9 donne italiane su 10 sono uccise da italiani. E a nessuno importa.

Sabato 3 novembre è stata una giornata intensa per Matteo Salvini. Prima, una bella foto con la madonna di Medjugorje, poi vari tweet indignati, un rapido riferimento ai disastri del Veneto, con tanto di selfie al chiaro di luna perché “Venezia è sempre Venezia”, anche quando a qualche chilometro di distanza sembra essere arrivato l’apocalisse, e poi l’aggiornamento quotidiano sul violentatore del giorno, ovviamente straniero. “La pacchia è finita,” dice, “per i vermi come lui”. Sempre quel sabato, una donna di origine rumena, Violeta Senchiu, veniva ricoperta con tre taniche di benzina e arsa viva dal compagno italiano. “Sì, un italiano, di quelli che vengono prima,” ha scritto su Facebook Valeria Collevecchio. Chissà se la pacchia sarà finita anche per chi Violeta l’ha uccisa, Gimino Chirichella, un 48enne di Sala Consilina, in provincia di Salerno.

È stato solo grazie al post di Collevecchio, che ha ricevuto molte condivisioni, che la notizia è riuscita ad arrivare alle testate nazionali, dopo che per diversi giorni era rimasta relegata a episodio di cronaca locale, al pari di un furto in un supermercato o di un arresto per spaccio. Niente tweet di Salvini, niente cortei di Forza Nuova, niente assedio di telecamere fuori dall’abitazione o interviste ai vicini che dicono che l’assassino salutava sempre. Nessuno ha posato fiori davanti al luogo dell’uccisione, nessuno ha condiviso su Facebook la foto di Violeta. Qualcuno ricorda il nome e il volto di Magdalena Monika Jozwiak? O quello di Ines Sandra Augusta Sanchez Tapperi? La prima, una donna di origine polacca, sarebbe stata gettata dal quinto piano di un albergo dal compagno Marco Messina, ora indagato. La seconda, una venezuelana, è stata uccisa dal marito, Marco Del Vincio, che poi si è suicidato. Entrambe le notizie si trovano solo su siti di news locali, perché a quanto pare una donna straniera uccisa da un italiano genera troppo poco traffico web. E insieme a Violeta, Madgalena e Ines ci sono tantissime altre donne, citate solo per nazionalità. Una marocchina uccisa, una rumena strangolata. Secondo gli ultimi dati disponibili, oltre un quarto delle donne uccise nel 2016 è di nazionalità non italiana e nel 41,1% dei casi l’autore risulta italiano.

In quanto donna è un gruppo di attiviste che si impegna a fare quello che i media non fanno. Nel loro sito raccolgono i volti e i nomi di donne vittime e uomini carnefici, insieme al modo assurdo in cui vengono raccontate le loro storie. I raptus, la gelosia, una coppia come tante, l’amore criminale, lui l’insospettabile, di lei – a meno che non sia una giovane e bella ragazza, a quel punto angelicata – a volte non si riporta nemmeno il nome. Oppure, se l’omicida è straniero, si arriva all’estremo opposto, alla galleria degli orrori, con le macabre e dettagliate descrizioni di come si uccide una donna e la si fa a pezzi. Due su tutti gli omicidi in cui i media hanno dato il meglio di loro nelle ricostruzioni spesso fantasiose delle dinamiche del delitto: quello di Pamela Mastropietro e quello di Desirée Mariottini, per entrambi i quali al momento risultano indagati diversi extracomunitari. Siamo stati bombardati dalle immagini delle due vittime, riproposte in modo quasi ossessivo da politici di ogni partito.

In questo modo si creano due narrazioni completamente diverse per raccontare esattamente la stessa cosa: un uomo che esercita il suo preteso diritto di proprietà sulla donna. La prima, la più diffusa, è quella dello straniero violento, che è senza ombra di dubbio un mostro, anche se nel caso di vittime italiane solo l’8% degli assassini è di nazionalità non italiana. Questa è la narrazione che abbracciano le destre per portare avanti non una campagna seria contro la violenza sulle donne, ma contro l’immigrazione. Per Salvini i violenti dalla pelle scura sono vermi e parassiti, gli italiani semplicemente non pervenuti. Lo stesso linguaggio è adottato anche da Giorgia Meloni, che anche se sembra farlo solo nei casi in cui a commetterla è uno straniero, dice di impegnarsi “Contro ogni forma violenza e sfruttamento, come l’utero in affitto”. Perché si sa, quella è la vera violenza, mica il marito che ti dà fuoco sul divano.

