La strana alleanza tra femministe radicali e reazionari

Quando, alla fine della sua presidenza, Obama promosse il famoso “bathroom mandate”, che imponeva a tutte le scuole di dotarsi di un bagno accessibile agli studenti transgender, l’America più conservatrice insorse, ma trovò un inaspettato alleato al suo fianco nella sua battaglia contro il “gender”: le femministe radicali. Il Women’s Liberation Front (WoLF), un’associazione a suo dire femminista, sì unì al gruppo cristiano Family Policy Alliance per protestare contro il mandato e proteggere le ragazze da presunti abusi sessuali che si sarebbero potuti consumare in questi misteriosi bagni no gender. La notizia di questo strano asse ebbe una certa eco soprattutto nella galassia dei blog e dei piccoli magazine conservatori: il sostegno delle WoLF veniva letto come la prova schiacciante della ragionevolezza delle posizioni cattoliche, perché se persino le femministe davano loro ragione, qualcosa voleva pur dire.

Oggi il bathroom mandate è stato revocato dall’amministrazione Trump – una mossa che si inserisce in un più ampio progetto di cancellazione dell’identità trans – e si è scoperto che le attività del gruppo WoLF sono finanziate dalla destra conservatrice e omofoba. È una tattica ben consolidata: la destra fa proprie certe posizioni reazionarie dei femminismi per fare propaganda contro quelle più progressiste. Forse qualcuno ricorderà il video di una ragazza russa che versava candeggina sulle gambe dei passeggeri seduti in metropolitana a gambe larghe, circolato sui media, anche italiani, come “ultimo delirio femminista”. Si è rivelato un falso orchestrato da un canale social vicino a Russia Today, la testata sotto diretto controllo del Cremlino. Eppure a volte la realtà supera la fantasia, o la trollata, e i gruppi femministi si ritrovano davvero fianco a fianco della destra più reazionaria.

Un esempio è quanto successo al consiglio comunale di Milano poco tempo fa. Il 26 ottobre scorso, il Tribunale di Milano ha ordinato al Comune di ratificare l’atto di nascita di una bambina nata in California in modo da far risultare entrambi i padri come genitori. Il 30, è arrivata in Consiglio una richiesta di audizione al sindaco Sala per “esporre argomenti contro la normalizzazione [della surrogazione di maternità], argomenti oscurati da una propaganda mainstream che non ha precedenti”. Il 5 novembre, un gruppo di consiglieri ha chiesto la convocazione di una “Commissione Congiunta” a cui dovevano partecipare, fra gli altri, la presidente di Arcilesbica Nazionale, Cristina Gramolini; la filosofa femminista Luisa Muraro; e la presidente di RadFem Italia, Marina Terragni. La lettera è firmata da esponenti di vari partiti e anche dal consigliere di Forza Italia Luigi Amicone, lo stesso che in Consiglio alcune settimane fa aveva proposto la vergognosa mozione anti-aborto, ritirata a Milano dopo le proteste ma accolta nella cattolicissima Verona. Nonostante le resistenze, il sindaco Sala ha dovuto comunque trascrivere l’atto di nascita.

Fa strano, comunque, vedere che alcune femministe siano disposte a partecipare a una Commissione al fianco di Amicone, membro di spicco di Comunione e Liberazione, fondatore della rivista pro-vita Tempi, voce onnipresente di tutti i notiziari cattolici, firmatario di un documento che sostiene che “gli aborti oltre la 12esima settimana costituiscono il 278% di tutti gli aborti” e che la pillola abortiva provochi “uccisioni nascoste”. Anche se sembra assurdo, in realtà è da un po’ che femminismo radicale e destra reazionaria si corteggiano, questo perché all’interno del movimento esistono molte correnti, e non tutte sono necessariamente vicine alla sinistra.

