Non basta “aiutare” le donne. Le faccende domestiche sono un compito che va condiviso.

Sempre più uomini rivendicano il fatto di non lasciare le proprie compagne sole nello svolgimento delle faccende domestiche. Lo sottolineano con orgoglio, mettendo le mani avanti durante qualsiasi discorso che riguardi le lamentele di una donna sovraccarica di impegni e responsabilità quotidiane.

Eppure è proprio il concetto di aiuto a rivelarsi sbagliato. Aiutare vuol dire “prestare ad altri la propria opera in momenti di difficoltà o per cose che non sarebbero capaci di fare da soli”. Mentre in questo caso si tratta di dividersi equamente dei compiti. Alle donne è infatti ancora affidata la maggior parte del carico del lavoro di cura domestica. E se hanno compagni che le “aiutano” (per gentilezza o sotto richiesta), in ogni caso subiscono ancora tutto il carico mentale, da intendere come il pensare e il progettare la cura della casa e delle persone. Fare la spesa, cucinare, pulire, prendersi cura delle necessità dei vari componenti della famiglia, e conciliare tutto con il lavoro. Tutte queste cose comportano una buona dose di stress. Ricordo che durante il liceo, a ridosso delle vacanze estive, una volta dissi con entusiasmo: “Non vedo l’ora di andare in vacanza!”. Mia madre, che stava pulendo casa mentre io me ne stavo comodamente seduta sul divano, disse: “E io quando ci vado in vacanza?”. Questa è una scena triviale eppure immagino che sia successa a molti e che in sé contenga un grande spunto di riflessione, che non sempre siamo disposti a cogliere.

Anche se le donne sono entrate nel mondo del lavoro con gli stessi orari dei colleghi, il lavoro di cura pesa ancora in modo quasi esclusivo su di loro. L’obiettivo del femminismo della seconda ondata, oltre a quello del diritto all’aborto, del divorzio e del riconoscimento della parità tra uomini e donne, era quello di dimostrare come queste ultime fossero state sempre confinate in quel ciclo di faccende domestiche non riconosciute come lavoro vero e proprio e dato per scontato. Quel lavoro improduttivo, infatti, non sarebbe altro che un lavoro “nascosto”, invisibile e dato per scontato, e che soprattutto non prevede giorni di riposo. A parlare del lavoro di cura in modo più esaustivo è  Alisa del Re, docente della facoltà di Scienze Politiche presso l’Università di Padova. In Questioni di genere: alcune riflessioni sul rapporto produzione/riproduzione nella definizione comune, pubblicato su AG About Gender: International journal of gender studies, la docente si sofferma su un’analisi dettagliata di cosa rappresenti questo lavoro improduttivo.

Una prima distinzione va fatta tra lavoro domestico, lavoro riproduttivo e lavoro di cura. “Il lavoro domestico è il lavoro elementare, quello che serve per sopravvivere, e cioè pulire, lavare, cucinare, fare la spesa etc.; chiamiamo lavoro di riproduzione il lavoro che serve a riprodurre ‘la specie’: non è solo fare figli, è crescerli, è creare le condizioni indispensabili per la continuità della vita, è occuparsi delle persone dipendenti. Il lavoro di cura ha a che fare con le relazioni, con la continuità dei rapporti, con l’affetto, con il sesso. Non sono esattamente separabili, s’intersecano e si sovrappongono, anche se hanno caratteristiche peculiari e sono costituiti da compiti che possono essere attribuiti – prevalentemente – a soggetti diversi”. Del Re prosegue sostenendo che “il lavoro elementare sia considerato il più semplice, facilmente trasferibile e misurabile. Tradizionalmente attribuito alle donne, è sempre stato affidato loro in modo esclusivo, considerato ‘gratuito’ ed erroneamente e strumentalmente giudicato come segno d’amore. Nella storia più recente le classi più abbienti e la borghesia hanno sempre delegato ad altre persone il lavoro elementare. Questo infatti si può mercificare, il suo tempo è misurabile e il suo costo è quantificabile. È un lavoro ripetitivo, faticoso, noioso, necessario, ma comprimibile”.

Con il loro ingresso nel mondo del lavoro, soprattutto a partire dagli anni Settanta, le donne hanno ottenuto quella che Alisa del Re definisce “la doppia giornata lavorativa della donna”: una donna, un salario e due lavori. Di conseguenza, si è cercato di trovare una soluzione, introducendo un salario per questo lavoro domestico. Nei contesti più benestanti questa si è tradotta in una terza figura all’interno del nucleo familiare, la maggior parte delle volte un’altra donna che, percependo un salario, si prende cura della casa di qualcun altro. Così oggi abbiamo due donne, due lavori ma un solo salario, cosa che non risolve davvero il problema e per di più il lavoro domestico è spesso sottopagato, svalutato e non tutelato né regolamentato.