La seconda narrazione è quella delle dimenticate. Loredana Lo Piano, Alexandra Riffeser, Maria Zarba, Vasilica Nicoleta Neata, Maria Tanina Momilia, Licia Gioia: sono solo alcune delle donne morte negli ultimi due mesi per mano di italiani per cui nessuno ha fatto tweet commemorativi o hashtag che invochino #TolleranzaZero. Donne come Violeta Senchiu, di cui presto ci scorderemo, perché i loro volti e nomi non sono inseriti nell’agenda dei social media manager di Salvini e Meloni. Nella loro storia c’è spazio solo per il melodramma, per il racconto edulcorato di una tragedia che può essere solo annunciata o inspiegabile, senza vie di mezzo. Magari fra un paio d’anni diventeranno le protagoniste di una puntata di Amore Criminale, che non a caso racconta il femminicidio come se fosse una fiction Rai. Quello che è taciuto è che ogni violenza di genere non nasce per caso, non è follia, né raptus, è un processo lungo e complesso, che poco ha a che fare con l’amore o la gelosia e molto più spesso con le denunce non ascoltate.

Tutto ciò mentre, nel novembre 2017, il Consiglio dei ministri ha approvato il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne” che si articola in tre punti: prevenire, proteggere e perseguire. La struttura del documento si basa sulle linee guida della Convenzione di Istanbul, firmata in Turchia nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013. Per quanto riguarda la fase di protezione e sostegno, il Piano ha permesso l’attivazione della linea telefonica gratuita 1522 e di altri strumenti per favorire l’uscita dalla violenza. I punti relativi al perseguire e punire coinvolgono il miglioramento dei procedimenti giudiziari a tutela delle vittime di abusi, ma l’asse più importante, e forse più ignorato, è quello della prevenzione. Nel documento si legge che le priorità riguardano l’aumento di “consapevolezza nella pubblica opinione su le radici strutturali, cause e conseguenze della violenza maschile sulle donne” e la sensibilizzazione “del settore privato e dei mass media sul ruolo di stereotipi e sessismo nella violenza maschile contro le donne”.

Se lo Stato, ratificando la Convenzione di Istanbul, ha adottato la definizione di femminicidio come violenza “Fondata sulla disparità di potere tra uomini e donne […], un fenomeno sociale strutturale che ha radici culturali profonde, riconducibili a una organizzazione patriarcale della società”, non può sottrarsi al dovere di sensibilizzare i cittadini sulla base di queste premesse. È ovvio che la prevenzione non si fa facendo propaganda, dividendo gli assassini in mostri dalla pelle nera e amanti gelosi dalla pelle bianca. Anzi, portando avanti questo tipo di narrazione non si fa altro che rimarcare quell’organizzazione patriarcale della società che si dovrebbe combattere, appellandosi all’imperialismo insito in questa struttura.

Gli italiani che colpiscono una donna possono essere soltanto presi da scatti di rabbia o di follia, gli stranieri sono semplicementefatti così”, entrambi, per natura. In realtà, tutti gli uomini, a prescindere dal colore della pelle, quando commettono una violenza o un omicidio su una donna all’interno di una relazione affettiva o familiare, stanno esercitando il loro diritto di proprietà su di lei, abusando del potere di cui si sentono legittimati per il loro genere dalla società.

È curioso notare che il Senato, quando ratificò la Convenzione di Istanbul nel 2014, non accolse gli articoli 29 e 30 che riguardano il diritto della vittima a ottenere un risarcimento dallo Stato quando l’autorità non abbia adottato le misure di prevenzione o di protezione necessarie. Sono tantissimi i casi in cui lo Stato è venuto meno in tal senso. Come nella vicenda di Flora Agazzi, ferita lo scorso ottobre con una pistola dall’ex marito Salvatore D’Apolito, già denunciato un anno prima per maltrattamenti; oppure nell’omicidio di Immacolata Villani, uccisa davanti alla scuola della figlia dal marito, Pasquale Vitiello, denunciato appena qualche giorno prima. Ma lo Stato viene meno alla prevenzione anche quando adotta la doppia retorica del femminicidio, tacendo le vere cause della violenza di genere e limitandosi a dare la colpa a una sola categoria di persone. D’altronde si sa, trovare un capro espiatorio è più comodo. E soprattutto utile.

Di come Salvini viva in una perenne campagna elettorale ce ne siamo accorti tutti. Le donne sono totalmente assenti, se non in qualità di ex fidanzate che lo lasciano su Instagram, di incarnazioni del male come Laura Boldrini, o di vittime di violenza, se e solo se perpetrata dagli stranieri. Tutte le altre sono invisibili, perché non sono necessarie. Invisibili come Violeta Senchiu.

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