Il femminismo radicale è infatti un ramo che si sviluppa negli anni Settanta come movimento separatista rispetto alla maggioranza liberale. Anche se spesso il termine “radicale” viene usato in modo abbastanza generico per riferirsi a tutte quelle pratiche che mirano al rovesciamento dello status quo (e, in questo senso, tutto il femminismo lo è), in realtà questo aggettivo si riferisce al proposito di sovvertire il sistema patriarcale partendo dalle radici della questione, cioè dalla sottomissione delle donne. Le femministe radicali insistono sulla differenza del femminile rispetto al maschile e sono generalmente contrarie alla “cancellazione delle differenze di genere” che, a detta loro, è l’obiettivo della vicinanza tra il femminismo intersezionale e i movimenti Lgbtq+. Per questo tra le battaglie delle frange radicali ci sono l’opposizione al sex working e – come nel caso in oggetto al Comune di Milano – alla surrogazione di maternità, temi delicati e complessi su cui il mondo femminista ha opinioni variegate e generalmente condivise, ma anche l’opposizione ai diritti delle persone trans (che considerano una “parodia delle donne”).

La battaglia contro la pornografia fu la prima occasione in cui femminismo radicale e destre conservatrici si incontrarono. Tra gli anni Ottanta e Novanta, l’attivista Catharine MacKinnon si alleò con Edwin Meese, ultraconservatore e attorney general di Ronald Raegan, per promuovere la censura totale di tutti i contenuti che mostrassero atti sessuali. Meese e gli altri membri della Commission on Pornography citarono i lavori delle femministe radicali come ulteriore prova delle loro ragioni. Ed è questo il pericolo più grande che si corre quando due ideologie apparentemente in contrasto si trovano d’accordo e uniscono le forze, e cioè che le posizioni femministe vengano non solo banalizzate, ma anche strumentalizzate. Un esempio più recente è quello di Camille Paglia – guarda caso spesso citata da Tempi – che si dice lesbica, femminista e sostenitrice di Bernie Sanders ma che finisce per riscuotere molto successo a destra (Milo Yiannopoulos la cita come fonte di ispirazione) per le sue crociate contro il femminismo mainstream, che l’hanno fatta diventare una specie di eroina anti-femminista.

Le strumentalizzazioni, quindi, non sono infrequenti. D’altronde anche il testo della lettera aperta al sindaco Sala sulla questione della maternità surrogata lo si trova facilmente sul sito di Gian Maria Comolli, sacerdote antiabortista specializzato in bioetica che considera la legge sull’omofobia “una rischiosa legge che limita la libertà d’espressione”, una figura che non mi sembra molto vicina alle rivendicazioni del femminismo. E pensare che tra i firmatari di quella richiesta c’è anche ArciLesbica, che di attacchi omofobi dovrebbe saperne qualcosa. Queste sono le conseguenze per chi, arroccandosi esclusivamente sul femminile come valore assoluto, si dimentica di tutti gli altri e arriva ad assumere posizioni reazionarie: ritrovarsi al fianco di chi per decenni ha ostacolato le battaglie per l’autodeterminazione delle donne.

Il femminismo ha al suo interno una grande pluralità di correnti, perché è un movimento in evoluzione e non una dottrina o una religione ortodossa, e questo in generale è un aspetto positivo, dal momento che il confronto con posizioni diverse dalle proprie ha portato all’attenzione temi che magari potevano essere stati trascurati. Il problema però si pone quando si arriva ad appoggiare partiti o gruppi politici che sono storicamente ostili alle donne solo perché alcuni punti dei loro programmi si somigliano; quando ci si mette dalla stessa parte di chi dice che il #MeToo è da scemi; di chi sostiene che il bambin Gesù nel presepe non deve ricordarci i migranti – cosa che, come si legge, “piace tanto a Repubblica, ai Gad Lerner, ai Saviano, ai Calabresi, ai tanti pastorelli con il rolex” – ma “uno dei tanti bimbi uccisi con l’aborto o una piccola creatura, frutto della compravendita di gameti”; di chi si compiace del sostegno di Matteo Salvini – lo stesso che a un comizio sventolava una bambola gonfiabile che raffigurava Laura Boldrini. E questo solo perché è l’unica parte politica a sostenere certe posizioni, guarda caso quelle a favore dell’autodeterminazione delle donne trans (che per le femministe radicali trans-escludenti non sono donne).

