Tutto ciò che devi sapere sul Donbass ma non hai osato chiedere perché credi alle balle di Putin - THE VISION

Nell’era dei social, siamo abituati a leggere parole chiave su qualsiasi argomento fino ad assimilarle e a credere che rappresentino la realtà. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità” è una citazione calzante a tal proposito, sia perché spiega alla perfezione questo meccanismo sia perché si è diffusa la convinzione che sia una frase di Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich. Nel passaparola virtuale è infatti stata attribuita a lui ma in realtà non l’avrebbe mai pronunciata. Ad ogni modo, questa è l’ennesima dimostrazione che esistono realtà che, attraverso una ripetizione martellante, diventano una certezza, a maggior ragione per chi non si è mai informato sull’ambito in cui si inseriscono. Oggi, relativamente alla guerra in Ucraina, la parola usata maggiormente per giustificare le azioni di Putin o per darsi un tono da analisti “non allineato” è sempre la stessa: Donbass.

Goebbels con i soldati del Volksturm a Lauban, in Slesia, 1945

Tutto nasce dalle parole dello stesso Putin, che afferma di essere in guerra per “fermare il genocidio nel Donbass che dura da otto anni”. Una frase che ha fatto breccia nella galassia sovranista e tra le frange complottiste del web, con un tam-tam che si è esteso anche ai commentatori più moderati, che sembra abbiano iniziato a prendere per vere affermazioni non confermate, come ad esempio il fatto che dal 2014 gli ucraini abbiano ucciso 14mila civili filorussi nel Donbass. Il fact-checking, in questi casi, è l’unica arma per verificarne la veridicità e capire le cose stiano davvero così. La risposta è semplice: no.

Vladimir Putin

Intanto bisogna sfatare il mito del genocidio. Riallacciandoci alla Treccani, il genocidio consiste in una “metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui”. La guerra nel Donbass ha causato 5700 morti tra i militari filorussi e 4150 tra i corrispettivi ucraini. Numeri da guerra civile, certo, ma non di certo da genocidio, considerando che le perdite sono avvenute da entrambe le parti. Per fare un paragone, in circa un mese di guerra in seguito all’invasione russa ci sono state molte più vittime tra i soldati russi e ucraini che in otto anni nel Donbass. È ancora impossibile, in ogni caso, definire una cifra esatta per il conflitto attuale, anche perché i morti aumentano giorno dopo giorno. Per ora ci si è affidati alle stime. Secondo quelle del governo di Kiev ci sono stati più di 16mila morti tra i soldati russi. Il quotidiano governativo Komsomolskaya Pravda la scorsa settimana ha riportato i bilanci del ministero della Difesa russo che parlavano di 9861 militari uccisi e oltre 16mila feriti. Il post del quotidiano è sparito dopo poche ore dalla pubblicazione, con la giustificazione che il sito sarebbe stato vittima di un attacco informatico. Non ci sono invece stime ufficiali o affidabili sulle perdite tra i soldati ucraini; il 12 marzo il Presidente ucraino Zelensky ha parlato di circa 1300 soldati ucraini uccisi dall’inizio delle ostilità il 24 febbraio, ma non si tratta di una cifra verificata in modo indipendente.

Volontari del battaglione di Donbass, Lugansk, 2015
Il corpo di un soldato russo, Ucraina, 2022

Parlando delle vittime tra i civili, quelle certificate nel Donbass durante il conflitto iniziato nel 2014 sono 3400. Per quanto riguarda i civili ucraini uccisi dai russi durante l’invasione attuale, anche qui non c’è un numero esatto. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani parla di almeno 1035 civili uccisi dagli attacchi russi, ma i funzionari ucraini forniscono altre cifre, spiegando che soltanto a Mariupol, assediata da più di tre settimane, i morti tra i civili sarebbero più di 2500. L’unica certezza è che, confrontando le stime ucraine, quelle russe e quelle di organizzazioni terze, in un mese di guerra ci sono stati più morti (tra soldati e civili) che in otto anni di conflitto nel Donbass.

