarato che il progetto costerebbe agli Stati Uniti 10mila miliardi di dollari, una cifra enorme che rende ancora più chiara la misura della gravità del problema e l’ingente investimento necessario per risolverlo.

In Italia né dal governo né dall’opposizione emergono politiche che sembrano voler rispondere in modo incisivo a questi timori, evidenziando le prospettive limitate dei nostri politici emerse con le ultime elezioni europee, dove in Italia il tema dell’ambiente è stato a malapena toccato nella campagna elettorale. L’indifferenza della classe dirigente è resa ancora più grave dal susseguirsi da mesi di manifestazioni pubbliche, promosse soprattutto da parte della popolazione più giovane – le ultime sono quelle del movimento Global strike for future –, che chiedono di porre nell’agenda politica la nota che riguarda il cambiamento climatico. Nel recente Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza in Italia e in Europa stilato per Demos & Pi e Fondazione Unipolis sono sintetizzate le paure degli italiani  in tre indici: “insicurezza globale”, “insicurezza economica” e “insicurezza legata alla criminalità”. La prima voce detiene il primato con il 75% degli intervistati, e tra i punti che la compongono vi sono i timori legati all’inquinamento, alla distruzione dell’ambiente e della natura. 

Manifestanti prendono parte alla ‘Fridays for Future’ in Piazza del Popolo, Roma, 2019

Il dato è importante e indica che in Italia vi è un aumento della preoccupazione sul tema ambientale, ma il rischio, come scrive il sociologo e direttore del rapporto Ilvo Diamanti, è che i timori vengano “normalizzati”. La preoccupazione è che i cittadini accettino di convivere a malincuore con l’emergenza climatica, al massimo scendendo in piazza quando il problema bussa alla loro porta, ma che non li induca a chiedere ai politici di risolverla in maniera sistematica. I cambiamenti climatici influenzano la mancanza di fiducia nel futuro e la conseguente crescita minima della popolazione. È ovvio che la scelta di avere o meno un figlio sia personale e legata a diversi fattori, ma parlando in termini generali, si fanno figli quando si ha fiducia nel futuro, e ai giovani questa manca.

 
Ilvo Diamanti

L’Italia, in particolare, sta ignorando ogni tipo di politica economica, occupazionale e ambientale per l’avvenire: siamo ingabbiati in discorsi miopi ancorati al “qui e oggi” senza pensare a dove dirigere i nostri sforzi per il futuro. Gli italiani sono ostaggio di una retorica che fomenta le loro paure, incattivendoli, rendendoli cinici e diffidenti su tutto e privandoli della possibilità di sognare un mondo migliore. L’ambiente è il tema che soffre di più la mala politica, perché per essere risolto ha bisogno di un pensiero rivolto a oltre le prossime elezioni. Nel 1852 il capo indiano Seattle rispose all’offerta del governo degli Stati Uniti di acquistare le loro terre che “La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”. Dobbiamo impegnarci in prima persona e in maniera collettiva per imporre ai nostri politici di attivarsi, anche a livello globale, per la risoluzione del problema: questo è il più grande atto di responsabilità che possiamo fare per chi verrà dopo di noi.

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