Se i diritti trans vanno protetti al di là delle posizioni ideologiche, le altre questioni care al femminismo radicale – come la pornografia, il sex working o la maternità surrogata – possono essere e sono oggetto di discussione all’interno del mondo femminista e della società civile.

Certamente i motivi per cui le femministe e la destra reazionaria si oppongono alla gestazione per altri sono diversi, ma alla fine entrambi si ritrovano dalla stessa parte, cioè quella che ostacola i diritti. E in particolare, l’ostilità aumenta quando per l’attuazione di questi diritti sono coinvolti dei maschi. Il livore suscitato dalla trascrizione dell’atto di nascita della bambina con due padri con conseguente strappamento delle vesti in segno di protesta non si era infatti manifestato quando a giugno la stessa cosa era stata fatta, sempre a Milano, per quattro famiglie con due madri. E se la surrogazione di maternità è vista come un abominio, perché la si attacca solo quando coinvolge le coppie omosessuali e non le coppie eterosessuali, che costituiscono il 70% delle persone che vi ricorrono? Allo stesso modo, quando scagliarsi contro il maschile significa scagliarsi anche contro chi di maschile ha (o aveva) solo gli organi riproduttivi, possiamo parlare di antisessismo e di parità? A me pare di no. Perché così è facile raccogliere il favore di chi questa parità la vorrebbe negare non solo alle persone trans e omosessuali, ma a tutte le donne (che, tra l’altro, possono benissimo essere trans e omosessuali).

Io credo che il femminismo debba aggiungere diritti, non toglierli, dovrebbe lavorare sempre per arricchire e ampliare, e mai per ostacolare. A questo ci pensano già le destre reazionarie.


Rettifica ex art. 8 L. 47/1948 di lunedì 7 gennaio 2019 ore 10:00

*Con riferimento all’articolo La strana alleanza tra femministe radicali e reazionari del 3 gennaio 2019, pubblichiamo di seguito la richiesta di rettifica che la giornalista Marina Terragni ha fatto pervenire via email alla Redazione di The Vision:

“1. Non è pensabile definire transescludenti donne che sono in abituale e quotidiana relazione personale e politica con donne e uominiT, o che – è il mio caso – negli anni ‘80 hanno preso attivamente parte alla lotta del MIT per il riconoscimento anagrafico del cambiamento di sesso fino alla vittoria conseguita con la legge 164

2. Sempre per quanto mi riguarda: non sono affatto “presidente di RadFem Italia”: RadFem non ha presidenti né organismi direttivi di alcun tipo”.

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In merito alla dichiarazione di cui al primo punto, la Redazione di The Vision ritiene a propria volta doveroso precisare che nell’articolo “La strana alleanza tra femministe radicali e reazionari” la menzione delle cosiddette “femministe radicali trans-escludenti” ricorre soltanto nel quartultimo paragrafo, nell’ambito di un’ampia riflessione sulla “grande pluralità di correnti” del movimento femminista e sui punti di contatto e di appoggio nascenti, per determinate questioni, tra alcune di queste correnti e taluni schieramenti politici storicamente “ostili alle donne”.

In nessun passaggio dell’articolo tale espressione viene utilizzata con riferimento a pensieri o iniziative della giornalista e femminista che ha fatto pervenire la propria richiesta di rettifica, citata, invece, con riguardo alla posizione assunta sulla diversa questione della “doppia paternità” e, più specificamente, con riguardo al caso dell’ottobre 2018 della rettifica dell’atto di nascita di una bambina nata in California, mediante la surrogazione gestazionale, ordinata dal Tribunale di Milano affinché entrambi i padri – una coppia omosessuale che ha appunto fatto ricorso alla maternità surrogata – fossero indicati come genitori.

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