Un altro dato di fatto è che l’azione di Putin non si è limitata a colpire – a suo dire per evitare il perpetrarsi di un genocidio – la regione del Donbass, ma si è estesa a tutta l’Ucraina. Putin è poi stato smentito da più organizzazioni. La Corte internazionale di giustizia dell’Onu ha dichiarato che in Donbass non è in corso alcun genocidio, e il pretesto usato dal leader russo per invadere l’Ucraina è infondato. Anche l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), operativa con le sue missioni nel Donbass dal 2014, non ha mai denunciato elementi che possano far parlare di genocidio.

Un’altra frase usata sui social per legittimare l’invasione russa, anche questa di matrice putiniana, è che “in Ucraina ci sono i nazisti”. Putin ha infatti dichiarato guerra a Kiev proprio parlando della volontà di “denazificare” l’Ucraina. La keyword in questo caso è Battaglione Azov, ovvero una milizia con ideali neonazisti che conta circa 2500 affiliati. Un numero esiguo per parlare di denazificare una nazione con 40 milioni di abitanti. A livello politico poi, il partito più a destra nel panorama ucraino – Svoboda, definito neofascista più che nazista – alle elezioni presidenziali del 2019 ha ottenuto il 2,15% delle preferenze. Restando in ambito militare, ci sono parecchie falle e incoerenze nel discorso di Putin. La principale riguarda la scelta di affidarsi a milizie esterne estremiste tanto quanto il Battaglione Azov. È il caso del gruppo Wagner, agenzia di sicurezza privata fondata dal neonazista Dmitry Utkin. La compagnia di mercenari, che molti analisti sostengono essere ormai un esercito ombra a disposizione del ministero della Difesa russo, è presente nel Donbass già dal 2014, oltre a essere intervenuto negli ultimi anni in Siria, Libia, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Sudan e Mali. 

Il Gruppo Wagner in Siria (foto Twitter)

Tornando alla questione del Donbass: è necessario partire dagli antefatti che hanno preceduto l’escalation del 2014. Bisogna concepire innanzitutto le differenze culturali tra l’Ucraina occidentale e quella orientale, sia a livello linguistico che religioso, con la contrapposizione tra cattolicesimo e ortodossia. Questo dualismo si può riassumere con i risultati delle elezioni presidenziali del 2010, dove nelle zone occidentali trionfò Yulia Tymoshenko, di posizioni europeiste, e in quelle orientali Viktor Yanukovich, esponente dei partiti filorussi. Dopo la sua vittoria per un ridotto scarto percentuale, Yanukovich nel 2013 decise di interrompere i negoziati politici e commerciali con l’Unione europea per stipulare con la Russia la concessione di un prestito di 13 miliardi di euro per risanare i conti statali. La svolta verso est fu accolta da manifestazioni e proteste di piazza in diverse parti dell’Ucraina, diventate simboliche con il nome di Euromaidan e inizialmente contrastate dal governo. Le proteste si conclusero poi con la caduta di Yanukovich e la sua fuga in Russia. Dopo quanto accaduto in quelle settimane, soprattutto a Kiev e nelle regioni occidentali dell’Ucraina, si è rafforzato un sentimento europeista accompagnato dal desiderio di affrancarsi dall’orbita russa, confermato dall’elezione dell’europeista Petro Poroshenko nel giugno 2014.