Anche se questa tematica a livello mediatico sta trovando più spazio, contribuendo in un certo modo a sensibilizzare la società, è ancora vero che il lavoro di cura e organizzazione del nucleo familiare grava ancora in maggioranza sulle donne. Da un’indagine svolta da Save the Children nel 2017 è emerso che in Italia una donna dedicherebbe in media 3,25 ore al giorno alle attività domestiche (cucinare, lavare, riordinare le stoviglie, pulire e riordinare la casa, stirare, curare il vestiario, prendersi cura del giardino o delle aree verdi dell’abitazione e occuparsi degli animali, costruzioni e riparazioni di vario genere e gestione della famiglia) contro 1,22 degli uomini. A questo si aggiunge la parte organizzativa, per cui le donne devono istruire, chiedere aiuto e guidare gli uomini verso la realizzazione di una parte delle faccende da svolgere.

A parlare di questo carico mentale è anche l’artista francese Emma Clit. A febbraio uscirà per Laterza il suo fumetto Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano curato da Loona Viederman e Giovanni Anastasia e con una prefazione di Michela Murgia. Nelle prime strisce del libro rese disponibili in anteprima e diffuse sui social si parla proprio di questo carico mentale. Secondo Emma Clit, “Quando il partner aspetta che la propria compagna gli chieda di fare delle cose, significa che la vede come l’unica responsabile del lavoro domestico. Quindi tocca a lei spiegare cosa bisogna fare e quando bisogna farlo. Il problema di tutto ciò è che pianificare e organizzare le cose è già un lavoro a tempo pieno. […] Dunque, quando chiediamo alle donne di fare tutto questo lavoro di organizzazione e allo stesso tempo di svolgerne una buona parte, stiamo chiedendo loro di fare il 75% del lavoro complessivo”.

Un carico mentale eccessivo ha gli stessi effetti dannosi a lungo andare del logorante lavoro di cura: è continuo, quotidiano, stressante, anche perché non prevede pause né limiti. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se le donne smettessero di farsi carico della mole di responsabilità che viene tradizionalmente affidata a loro. Se mia madre, non solo quando ero piccola, ma anche durante l’adolescenza, avesse davvero deciso di scioperare, come minacciava spesso di fare, io probabilmente all’epoca mi sarei sentita completamente persa. Ma forse, se lo avesse fatto davvero, a quel punto sarei stata costretta a fare la mia parte.

Bisogna liberarsi del preconcetto che per le donne il lavoro domestico sia una predisposizione naturale e innata. La realtà è che, come ha scritto Elena Gianini Belotti in Dalla parte delle bambine, saggio del 1973,  le donne subiscono un addomesticamento fin dalla prima infanzia attraverso i giochi. Nel suo testo di ricerca la pedagogista, dopo aver osservato diverse scuole dell’infanzia, ha notato come siano le maestre o comunque gli adulti in generale a indirizzare le bambine e i bambini attraverso l’utilizzo di alcuni giochi piuttosto che altri. I giochi servono a costruire le capacità dell’adulto che il bambino diventerà. Emblematico è il caso di un bambino che è stato deriso dalle stesse maestre per aver espresso la preferenza di giocare con un bambolotto piuttosto che con macchinine e passatempi considerati più maschili.

Questo è evidente entrando in un negozio di giocattoli, dove spesso esiste ancora una netta separazione degli spazi: blu per i maschi e rosa per le femmine, con macchinine, camion e giochi di intelligenza per i primi e bambole, trucchi e piccoli elettrodomestici per le seconde. I bambini vengono educati a esplorare il mondo circostante, ad abbandonare le mura domestiche, mentre alle bambine si insegna a diventare “angeli del focolare” in miniatura. Di conseguenza, questi giochi, che non vengono scelti dai bambini, ma vengono imposti dagli adulti, contribuiscono a formare nella mente dei futuri adulti il pregiudizio che ci siano cose che per predisposizione naturale sono “da femmina” e altre “da maschio”.

Dovremmo tutti riflettere su quanto carico mentale imponiamo alle donne che vivono insieme a noi, a quanto pretendiamo da loro e a quanto devono rinunciare per fare cose che potremmo fare da soli, con un briciolo di impegno. Un aiuto saltuario nelle faccende domestiche non è una conquista, è il minimo sforzo fatto. Per far sì che le cose cambino davvero, per raggiungere un’equa distribuzione dei compiti, è necessario farsi carico attivo della metà del lavoro quotidiano per poter dire di aver raggiunto una parità reale nella coppia anche tra le mura domestiche. Non ci sono scuse.

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