Yulia Tymoshenko
Viktor Yanukovych
Petro Poroshenko

Putin sfruttò immediatamente la precarietà in Ucraina dell’Est, dove era presente il maggior numero di comunità filorusse. Decise dunque, nel febbraio del 2014, di invadere la penisola di Crimea. I soldati russi entrarono sul territorio senza le divise ufficiali guadagnandosi il nomignolo di “omini verdi, perché Putin voleva far credere che appartenessero a milizie locali. Soltanto nel 2015 ammise che erano militari russi. Insediandosi in Crimea, indisse un referendum per l’annessione alla Russia. Vinse il “Sì”, ma l’Onu, attraverso la Risoluzione 68/262, respinse la legittimità del referendum, e così fecero l’Unione europea e gli Stati Uniti insieme ad altri 71 Paesi membri delle Nazioni Unite. Putin andò avanti lo stesso, e la Russia fu sanzionata economicamente.

Ispirate da quanto accaduto in Crimea, nacquero nel Donbass la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk, con l’intento di staccarsi dall’Ucraina. Inizialmente le due repubbliche separatiste tentarono di unirsi in un’entità chiamata Stato federale della Nuova Russia, ma il progetto venne sospeso e le repubbliche restarono divise. Le rivolte vennero supportate dalla Russia, che fornì armamenti ai separatisti, oltre a inviare miliziani che combattessero al loro fianco, come ad esempio i mercenari del gruppo Wagner. Mosca, come per la Crimea, inizialmente smentì il loro coinvolgimento militare, fino a quando le prove non diventarono troppo evidenti, con tanto di soldati russi catturati.

Separatisti filo-russi durante la parata per i festeggiamenti del 70o anniversario della vittoria sovietica contro il nazismo, Donetsk 9 maggio 2015

Il governo ucraino reagì e dispiegò le sue forze armate per reprimere le insurrezioni nel Donbass. Anche in questo caso le principali azioni violente furono svolte da formazioni paramilitari, come il già citato Battaglione Azov, con crimini di guerra commessi da entrambe le parti in conflitti. Violenze non circoscritte soltanto al Donbass, come dimostra la Strage di Odessa nel maggio 2014, quando un gruppo di estremisti di destra filoucraini diede fuoco alla Casa dei Sindacati, dove erano presenti esponenti filorussi. Il rogo causò la morte di 48 persone. Per porre fine alle ostilità in Donbass, il 5 settembre del 2014 fu firmato il protocollo di Minsk, in Bielorussia, alla presenza di rappresentanti dell’Ucraina, della Russia e delle repubbliche separatiste. La richiesta del cessate il fuoco, però, non fu mantenuta, ed entrambe le fazioni continuarono a combattere.

Fu costretta a intervenire l’Unione europea, e l’11 febbraio del 2015 fu firmato il protocollo Minsk II alla presenza dell’allora Cancelliera tedesca Angela Merkel e del Presidente francese François Hollande. Anche questo trattato non servì a porre fine alle ostilità, che diventarono una guerra di posizione proseguita fino al febbraio di quest’anno. Quando si insediò alla presidenza dell’Ucraina Zelensky, nel 2019, il conflitto aveva perso il suo vigore iniziale, e una delle priorità del Presidente neoeletto era proprio l’intenzione di risolvere le ostilità. 

Alexander Lukashenko, Vladimir Putin, Angela Merkel e Francois Hollande Minsk, 2015

Nessuno nega la strage di Odessa o la violenza attuata in diverse occasioni contro la popolazione filo-russa nell’Ucraina orientale. Fu però una guerra combattuta da due fazioni, quindi è scorretto – oltre che falso – parlare di genocidio. È errata anche la motivazione di Putin per l’invasione ucraina, considerando che si è spinto ben oltre il Donbass e che i fatti del 2014 non potevano costituire a oggi un pretesto per bombardare un’intera nazione. Anche il fantomatico processo di denazificazione è un’invenzione per giustificare la posizione di Putin che in più di un’occasione ha  negato l’esistenza dell’Ucraina come Stato sovrano. È importante comprendere come siano andate realmente le cose, invece di concentrarsi esclusivamente sulla situazione del Donbass per giustificare le atrocità commesse da Putin e giustificare la sua propaganda.

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